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A segnare profondamente la vita e le riflessioni di Freud giunge l’esperienza della prima guerra mondiale con i suoi sterminati massacri e con i gradi più alti raggiunti dalla crudeltà e dall’aggressività umana; inoltre negli ultimi anni Freud ha assistito sgomento alla nascita e allo sviluppo del nazismo hitleriano in Germania, al dilagare dell’antisemitismo e alla successiva adesione da parte dell’Austria. Il susseguirsi degli eventi lo costringe all’esilio volontario. Nel 1938, Freud sbarca a Londra con la famiglia.

Detto ciò occorre fare una distinzione tra il giovane Freud del primo novecento e quello più maturo e pessimista dell’Avvenire di un’illusione55 e Il disagio delle civiltà56. Infatti l’arte inizialmente è avvertita come qualcosa di trasgressivo e liberatorio, un modo per sfuggire alle limitazioni e alle imposizioni predisposte dalla logica e dalla razionalità, mentre successivamente l’arte viene intesa come una consolazione, un meccanismo di difesa. Freud, ormai maturo e disilluso, cerca di collocare l’arte all’interno del quadro generale della cultura umana. La dimensione estetica assume una funzione consolatoria, divenendo una difesa contro le frustrazioni e i traumi dell’esistenza. In questa prospettiva l’arte e la dimensione della fantasia rischiano di diventare una specie di riserva psichica in cui lasciare giocare e sfogare liberamente le pulsioni umane, altrimenti destinate ad essere sopraffatte dalle dure leggi del principio di realtà o a generare un pericoloso disordine. Nella XXIII lezione dell’Introduzione alla psicoanalisi Freud aveva già scritto:

54 Ivi, p.353

55 Sigmund Freud, L’avvenire di un’illusione in Opere, vol. X, Bollati Boringhieri, Torino 1990 56 Sigmund Freud, Il disagio della civiltà in Opere, vol. X, Bollati Boringhieri

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L’aver creato il regno psichico della fantasia trova pieno riscontro nell’istituzione di ‘riserve’, di ‘parchi per la protezione della natura’, là dove le esigenze dell’agricoltura, delle comunicazioni e dell’industria, minacciano di cambiare rapidamente la faccia originaria della terra, fino a renderla irriconoscibile. Il parco per la protezione della natura mantiene l’antico assetto, il quale altrove è stato ovunque sacrificato, con rincrescimento alla necessità. Tutto vi può crescere e proliferare come vuole, anche l’inutile, perfino il nocivo. Anche il regno psichico della fantasia è una riserva di questo tipo, sottratta al principio di realtà.57

Risulta interessante riportare quanto Freud scrive sull’arte nell’Avvenire di un illusione:

L’arte offre soddisfacimenti sostitutivi per le più antiche rinunce imposte dalla civiltà (ancor oggi sono le rinunce più profondamente sentite) e contribuisce perciò come null’altro a riconciliare l’uomo con i sacrifici da lui sostenuti in nome della civiltà stessa.58

E prosegue nel disagio della civiltà:

La vita, così come ci è imposta, è troppo dura per noi; ci reca troppi dolori, disinganni, compiti insolubili. Per sopportarla abbiamo assolutamente bisogno di qualche palliativo (‘Impossibile farcela senza costruzioni ausiliarie’ ci ha detto Theodor Fontane.) […] I soddisfacimenti sostitutivi che l’arte offre agli uomini sono illusioni che contrastano con la realtà; non per questo tuttavia, sono psichicamente meno efficaci, data la funzione che la fantasia ha assunto nella vita psichica…59

Freud riprende in queste pagine il concetto di sublimazione in una prospettiva più ampia e dà un’ulteriore spiegazione alla sua concezione dell’arte come difesa e consolazione:

Un’altra tecnica per sottrarsi al dolore ricorre agli spostamenti della libido, che il nostro apparato psichico consente e in virtù dei quali la funzione dell’apparato acquista tanta duttilità. Si tratta di dislocare le mete pulsionali in modo tale che esse non possano soggiacere alla frustrazione ad opera del mondo esterno. A ciò presta il suo aiuto la sublimazione delle pulsioni. Viene ottenuto il massimo allorché si riesce ad accrescere in misura sufficiente il piacere tratto dalle fonti del lavoro psichico e intellettuale. Il destino può ancora nuocerci limitatamente. Un soddisfacimento del genere, la gioia che ad esempio prova l’artista nel creare e a dare corpo alle immagini della sua fantasia, o quella del ricercatore che risolve problemi e scopre il vero, ha una qualità particolare, che certamente un giorno riusciremo a caratterizzare in termini metapsicologici. Per ora possiamo dire soltanto, in modo figurato che questa gioia ci sembra “più fine e più

