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Le decisioni interpretative “occulte”.

costituzionale italiana al vaglio della dottrina.

3.3 Le decisioni interpretative “occulte”.

Non mancano nella giurisprudenza costituzionale degli ultimi anni

le cosiddette sentenze interpretative “occulte77” (o come

77 In dottrina sono state definite in differenti modi per poterle distinguere dalle interpretative “classiche” (pronunciate “nei sensi…”): G.SORRENTI,La Costituzione “sottintesa”, p. 10, op. cit., fa riferimento a «decisioni interpretative “occulte”»; A.

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diversamente si preferisca chiamarle) ossia sentenze che hanno la caratteristica di non prevedere i passaggi interpretativi nel dispositivo: esse sono, quindi, prive della formula “nei sensi” che rinvia alla motivazione; ed è proprio per la loro caratteristica di lasciare “dietro le quinte” la reinterpretazione formulata dalla

Corte che vengono efficacemente anche denominate

“interpretative di rigetto non dichiarato”.

Un esempio di tale tipologia di provvedimento è la sentenza n° 38/2007; la Corte era stata adita per trattare la presunta illegittimità costituzionale, in riferimento all’art. 24 della Costituzione, dell’art. 54, comma secondo, del D.P.R n° 602/1973 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito) nella parte in cui disponeva che nelle procedure esecutive esattoriali non era ammessa l’opposizione agli atti esecutivi regolata dagli artt. 617 e 618 del cod. proc. civ.

Nello specifico: il Tribunale rimettente riferiva che, in merito al ricorso proposto da un creditore pretermesso, gli altri creditori ne avevano eccepito sia la tardività che l’inammissibilità, ai sensi dell’art. 54 del D.P.R n° 602/1973, in quanto tale norma (prima delle modifiche operate nel 1999) prevedeva che nelle procedure esecutive esattoriali «le opposizioni regolate dagli articoli da 615 a 618 del cod. proc. civ. non sono ammesse».

Tale disposizione, secondo il giudice a quo, contrastava con l’art. 24 della Costituzione, perché il creditore intervenuto non aveva alcun mezzo alternativo per far valere le proprie ragioni. Il giudice, inoltre, osservava che ad aggravare la situazione vi era in primis il

CERRI, Corso di giustizia costituzionale, Giuffrè, Milano, 2004, p. 222, le definisce di «rigetto con interpretazione adeguatrice»; R. ROMBOLI, Qualcosa di nuovo...anzi d'antico…, op.cit., al cap. 9, utilizza il termine «interpretative mascherate»; A. CELOTTO, Il (pericoloso) consolidarsi delle “ordinanze interpretative”, in Giur. cost., 2003, p. 1462 ss. utilizza il termine «nascoste».

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fatto che non era esperibile il rimedio risarcitorio nei confronti dell’esattore e, in secondo luogo, che difficilmente l’opponente avrebbe potuto soddisfare esecutivamente il proprio credito poiché l’intero patrimonio del debitore era già stato assoggettato ad espropriazione.

Da ciò ne conseguiva una compressione ingiustificata sia del diritto di azione che di difesa dell’opponente soprattutto alla luce delle modifiche apportate dal d.lgs. n° 46/1999 che avrebbero, all’epoca, reso tale giudizio ammissibile.

La Corte in questa circostanza (ed è questa proprio la peculiarità delle sentenze “occulte”) si limita a scrivere nel dispositivo: «dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 54, comma secondo, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n° 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito) sollevata, in riferimento all’art. 24 della Costituzione, dal Tribunale di Brescia, sezione distaccata di Salò».

Come si può notare, manca la formula “nei sensi di cui in motivazione” e non vi è alcun riferimento ad essa in una nessun momento del dispositivo: ciò non significa che non vi sia comunque una reinterpretazione da parte dei giudici della Consulta. La reinterpretazione c’è ma è “nascosta” nelle considerazioni di diritto della medesima da cui si evince che, secondo la Corte, il giudice a quo si era basato su un’interpretazione della norma che era frutto di numerose pronunce da parte della Corte di cassazione, che escludevano l’esperibilità di qualsiasi opposizione avverso tutti gli atti della procedura; in realtà, argomentano i giudici della Consulta, «anche a prescindere dall’esistenza di un più recente, opposto indirizzo,

112 la pronuncia che ha ribadito da ultimo l’orientamento suddetto ha precisato che esso non concerne casi relativi alla assegnazione e distribuzione del ricavato della vendita, non essendo in quella fase ipotizzabile una limitazione della tutela dei corrispondenti diritti soggettivi ai rimedi endoprocedimentali».

Anche questo tipo di sentenze non è immune da critiche in dottrina per differenti motivi.

In primo luogo vi sono autori che consigliano il reinserimento della formula “nei sensi di cui in motivazione” almeno in quei casi in cui la Corte dà luogo ad una interpretazione della legge adeguatrice (e non solo meramente correttiva) rispetto alla Costituzione o adotta soluzioni fortemente rilevanti per l’ordinamento giuridico; altri autori invece ritengono che non sia opportuno tornare al vecchio sistema delle interpretative di rigetto “classiche” perché, anche in caso di sentenza correttiva, la reinterpretazione della legge «è pur sempre finalizzata al sindacato di costituzionalità e non al semplice intento nomofilattico78».

