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4 (segue) L’interpretazione costituzionale: un’interpretazione specifica?

2. L’interpretazione della Costituzione da parte della Corte di cassazione: le guerre tra le Corti.

2.2 La seconda “guerra tra le Corti”.

Dopo quasi quarant’anni dal termine della “prima guerra tra le Corti”, la dottrina e gli organi di giustizia italiani, si trovano a fronteggiare la “seconda guerra tra le Corti”: quest’ultima nasce a seguito della volontà del Giudice delle leggi di far sì che, tramite le proprie sentenze interpretative di rigetto, i giudici comuni possano superare il diritto vivente.

La dottrina, da subito, ha criticato l’innovativo atteggiamento da parte della Consulta preferendo, quindi, tutelare la dottrina del diritto vivente a discapito di quella del canone dell’interpretazione conforme a Costituzione: secondo la dottrina del diritto vivente, infatti, si suggerisce al giudice costituzionale di tener conto delle prassi giurisprudenziali che si sono consolidate nel corso del tempo senza forzare, quindi, un cambio di orientamento, soprattutto quando tali prassi sono sorrette da motivazioni ben salde e decise da parte del giudice a quo.

Si ricorda, a tal proposito, che autori come M. Luciani ritengono che il diritto vivente sia un meccanismo di cui il nostro ordinamento giuridico ha ancora bisogno per poter risolvere, alla luce del principio della leale collaborazione, eventuali ed inevitabili ingerenze tra la sfera della legalità costituzionale e quella legale63.

63 Cfr. M.LUCIANI, Su legalità costituzionale, legalità legale e unità dell’ordinamento in Studi in onore di Gianni Ferrara, Tomo II, Giappichelli, Torino, 2005, p. 501 ss.; e, dello stesso avviso, M. CAVINO, L’intenzione del legislatore attuale come fondamento del diritto vivente, in M.CAVINO (a cura di), Esperienze del diritto vivente. La giurisprudenza negli ordinamenti di diritto legislativo, Vol. I, Italia, Francia, Belgio, Germania, Spagna, Portogallo, Brasile, Argentina, Colombia, Torino, Giuffrè editore, 2009, pp. 30-34.

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La vicenda che genera il secondo scontro ha per oggetto i termini della durata massima della custodia cautelare: la Corte costituzionale, inizialmente, risolve la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di cassazione, emettendo una sentenza interpretativa di rigetto “classica” (la n° 292/1998) dove ritiene che non debbano essere ritenute incostituzionali le disposizioni dell’art. 309, commi 5 e 10, del cod. proc. pen., in riferimento agli articoli 3, 13 e 24 della Costituzione.

Leggendo la sentenza si nota però che, nella parte delle motivazioni, non si fa alcun tipo di riferimento al fatto che l’interpretazione proposta dalla Consulta contrastava con la prassi giurisprudenziale (sia di merito che di legittimità) che si era ormai consolidata nel corso del tempo: la Corte aveva, quindi, superato il diritto vivente, che si era fortemente consolidato, in nome della necessità di un’interpretazione conforme a Costituzione ma con uno strumento inadeguato.

Conferma di ciò si ravvisa nel fatto che, successivamente all’emanazione della suddetta sentenza, altri tribunali sollevarono la medesima questione di legittimità costituzionale (poiché non era ritenuta convincente l’interpretazione data dalla Consulta) auspicando, tra le altre cose, che la Corte adottasse una posizione più certa tramite l’emanazione di una sentenza d’accoglimento manipolativa.

La Consulta, in tutta risposta, ogni volta, emanò delle ordinanze di

manifesta infondatezza64 nelle quali, non solo confermava

l’interpretazione resa nella sentenza n° 232/1998, ma, anzi, riteneva la stessa come «costituzionalmente obbligata».

64 Si ricordano per esempio le ordinanze nn° 214 e 529 del 2000; la n° 243/2003 e la n° 59/2004.

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Se la Consulta aveva potuto agire incontrastata in questo modo con i giudici comuni, lo stesso, però, non poté fare innanzi all’operato delle Sezioni Unite Penali della Corte di cassazione.