57 Sigmund Freud,Introduzione alla psicoanalisi in Opere, cit. p.527

58 Sigmund Freud, L’avvenire di un’illusione in Opere, cit. pp.443-444 59 Ivi, p.567

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elevata” ma che, a paragone di quella derivante da moti pulsionali più rozzi, primari, che siano stati saziati, la sua intensità è minore: non scuote la nostra esistenza corporale. La debolezza di questo metodo sta però nel fatto che non è applicabile universalmente, essendo accessibile solo a pochi. Presuppone particolari disposizioni, o doti, che non tutti hanno. Neanche a tali pochi è in grado di garantire una protezione completa contro la sofferenza, non procura ad essi una corazza impenetrabile contro i dardi del destino e normalmente fallisce quando la fonte della sofferenza è il nostro corpo.[…] Qui la connessione con la realtà è meno salda ancora, otteniamo il soddisfacimento mediante illusioni riconosciute come tali, senza lasciarci turbare nel godimento dal divario che le separa dalla realtà. L’ambito dal quale scaturiscono queste illusioni è quello della vita fantastica; a suo tempo, quando si compì lo sviluppo del senso della realtà, essa venne espressamente sottratta alle pretese dell’esame di realtà e rimase destinata all’appagamento di desideri difficilmente realizzabili. Il primo posto fra queste soddisfazioni fantastiche è occupato dal godimento delle opere d’arte, reso accessibile anche a colui che non è creatore in proprio attraverso la mediazione dell’artista. Chi è sensibile all’influsso dell’arte non lo stimerà mai abbastanza come fonte di piacere e consolazione nella vita. La lieve narcosi in cui l’arte ci trasferisce non può tuttavia offrirci che un’evasione temporanea dagli affanni della vita e non è abbastanza forte da farci dimenticare la nostra reale miseria.60

E più avanti:

Possiamo inserire qui l’interessante caso in cui la felicità nella vita viene cercata prevalentemente nel godimento della bellezza, dovunque essa si presenti ai nostri sensi e al nostro giudizio: la bellezza delle forme e dei gesti umani, degli oggetti naturali e dei paesaggi, delle creazioni artistiche e persino scientifiche. Questo atteggiamento estetico in relazione allo scopo della vita offre scarsa protezione contro la sofferenza incombente, ma può in grande misura compensarla. Il godimento della bellezza si distingue per un suo modo di sentire particolare, leggermente inebriante. L’utilità della bellezza non è evidente, che sia necessaria alla civiltà non risulta a prima vista, eppure la civiltà non potrebbe farne a meno.61

Lo scoppio della guerra colpì invece Jung inaspettatamente, sebbene ne avesse avuto la premonizione in un sogno.

[…] il 1 agosto scoppiò la guerra mondiale[…] il mio compito era chiaro: dovevo cercare di capire che cosa era accaduto, e fino a qual punto la mia esperienza personale coincideva con quella dell’umanità in genere. Pertanto mi sentii impegnato, per prima cosa, a sondare la mia stessa psiche, e cominciai con l’annotare la fantasie che mi erano venute quando giocavo alle costruzioni. Questo lavoro ebbe la precedenza su tutto il resto. 62

60 Ivi, pp.571-572 61 Ivi, p.574

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Ciò provoca in lui un eccesso di fantasie che rischiavano di schiacciarlo:

Spesso mi sentivo come se mi cadessero addosso enormi macigni. Le tempeste si susseguivano… Per altri hanno rappresentato la rovina: così per Nietzsche, Holderlin e molti altri. Ma in me c’era una forza demoniaca e mi convinsi fin da principio di dover cercare a ogni costo il significato di ciò che sperimentavo in queste fantasie. Nel reggere a questi assalti dell’inconscio ero sostenuto dal saldo convincimento di obbedire ad una volontà superiore, e questo sentimento mi diede forza finché non dominai il mio compito.63

Se è vero che Jung rimase distaccato fisicamente dalle vicende belliche, intraprendendo un percorso mentale indispensabile per le sue successive riflessioni, è altrettanto certo un suo “coinvolgimento” nelle accese questioni che lo videro implicato come l’accusa di adesione al nazismo. Tra le altre divergenze che portarono alla rottura dei due grandi maestri della psicoanalisi probabilmente un peso rilevante ebbe il presunto antisemitismo di Jung che contribuì ad alimentare il definitivo distacco tra i due. Ma Jung fu davvero un antisemita?

