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IL CORPO COME PRODOTTO CULTURALE

2.5. Dare un senso al mondo

Gli uomini abitano il mondo. Abitare non è conoscere, ma è sentirsi a casa tra oggetti che parlano del nostro vissuto, tra volti che non c’è bisogno di riconoscere perché nel loro sguardo ci sono le tracce dell’ultimo congedo. Abitare è sapere dove mettere giù l’abito, dove sedere alla mensa, dove incontrare l’altro, dove dire e udire, rispondere e corrispondere. Abitare è dare un altro aspetto alle cose, è colmarle di sensi che vanno al di là della loro nuda oggettività, liberandole così dall’insignificanza per restituirle ai nostri gesti abituali che consentono al nostro corpo di sentirsi tra le sue cose325.

A proposito del corpo, in una famosa opera nella quale si affronta la fenomenologia della percezione, Maurice Merleau-Ponty sostiene che «…se è vero che io ho

coscienza del mio corpo attraverso il mondo, se è vero che esso è, al centro del mondo, il termine inosservato verso il quale tutti gli oggetti volgono la loro faccia, è anche vero, per la stessa ragione, che il mio corpo è il perno del mondo, e in questo senso ho coscienza del mondo per mezzo del mio corpo…»326. E continuando: «…il

corpo proprio è nel mondo come il cuore nell’organismo: mantiene continuamente in

324 Gehlen, A, Prospettive antropologiche, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 21 e ss. 325 Galimberti, U., Il corpo, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 124.

Francesco Nicola Gaspa

Il corpo, la vecchiaia, la malattia: uno sguardo antropologico sull’Alzheimer

Dottorato di ricerca in Antropologia, Storia medioevale, Filologia e Letterature del

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vita lo spettacolo visibile, lo anima e lo alimenta internamente, forma con esso un sistema…»327.

L’analisi fenomenologica del corpo di Merleau-Ponty mostra che questo si situa nel mondo in modo peculiare caratterizzato da quell’“apertura originaria”, chiamata presenza. In essa sono possibili sensi e significati per cui parlare del corpo non significa riferirsi a un oggetto del mondo, ma a ciò che dischiude un mondo. Infatti, se si isola il corpo dall’esistenza, se lo si astrae dal suo vissuto quotidiano, ciò che si viene a conoscere non è più la corporeità che l’esistenza vive, ma l’organismo che la biologia descrive. Perché l’organismo abbia significato è necessario che esso si costituisca come una presenza al mondo328.

L’intenzionalità del corpo umano, la sua presenza nel mondo è sperimentata dalla sua struttura anatomica in quanto la stazione eretta sta a significare il nostro legame col mondo. Il corpo, eretto tra cielo e terra, è il filtro attraverso il quale l’uomo si appropria della sostanza del mondo e la fa sua attraverso la mediazione dei sistemi simbolici che egli condivide con i membri della propria comunità. In proposito David Le Breton afferma: «…il corpo è la condizione umana del mondo, il luogo in cui il

flusso incessante delle cose si arresta dando forma a significati precisi o creando una particolare atmosfera, il luogo in cui si trasforma in immagini, suoni, odori, tessiture, colori, paesaggi etc. L’uomo partecipa del legame sociale non solo con l’intelligenza, le parole o le azioni, ma anche con una serie di gesti e di mimiche che contribuiscono alla comunicazione, e tramite l’immersione in innumerevoli rituali che scandiscono l’esistenza quotidiana. Tutte le azioni che formano la trama dell’esistenza, anche le più impercettibili, coinvolgono l’interfaccia del corpo…»329. Invece, la perdita della presenza né allenta il contatto, come ad esempio nel sonno quotidiano e nella morte dove il corpo si fa oggetto puro, cosa tra cose, immobilità non gesto, silenzio non parola, corpo come lo intende l’anatomia. L’intenzionalità