Quest’ultima si trovò ad affrontare quello che sarà successivamente definito come il caso “Musitano”. La questione nasceva dalla necessità di verificare quale fosse il computo della durata dalla custodia cautelare che, secondo l’art. 304, comma 6, del cod. proc. pen., non poteva comunque superare il doppio dei termini previsti dall’art. 303, commi 1 e 2; infatti, nonostante la norma fosse collocata nell’ambito dell’art. 304 cod. proc. pen., (relativo alla sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare), stando alla pronuncia della Corte costituzionale (che aveva dato origine a tutta la vicenda), l’efficacia della disposizione travalicava i confini dell’istituto della sospensione e trovava applicazione anche quando il procedimento, per una qualche ragione, registrava una regressione: anche in tal caso il superamento del doppio del termine di fase era motivo di scarcerazione.

La giurisprudenza di legittimità accolse il principio della lettura ampia della disposizione riguardante il termine di fase ma nacquero divergenze sulle modalità di calcolo che furono chiarite con l’intervento delle Sezioni Unite tramite la sentenza n° 4/2000. In tale sentenza le Sezioni Unite, pur proclamando di rendere ossequio alla pronuncia dei giudici della Consulta, avevano offerto un’interpretazione della legge, oggetto di impugnazione, del tutto opposta a quella del Giudice delle leggi.

La Corte costituzionale, non rimasta impassibile dinnanzi a tale presa di posizione, “risponse” alle Sezioni Unite con l’ordinanza di manifesta infondatezza n° 529/2000 in cui si specificava che la

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norma impugnata andava interpretata in modo conforme alla Costituzione «nel senso che il termine ivi previsto quale durata massima della custodia cautelare costituisce un limite insuperabile, a nulla rilevando che il termine sia cominciato nuovamente a decorrere per effetto della regressione del procedimento ad una fase anteriore».

Il «dialogo tra due sordi65» continuò con la riproposizione della

questione da parte delle Sezioni Unite e l’emanazione di un’ordinanza di manifesta inammissibilità, da parte della Consulta, in cui si legge una feroce critica nei confronti dell’operato del giudice di legittimità: «l’ordinanza delle Sezioni Unite oltre ad apparire perplessa […] si chiude con l’esplicito invito al “rispetto delle reciproche attribuzioni, come se a questa Corte fosse consentito affermare i principi costituzionali soltanto attraverso sentenze caducatorie e le fosse negato, in altri tipi di pronunce, interpretare le leggi alla luce della Costituzione».

Forse proprio a causa delle aspre parole utilizzate dai giudici della Consulta, forse per le critiche mosse dalla dottrina, forse per timore nei confronti dell’opinione pubblica, da questo momento si creò una situazione di forte disagio all’interno delle sezioni della Corte di cassazione: alcune sezioni seguirono la “sentenza Musitano” e il precedente orientamento, altre preferirono dar seguito all’interpretazione offerta, e ribadita più volte, dai giudici della Consulta.

65 Citazione tratta da V.CRISAFULLI, Ancora delle sentenze interpretative di rigetto della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1965, p. 98 l’Autore notava che in una simile situazione si presentava un dilemma per cui «o il giudice a quo è vincolato dall’interpretazione assunta dalla sentenza costituzionale a giustificazione e fondamento del dispositivo di non fondatezza della questione oppure bisognerebbe dimostrare che, stranamente, la Corte non abbia il potere di interpretare (e reinterpretare) la legge, all’atto di giudicarne sotto il profilo della conformità- disformità rispetto a norme costituzionali»

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Le cose, ovviamente non potevano restare così: le conseguenze che sarebbero derivate da tale atteggiamento sono facilmente deducibili.

In primo luogo vi sarebbe stata una forte incertezza di applicazione del diritto nelle aule di giustizia, in secondo luogo veniva messa a repentaglio la stessa sopravvivenza della funzione nomofilattica tradizionalmente riconosciuta alla Corte di cassazione e in terzo luogo, poiché la situazione di scontro che si era generata non era passata inosservata alla stampa e all’opinione pubblica, non mancarono critiche accese sul mal funzionamento del sistema di giustizia italiana.

Fu proprio la Corte di cassazione a mettere un punto decisivo sulla questione con la cosiddetta “sentenza Pezzella”, ossia la n° 23016/2004, che preferisco trattare in un apposito capitolo per la rilevanza e l’impatto che essa avrà nell’ordinamento giuridico italiano.

2.3 La seconda “sentenza-trattato” della Corte di