In realtà, Jung non comprese subito la vera natura del fenomeno nazista in Germania (del resto ancora non si sapeva né quali sviluppi avrebbe avuto il dominio di Hitler sul popolo tedesco, né quanto malsana e pericolosa sarebbe stata la sua dottrina politica e culturale basata sull’odio razziale e la supremazia ariana). Ad aggravare ulteriormente la sua posizione fu la decisione di Jung di accettare prima la carica di presidente della società tedesca di psicoterapia (che venne riconvertita dai nazisti nella società internazionale di medicina generale per la psicoterapia) poi di assumere la carica di redattore della rivista della società. I rapporti con tale associazione terminarono nel 1940; in seguito Jung cercò invano di difendersi dalle accuse che gli erano state mosse in precedenza di adesione al nazismo. In una lettera del 1951 scrive:

Quando…venne fondata la Società Internazionale di Medicina Generale per la Psicoterapia i miei colleghi tedeschi temevano che il nazismo avrebbe fatto scomparire

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la psicoterapia in Germania, e quindi volevano essere aiutati da un’ autorità non tedesca. Bene, io allora ci sono entrato e ho fatto sì che i medici ebrei espulsi ne diventassero immediatamente membri…La rivista della società fu pubblicata in Germania poiché era legata da contratto a un editore tedesco, e su questo non ho potuto fare nulla. Il presidente ne diventava automaticamente il redattore e quindi io dovetti firmarla. Presto i tedeschi vi introdussero Göring. A questo punto avrei voluto ritirarmi, ma i miei colleghi insistettero perché rimanessi, nella speranza che avrei potuto fare qualcosa per loro. Forse avrei potuto salvare la psicoterapia trovandole un posto defilato, inaccessibile ai dirigenti medici nazisti. In ogni caso a partire dal 1937 cercai ripetutamente di andarmene, ma i rappresentanti del gruppo olandese e del recente gruppo inglese mi pregarono di non mollare e di mantenere vivi i contatti…Non avrei potuto tradire amici e colleghi. Perciò dovevo prestarmi al gioco e procedere con molta cautela (anche a scapito delle mie inclinazioni!) sapendo bene di essere una pecora nera a causa del mio saggio Wotan che soltanto gli imbecilli possono interpretare come espressione da parte mia di sentimenti filonazisti. Su questi non ho mai cambiato opinione, né sono mai stato un antisemita; anche se resto convinto della differenza psicologica tra ebrei e gentili così come di quella tra francesi e inglesi e via dicendo.64

Nel 1934 la rivista ‘Neue Zurcher Zeitung’ pubblica un articolo dello psichiatra svizzero Gustav Bally che chiede a Jung sia i motivi della sua alleanza con le istituzioni naziste che delucidazioni in merito alla distinzione da lui fatta tra psicologia ebraica e tedesca. Jung risponde prontamente a tali richieste:

In Germania attualmente qualunque cosa voglia sopravvivere deve essere “tedesca”; perfino la terapia deve essere “tedesca”, e questo per motivi politici. Dal punto di vista della terapia è assolutamente irrilevante che sia “tedesca” o “francese”, ma è importante soprattutto che sopravviva, anche quando le condizioni esterne siano innegabilmente difficili, come io so perfin troppo bene. Ci vuole poco a mettere in ridicolo la “psicoterapia di ceppo tedesco”; tutt’altra cosa è invece dover, per amore dell’uomo salvare la psicoterapia dal caotico subbuglio che nasce da uno sconvolgimento politico senza precedenti.65

Jung ritiene dunque che vi sia la necessità di mantenere i contatti con gli psicoterapeuti tedeschi considerando che, con l’avvento del nazismo, la psicoterapia potrebbe essere eliminata completamente. Egli vuole rendersi utile per evitare che questo avvenga e dichiara che farebbe la stessa cosa se questa necessità emergesse a Mosca o a San Pietroburgo:

64 Lettera di Jung a Parelhoff, 17 Dicembre 1951, in Freud e i suoi seguaci , Einaudi, Torino 1998, pag. 356

65 C. G. Jung, “Attualità: replica all’articolo del dottor Bally, Terapia di ceppo tedesco” in Opere, vol. X , Il periodo tra le due guerre, cit. pp. 252-253