327 Ivi, p. 277.

328 Galimberti, U., Il corpo, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 269-270.

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del corpo è nel suo essere destinato ad un mondo verso il quale ci si dirige e in cui si progetta dando così senso al mondo e coscienza di se stessi. A questo proposito, Maurice Merleau-Ponty scrive: «…la coscienza è l’inerire alla cosa tramite il

corpo…»330. La prima sensazione delle cose del mondo nasce contemporaneamente alla verifica delle possibilità del corpo nel suo aprirsi al mondo con il quale interagisce. Quest’interazione è ignorata dal pensiero positivistico che, attento alla sola dimensione quantitativa, non sa spiegare come le qualità diffondano intorno a sé un certo modo d’essere. Ad esempio, tale modo d’essere influenza l’azione motoria del nostro corpo, per cui certi colori favoriscono alcuni tipi di movimenti e certe qualità attraggono o respingono il corpo. Pertanto, il corpo non occupa il mondo come le altre cose che non hanno coscienza di sé e di tutto ciò che le circonda, ma è impegnato nel mondo331. Infatti, se separiamo il corpo dall’esistenza, ciò che resta non è più la corporeità che l’esistenza vive, ma soltanto l’organismo descritto dalla biologia. Perché abbia un significato è necessario che questo organismo si costituisca come una presenza al mondo, in quanto i fatti umani, privati del loro significato, non sono più umani ma organici.

Se le regole dell’uomo e il suo comportamento sono diverse da quelle delle cose naturali non è possibile comprendere i significati con l’approccio positivistico delle scienze della natura, poiché si spiegherebbero dei fatti, ma non si comprenderebbero i significati. Infatti, a differenza della spiegazione che è la conoscenza dei nessi causali, sempre visti dal di fuori, la comprensione affronta ciò che deve capire dall’interno. La comprensione umana va oltre la spiegazione e comporta una conoscenza da soggetto a soggetto e, pertanto, richiede apertura, simpatia e generosità. Comprendere implica necessariamente un processo d’empatia, d’identificazione e di proiezione332. Essa svela così le strutture che emergono dal suo versante e non dal versante di chi indaga, riducendo, pertanto, ciò che appare a ciò

330 Merlau-Ponty, M., Fenomenologia della percezione, Milano, Il Saggiatore, 1972, p. 194. 331 Galimberti, U., Il corpo, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 130.

332 Morin, E., I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2001, p. 99.

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che essa considera le sue leggi ultime o la realtà ultima dei fenomeni che appaiono. A questo riguardo Karl Jaspers sostiene che «…è possibile spiegare qualcosa senza

comprenderla, perché ciò che viene spiegato è semplicemente ridotto a ciò che è anteriormente supposto…»333.

Tuttavia, con quest’affermazione egli non intende dire che la spiegazione non sia necessaria alla comprensione intellettuale o oggettiva. Significare è indicare qualcosa che trascende il fatto e che si scopre non analizzando le modalità con cui il fatto accade, ma il senso a cui il fatto rinvia. È per tale motivo che i fatti biofisici considerati in se stessi certamente esistono, ma non significano nulla. Il corpo che li registra è puro organismo, è cosa, non intenzionalità dispiegata in un mondo. Rifiutare di risolvere l’ordine dei significati nell’ordine dei fatti, significa rifiutare di identificare la corporeità, che l’esistenza vive con l’organismo che la scienza descrive. Quest’ultimo è un oggetto nel mondo che si può osservare e manipolare. Mentre la corporeità che qualsiasi esistenza vive non si presenta mai come un oggetto particolare o come strumento di cui disporre, non attira l’osservazione su di sè, ma sul mondo che dischiude come suo mondo. Esistere è eliminare ogni distanza tra l’io, il corpo e la presenza che apre un mondo. La presenza coincide con la corporeità, ma è presenza al mondo, non al corpo. Pertanto, mentre l’organismo studiato dalla scienza è presente nei limiti segnati dalla pelle che ne disegna i confini, la presenza corporea è sempre oltre se stessa. Un braccio, ad esempio, che si allunga in direzione di qualcosa non è soltanto un movimento meccanico, ma apre una via verso un oggetto che lo sguardo aveva già individuato. Anche nelle emozioni l’io sente di non distinguersi dal corpo, così come nell’atto volontario non esiste un io che vuole e un corpo che resiste, perché nessun progetto può tramutarsi in azione se non passando attraverso il corpo. Qui non si tratta di piegare il corpo, di costringerlo, di dominarlo con la forza della volontà, ma di disporre il mondo in modo che sia accessibile alle possibilità del corpo che non sono infinite. La fatica, ad esempio, allontana la presenza così modificata, rivela l’indocilità del corpo, l’impossibilità di

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trattarlo come uno strumento, e quindi l’impotenza della volontà, la cui forza non può che arrendersi ai ritmi del corpo.

Sul tema del corpo Danilo Cargnello scrive: «…io sono nel mio corpo, lo occupo

così compiutamente e senza residui da poter dire: io sono il mio corpo. Io non posso allontanarlo da me né allontanarmene; non mi lascia mai…»334.