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Interpretazione e additive di principio

costituzionale italiana al vaglio della dottrina.

3.4 Interpretazione e additive di principio

Tra tali sentenze84 (che rientrano nel quadro delle decisioni

“manipolative”) meritano un’osservazione particolare le “sentenze additive di principio”. Si è già detto, in precedenza, che tramite esse la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale della disposizione, oggetto del giudizio, “nella parte in cui non prevede”

84 Si ricorda che nella categoria delle sentenze “additive” rientrano non solo le additive di principio prese in esame, ma anche le additive di prestazione e di procedura.

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un qualcosa ed indica il principio generale cui sia il giudice comune che il legislatore devono rifarsi per “riempire” la lacuna riscontrata.

Indubbiamente, esse consentono di eliminare dall’ordinamento giuridico la norma incostituzionale senza creare un vuoto

normativo (R. Pinardi85, a tal proposito afferma che tali sentenze

sono «un’evoluzione ed un perfezionamento di strumenti decisionali che erano già in possesso della Corte da alcuni decenni, e che vengono utilizzati al medesimo fine di evitare un eccessivo impatto demolitorio delle dichiarazioni di incostituzionalità») ma ciò porta ad una riflessione: i principi enunciati dalla Corte, proprio perché tali, sono caratterizzati dalla generalità e dall’astrattezza (spetta, infatti, al legislatore colmare il vuoto normativo denunciato) e ciò porta a un duplice ordine di inconvenienti sapientemente denunciati dalla dottrina; in primo luogo (premesso che non si può sapere quanto tempo intercorre tra la “denuncia” fatta dalla Corte e la concreta “risposta” da parte del legislatore), durante questo lasso temporale, l’operatore del diritto (in primis, il giudice comune) si trova di fronte all’impossibilità di applicare una norma pienamente in vigore (ma contraria ad un principio enucleato dalla sentenza della Corte) e, al contempo, alla difficoltà di enucleare dal principio anzidetto una regola utilizzabile nel caso sottoposto al suo esame; dall’altro lato, che è conseguenziale al primo, si rischia di giungere, da parte dei giudici comuni, a soluzioni fra loro diverse, se non addirittura

85 R.PINARDI, L’horror vacui nel giudizio sulle leggi, Milano, Giuffrè editore, 2007, p.109.

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contraddittorie, con gravi conseguenze sulla certezza del diritto e sulla stessa eguaglianza in sede applicativa.

Sic stantibus, si comprende non solo perché difficilmente esse vengano utilizzate in materia penale e in materia di previsioni sanzionatorie (si ricorda, tra le rare ipotesi, la sentenza n°

26/199986) ma anche perché la Corte abbia deciso, prima del 2013,

di farne un uso molto ristretto87.

Dico prima del 2013 (e questo mi ha portato a farle rientrare nel recente indirizzo giurisprudenziale che ha caratterizzato l’attività del Giudice delle leggi) perché in quell’anno, a distanza di pochi mesi, la Corte ha emanato ben due sentenze additive di principio che, per la loro peculiarità, meritano di essere ricordate.

Le sentenze in esame sono la n° 278/2013 e la n° 170/2014. Nel primo caso la Corte, adita per valutare la legittimità costituzionale dell’articolo 28, comma 7, della legge n° 184/1983, ha dichiarato incostituzionale la disposizione impugnata nella parte in cui non prevedeva, attraverso un procedimento «stabilito dalla legge che assicuri la massima riservatezza», la possibilità

86 Il giudice a quo, magistrato di sorveglianza, doveva decidere sui reclami proposti da due detenuti, a norma dell’art. 35 della legge n° 354/1975 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), in relazione a una disposizione regolamentata che non consentiva loro di ricevere, in istituto, riviste spedite in abbonamento, o da parte di familiari, poiché di contenuto osceno. Il rimettente lamentava che le decisioni che egli era chiamato a prendere erano «giurisdizionalizzate» solo in quelle ipotesi dove il reclamo atteneva alla materia lavorativa o alla materia disciplinare: mancava, quindi, ogni ipotesi in cui il reclamo del detenuto avesse ad oggetto la lesione di un diritto costituzionalmente garantito. 87 Si ricorda, prima del 2013, la sentenza n° 77/2007, dove la Corte da un lato, ha affermato il principio secondo il quale gli effetti (sostanziali e processuali) prodotti dalla domanda proposta al giudice privo di giurisdizione si conservano, a seguito di declinatoria di giurisdizione, nel processo proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione; dall’altro, invece, ha precisato che spetta al legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, disciplinare nel modo ritenuto più opportuno il meccanismo della riassunzione.

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per il giudice, su richiesta del figlio, di interpellare la madre che avesse dichiarato di non voler essere nominata nell’atto di nascita, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione.