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La terapia non ha nulla a che fare con la politica (o perlomeno così dovrebbe essere!), perciò può e deve venire esercitata, per il bene degli uomini sofferenti, sotto qualsiasi regime. Se i medici di Pietroburgo [sic!] e di Mosca avessero richiesto il mio aiuto, glielo avrei accordato senza esitazione alcuna, perché per me sempre di uomini si tratta e non di bolscevichi, e se alla fine come sarebbe stato inevitabile fossi stato bollato con il marchio di bolscevico, mi sarei dato ugualmente poco pensiero.66

Jung si sofferma molto sulla questione delle differenze. Le differenze psicologiche esistono da sempre, le ritroviamo anche tra gruppi umani molto vicini come tra zurighesi, bernesi e basilesi. Anche all’interno delle famiglie e tra gli individui esistono delle differenze:

Differenze psichiche esistono tra tutte le nazioni e le razze, anzi è addirittura possibile riscontrarne tra zurighesi, basilesi, bernesi. (Da dove salterebbero fuori, altrimenti, tutte le più gustose storielle?) Esistono perfino differenze tra famiglie e individui.67

Nell’esprimere le sue considerazioni sulle differenze psicologiche tra i popoli, Jung vuole allontanare qualsiasi intento o proposito valutativo dallo studio dei comportamenti umani, individuali e sociali, cercando in questo modo di non andare oltre le sue competenze. In un saggio del 1934 intitolato Situazione attuale della psicoterapia, Jung prova a spiegare la differenza tra ebrei e popoli ariani:

Gli ebrei hanno in comune con le donne questa caratteristica: essendo fisicamente più deboli, mirano a scoprire le falle nella corazza dell’avversario e grazie a questa tecnica indotta in loro da secoli di storia, gli ebrei stessi sono meglio protetti là dove gli altri sono più vulnerabili. In virtù della loro civiltà , più del doppio antica della nostra, essi presentano una consapevolezza molto maggiore rispetto alle debolezze umane e ai lati d’Ombra, e perciò sono sotto questo aspetto molto meno vulnerabili.68

Gli ebrei sono più deboli, ma hanno in comune con le donne la capacità di vedere oltre. L’ebreo, grazie a una civiltà millenaria sarebbe in grado di vivere con i propri difetti in maniera più adeguata alla realtà.

66 Ivi, p.253 67 Ivi, p. 255

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Vedere delle differenze psicologiche tra popoli e nazioni, dovute alla loro storia e alla loro esperienza esistenziale, non deve far pensare alla stesura di un elenco gerarchico con ordini meritocratici basati su diritti ereditari. Nello scritto “Lotta con l’Ombra” Jung scrive che:

Hitler costituiva un simbolo per ogni individuo. Egli costituiva la più stupefacente incarnazione di ogni forma di inferiorità umana: era una personalità completamente inetta, disadattata, priva di senso di responsabilità, psicopatica; carico di insulse fantasie infantili, era tuttavia dotato, come per una maledizione, del sensibilissimo fiuto di un topo di fogna o di uno spione di periferia. Egli rappresentava in misura esorbitante l’Ombra, la parte inferiore della personalità di ciascuno, e questo costituì un ulteriore motivo per cui finì per caderne vittima.69

Queste parole nei confronti di Hitler e del nazismo non basteranno ad allontanarlo dalla questione del suo antisemitismo. Argomento controverso, perché se da un lato Jung non era coinvolto politicamente con il governo messo in atto dal Führer, dall’altro non risulta nessuna denuncia da parte di Jung nei confronti del nazismo negli anni in cui ricopriva il ruolo di presidente della società tedesca di psicoterapia, tacendo e “appoggiando” di fatto un regime ingiustificabile, le cui premesse lasciavano senz’altro presagire quel che sarebbe accaduto in seguito.

Ma di ciò che Freud pensava del coinvolgimento di Jung con il nazismo non abbiamo testimonianza diretta. L’idea che si manifesta in seguito alle persecuzioni hitleriane e all’esilio forzato, è quella che esprime quando afferma che alcuni popoli convertiti di recente al cristianesimo e malamente battezzati, riflettono sull’ebraismo la loro repulsione per la religione imposta ai loro antenati politeisti. L’odio che nutrono verso gli ebrei non sarebbe altro che un odio del cristianesimo.