Al di là della diversità di pensiero dei vari autori circa la possibilità di reintrodurre o meno le “vecchie” interpretative di rigetto, il dato

comune condiviso dalla dottrina maggioritaria risiede

nell’apparente sbarramento di circolazione d’informazione che si crea tra la Corte e la società: la Consulta, infatti, adottando questa tipologia di pronunce, non permette, ai destinatari delle stesse, la riconoscibilità della pronuncia interpretativa isolandosi e

78 A.ANZON, Interpretazione «corretta» e interpretazione «conforme a Costituzione del regime delle rogatorie internazionali, Giur. cost., 2002, pp. 2427-28.

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rinunciando al dialogo con i suoi interlocutori (che siano essi i

giudici comuni o i cittadini della società)79.

In ultimo si osserva che la Corte, mantenendo la reinterpretazione

della disposizione impugnata «dietro le quinte80» non elimina di

fatto la possibilità di più interpretazioni nella pratica giuridica ed aggrava, anzi, i rischi che continuino ad essere applicate norme incostituzionali.

G. Sorrenti81 sottolinea, infine, che, così operando, la Corte fa

mancare quel profilo necessario, all’interno delle sue decisioni, affinché si possa capire se la norma è censurata perché ritenuta inesatta e cioè non essendo «rinvenibile» in essa «alcun giudizio negativo, nemmeno implicito, sulla sua bontà costituzionale» o se, viceversa, «lo sia in base a valutazioni di legittimità costituzionale».

L’alternativa, come ha avuto modo di segnalare la Cassazione in

varie sue pronunce82, è di non poca rilevanza.

Se si verifica la prima ipotesi, ai giudici viene nuovamente data piena autonomia in ambito interpretativo e da qui la dottrina trae spunto per chiedersi se possa essere configurabile l’ipotesi, per il giudice a quo, di disapplicare egli stesso la legge ritenuta incostituzionale.

79 A tal proposito si ricorda anche L. ELIA, Modeste proposte di segnaletica giurisprudenziale, in Giur. cost., 2002, pp. 3688-3689, che osserva come «la decisione di non fondatezza secca ma con l’interpretazione tenuta tra le quinte» potrebbe comportare «l’incomprensione di quasi tutti i lettori, compresi i giudici comuni», per cui «si impone (…) che la natura interpretativa della decisione sia denunciata fin dal dispositivo».

80 Per la paternità dell’espressione “dietro le quinte” si rimanda alla precedente nota n° 79 .

81 Cfr. G.SORRENTI, La Costituzione “sottintesa”, op. cit. 82 Tra le quali si ricorda, per esempio, la sentenza n° 2233/1998.

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Secondo G. Zagrebelsky83, la Costituzione dispiega i propri effetti

sia orizzontalmente (nei rapporti giuridici) che verticalmente (nei confronti del legislatore), di conseguenza il giudice comune,

fondandosi direttamente sulla Costituzione, potrebbe

autonomamente procedere a disapplicare la legge sospettata di incostituzionalità. Se si ragionasse diversamente, sostiene l’illustre Autore, s’incorrerebbe in una incongruenza del sistema: se un soggetto vanta un diritto discendente da una legge ordinaria può sperare in un intervento tempestivo della magistratura, mentre chi

vanta un diritto discendente dalla Costituzione deve

necessariamente attendere l’intervento della Corte costituzionale senza quindi avere prima una forma di tutela efficace nei sui confronti.

Sempre in dottrina, G. Borrè sostiene che, a ben ragionare, una legge dichiarata incostituzionale è tale sin dal momento della sua emanazione e non dal momento in cui l’incostituzionalità è dichiarata; la sua nullità, quindi, preesiste alla dichiarazione di illegittimità costituzionale (così come confermato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione già a partire dalla sentenza n° 5679/1978), si tratta solamente di attendere i tempi necessari della giustizia costituzionale.

Se da un lato, quindi, vi è una parte della dottrina favorevole alla disapplicazione, da parte del giudice a quo, delle norme ritenute incostituzionali, dall’altro lato troviamo altri autori che negano tale possibilità giacché essa costituirebbe un sovvertimento delle linee di controllo di costituzionalità delle leggi.

83 Cfr. G. ZAGREBELSKY, La tutela d’urgenza, in L. CARLASSARE (a cura di), Le garanzie giurisdizionali dei diritti fondamentali, Cedam, Padova, 1988, p. 27ss.

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In tutto ciò, l’unico dato certo è che la Corte costituzionale non si è ancora espressa e la dottrina incalza sempre più su tale tematica. Tralasciando questo “volo pindarico”, necessario per rendere note le più recenti posizioni della dottrina su tale argomento, resta da esaminare la seconda alternativa che era stata in precedenza prospettata, ossia: capire cosa accade se la norma è censurata in base a valutazioni di legittimità costituzionale; in questo caso, a differenza del primo, che restituiva ampia libertà interpretativa al giudice a quo, si assiste ad una libertà interpretativa limitata per il giudice rimettente, soprattutto quando dalle motivazioni date dalla Corte, nel provvedimento, si evince che l’interpretazione fornita da quest’ultima sia l’unica possibile.

È da notare che sentenze di questo tipo hanno caratterizzato la giurisprudenza costituzionale soprattutto a partire dal 2001 e pian piano stanno scemando a favore di un notevole incremento delle pronunce di inammissibilità per “omessa interpretazione adeguatrice” da parte del giudice a quo.