Nel secondo caso, invece, la Corte ha stabilito l’incostituzionalità degli artt. 2 e 4 n° 164/1982 e, in via consequenziale, dell’art. 31, comma 6, del d.lgs n° 150/2011, nella parte in cui le due diposizioni non prevedono che «la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio», consenta, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata «con le modalità da statuirsi dal legislatore».

Queste due sentenze meritano di essere ricordate per la

peculiarità88 del loro dispositivo che, da un lato, prevede, secondo

la formula tipica della sentenza additiva, l’incostituzionalità della norma impugnata “nella parte in cui non prevede” l’apposita disciplina imposta dalla Costituzione, dall’altro, però, stabilisce che la disciplina deve, comunque, «essere stabilita per legge». Nello specifico: nella prima sentenza, nelle motivazioni in diritto, si legge che «sarà cómpito del legislatore introdurre apposite disposizioni volte a consentire la verifica della perdurante attualità della scelta della madre naturale di non voler essere nominata e, nello stesso tempo, a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all’anonimato, secondo scelte procedimentali che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso, anche da

88 Una formulazione simile era già apparsa nella sentenza n° 243/1993 con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme allora impugnate «nella parte in cui non prevedono, per i trattamenti di fine rapporto ivi considerati, meccanismi legislativi di computo dell’indennità integrativa speciale secondo i principi ed i tempi indicati in motivazione».

119 parte degli uffici competenti, ai dati di tipo identificativo, agli effetti della verifica di cui innanzi si è detto»; nella seconda si legge, invece, che «sarà, quindi, compito del legislatore introdurre una forma alternativa (e diversa dal matrimonio) che consenta ai due coniugi di evitare il passaggio da uno stato di massima protezione giuridica ad una condizione, su tal piano, di assoluta indeterminatezza. E tal compito il legislatore è chiamato ad assolvere con la massima sollecitudine per superare la rilevata condizione di illegittimità della disciplina in esame per il profilo dell’attuale deficit di tutela dei diritti dei soggetti in essa coinvolti».

Che questo sia il modus operandi tipico delle sentenze additive, è fuori dubbio, ma la Corte nelle motivazioni dice un quid pluris che distingue queste sentenze dalle precedenti fino ad oggi emanate. In particolare, i giudici della Consulta, coscienti, in entrambi i casi, dell’effettiva mancanza di un procedimento ad hoc hanno adottato un dispositivo di accoglimento additivo generico, ma hanno anche precisato che nel primo caso la disposizione è incostituzionale nella parte in cui non prevede la possibilità di interpellare la madre “attraverso un procedimento stabilito dalla legge”, nell’altro che la disciplina è incostituzionale nella parte in cui non prevede la possibilità per gli ex coniugi di optare per una nuova forma di convivenza registrata che tuteli adeguatamente i diritti e obblighi della coppia medesima “con modalità da statuirsi dal legislatore”. La dottrina non ha mancato di osservare questa presunta “anomalia” da parte della Corte e ha cercato di darne delle spiegazioni.

Non è condivisibile la tesi dell’enfatizzazione secondo cui, in realtà, la Corte ha operato così per incentivare il legislatore

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affinché questo intervenga rapidamente e ciò perché, per quanto si possa e si voglia sensibilizzare il legislatore, il potere legislativo ha i suoi tempi e non sarà di certo l’enfasi di una pronuncia a cambiare le cose; inoltre, i giudici a quibus, chiamati a fare applicazione della disciplina dichiarata illegittima, possono agire, in modo da soddisfare gli interessi predetti dalle pronunce della Corte costituzionale, anche in assenza di un intervento legislativo. La soluzione preferibile, prospettata dalla dottrina, è ben altra. La Corte costituzionale in queste due sentenze, a ben vedere, ha escluso esplicitamente l’attività giurisprudenziale: non ha permesso che i giudici a quibus surrogassero l’inerzia del legislatore.

Così operando, però, si è creata una situazione anomala perché né il diritto dell’adottato (a veder interpellata la madre) né quello degli ex coniugi (a vedere tutelata la propria relazione) sono stati concretamente tutelati: essi continuano a restare esclusi dall’ordinamento giuridico non trovando tutela né nell’attività legislativa né nelle aule di giustizia.

Da ciò la conclusione che si può trarre è ovvia: siccome le norme di implicita esclusione di tali diritti dispiegano ancora la propria efficacia nel nostro ordinamento, esse, di fatto, non sono state realmente rimosse dalle sentenze di incostituzionalità; ci troviamo, quindi, di fronte ad un doppio caso di illegittimità costituzionale dichiarata ma non rimossa dall’ordinamento giuridico.

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