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Capitolo 2

Arte del presente e surrealtà

2.1 Un nuovo modo di vedere la realtà. Dada e surrealismo

La guerra del 1914 aveva strappato ogni aspirazione alla gioventù cui appartenevano e l’aveva precipitata in una cloaca di sangue, di idiozia e di fango […] I più sensibili si erano ritagliati in segreto un rifugio […] Benché più o meno velati, i disastri dell’inizio, le cupe prospettive della guerra di trincea, l’esito incerto del conflitto creavano uno stato d’animo in cui difficilmente trovava posto la rassegnazione. La mia prima reazione coerente era stata di volgermi verso chi mi pareva in grado di illuminare quella fossa delle murene […] In tale condizioni, come non ricorrere ai poeti: che cosa pensavano di quella spaventosa avventura? Che cosa restava dei valori che per loro avevano contato di più?

André Breton

I conflitti mondiali rappresentarono un momento di rottura e di riflessione intellettuale generando un sentimento di orrore e di sfiducia nei confronti della razionalità fino ad allora considerata fondamentale per il progresso dell’umanità. I cambiamenti si ebbero non solo a livello storico, ma anche a livello culturale.

L’arte non rimase indifferente di fronte a questi tragici eventi cercando, come sempre accade nei momenti di rottura, una soluzione che potesse testimoniare della condizione esistenziale dell’uomo. Si affermarono così le prime “Avanguardie artistiche”.

I vari movimenti e le tendenze artistiche che si susseguirono proclamarono, in modo dogmatico, la verità assoluta della propria visione.

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Ma vediamo in dettaglio il susseguirsi degli eventi.

Il 28 giugno del 1914 uno studente bosniaco uccise a Sarajevo il granduca d’Austria. L’attentato fu il fiammifero che accese una miccia già innestata: con la scusa di arginare localmente la questione balcanica, l’impero austro-ungarico dichiarò immediatamente guerra alla Serbia. I Serbi furono sostenuti dalla Russia la quale mobilitò le proprie truppe, avvicinandole ai confini. Ai Russi era legata diplomaticamente la Francia e a quest’ultima l’Inghilterra, mentre la Germania era alleata dell’Austria. I tedeschi si schierarono in pochi giorni a fianco dell’Impero e mossero guerra alla Russia e alla Francia provocando l’intervento degli Inglesi. A maggio dell’anno successivo anche l’Italia intervenne dichiarando guerra all’Austria. Tra il 1914 e il 1918 esplose il primo grande conflitto mondiale. Nel gennaio del 1916 i tedeschi cercarono di forzare il fronte francese a Verdun, ma incontrarono una straordinaria ed inaspettata resistenza. Nella pianura francese gli eserciti combatterono una delle più estenuanti e sanguinose battaglie che la storia ricordi, una guerra che durò nove mesi lasciando sul terreno più di settecentomila morti. Ma la guerra non fece vittime solo al fronte: anche lontano dai campi di battaglia il solo sopravvivere diventò infernale: tutta la popolazione era piegata dalla fame, dagli stenti e dal dolore delle perdite, migliaia i feriti, i mutilati e i prigionieri. L’unica isola di pace in mezzo alla tempesta bellica fu la Svizzera che, mantenendosi neutrale, divenne un approdo sicuro per i profughi e i disertori di tutti i paesi; vi trovarono riparo anche i comunisti russi che stavano organizzando la rivoluzione. Proprio a Zurigo Hugo Ball, un giovane poeta tedesco, assieme a sua moglie inaugurò un locale d’avanguardia, il Cabaret Voltaire. Intorno a Ball si raccolse un gruppo di giovani provenienti da tutta Europa, tra i quali spiccavano il nome di Hans Arp, Marcel Janco e Tristan Tzara, due giovani rumeni che giunti a Zurigo per studiare. Il primo spettacolo fu una miscela esplosiva di canzoni francesi e danesi, danze popolari russe e incomprensibili versi rumeni. Una scelta azzardata che volle ribadire alla buona

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borghesia zurighese, accorsa in gran numero all’inaugurazione, il carattere internazionale del gruppo e l’estemporaneità delle attività che si sarebbero svolte da quel momento in poi nel cabaret, che avrebbero avuto il compito di scandalizzare e scuotere l’addormentato pubblico borghese. Questi eventi non vollero contribuire alla costruzione di un nuovo genere artistico, ma essere la manifestazione del desiderio di comunicare e rendere al tempo stesso visibile l’estremo disagio provocato dalla situazione contingente della guerra; furono di conseguenza una presa di posizione nei