• Non ci sono risultati.

Team e gruppi di lavoro: la formazione esperienziale

3.1. La definizione di gruppo

Prima di arrivare ad una definizione universale di gruppo è necessario fare attenzione alla differenza fondamentale che intercorre tra quelle che si identificano come delle tipologie di aggregazione di individui. McGrath49, a tal proposito, afferma che è giusto definire un gruppo come l’aggregazione di più individui, ma non lo è altrettanto stabilire che un’aggregazione di individui si può considerare in ogni circostanza un gruppo. Vi sono infatti sei tipologie differenti di aggregazioni ed ogni individuo normalmente fa parte di una o più di queste unità contemporaneamente:

1. Aggregazione artificiale: rappresenta l’insieme di più individui raggruppati in base a delle caratteristiche comuni, come l’età, il genere sessuale o l’appartenenza geografica, ma che tra loro non hanno alcun tipo di legame; 2. Aggregazione non organizzata: sono individui che si trovano insieme nello

stesso luogo e nello stesso momento, come ad esempio i passeggeri di un aereo,

46

SPELTINI G., PALMONARI A., [1999],I gruppi sociali, Il Mulino: Bologna 47

AMOVILI L., [1995], Organizzare qualità, Pàtron Editore: Bologna. 48 Per approfondimento consultare il sito web: www.psicoterapia.it/rubriche/ 49 Cfr. SPELTINI G., PALMONARI A., [1999].

ma che non hanno alcun tipo di legame interpersonale;

3. Unità sociali con modelli di relazione: possono essere ad esempio un gruppo di persone che condividono una lingua comune (comunità);

4. Unità sociali strutturate: rappresentano un insieme di individui caratterizzati da un forte carattere di interdipendenza: un clan, o una famiglia;

5. Unità sociali intenzionalmente progettate: sono le aggregazioni che rappresentano i gruppi di lavoro, o ad esempio l’intero organico aziendale; 6. Unità sociali meno intenzionalmente progettate: sono le associazioni volontarie

di individui come i gruppi amicali.

Queste sei categorie differiscono sulla base di due dimensioni, che sono rispettivamente le relazioni tra i membri, quindi la tipologia ed il grado di appartenenza, e la grandezza dell’aggregato, definito in termini numerici. Sono queste due caratteristiche che, secondo McGrath, differenziano un gruppo da una semplice aggregazione di individui. Gruppo che, secondo l’autore, si identifica come una realtà ristretta, relativamente strutturata e caratterizzata da una potenziale interazione tra i membri. Definizione che, secondo alcuni, risulterebbe però troppo generalista, poiché una netta separazione tra gruppo e non-gruppo non è sempre così ovvia e i casi intermedi tra gruppo sociale ed aggregazione di individui, più o meno grande, sono frequenti50.

I piccoli gruppi (ristretti) e i grandi gruppi (estesi), seppur in modo semplicistico, si caratterizzano quindi in base alla grandezza e all’interazione tra i membri. Tuttavia è opportuno restringere il campo di osservazione e distinguere più precisamente i piccoli gruppi dai gruppi faccia a faccia51. Nei piccoli gruppi i componenti si conoscono e si influenzano reciprocamente, ma questa interazione non è da considerarsi come una conditio sine qua non. Un esempio potrebbe essere la classe scolastica o universitaria. Nel gruppo faccia a faccia, che mantiene una dimensione ristretta, tutti i membri sono portati invece ad interagire, anche attraverso delle riunioni frequenti. Essi hanno una connotazione più ufficiale, strutturata, e sono rappresentati ad esempio dai team di lavoro aziendali.

Un’altra classificazione distingue invece i gruppi primari dai gruppi secondari. Anche se per una questione di accuratezza sarebbe più opportuno parlare di primarietà e

50 DE GRADA E., [1999], Fondamenti di psicologia dei gruppi, Carocci Editore: Roma. 51 DE GRADA E., [1999] Ibd.

secondarietà52, possiamo definire un gruppo primario come un insieme di individui che interagiscono a stretto contatto, hanno dei legami spesso di tipo affettivo e sono legati da un forte senso di appartenenza; un gruppo secondario è invece un insieme di persone, ognuna con un ruolo specifico, accomunate da un obiettivo o da uno scopo comune, legate da un tipo di relazione formale ed impersonale (gruppi di lavoro).

Non meno importante è anche la distinzione tra gruppi formali e gruppi informali, portata alla luce soprattutto nella letteratura che si occupa dello sviluppo identitario dell’individuo nella fase adolescenziale. I gruppi formali sono quelle aggregazioni che si sviluppano all’interno di contesti istituzionali, come le associazioni sportive, religiose o politiche e che sono caratterizzati da delle regole specifiche e da una distinzione netta dei ruoli degli individui. I gruppi informali sono caratterizzati invece dalla spontaneità della loro aggregazione e registrano una intensità relazionale elevata tra i membri del gruppo. I gruppi informali sono quindi gruppi naturali, definiti così in ambito sperimentale per distinguerli dalle altre tipologie impiegate nella ricerca. Indipendentemente dagli esperimenti, i gruppi naturali hanno infatti una loro propria esistenza, come le classi scolastiche o le squadre sportive. I gruppi inventati, oppure i quasi gruppi, sono invece delle entità create appositamente per la ricerca, come ad esempio i gruppi di laboratorio, oppure delle giurie simulate.

Tornando a Kurt Lewin e ai suoi primi studi sul gruppo come entità, il dogma alla base delle sue intere ricerche risulta essere la consapevolezza che il gruppo deve essere considerato come una totalità dinamica, all’interno della quale le sue sotto parti presentano delle proprietà diverse rispetto a quelle dell’intera struttura. Come una molecola nel suo insieme si comporta secondo determinate regole all’interno di una reazione chimica, al suo interno gli atomi da cui essa è composta sono legati da legami chimici covalenti differenti. Considerando quindi un gruppo come unità in cui le sue parti sono interdipendenti tra loro, questa definizione può essere applicata sia ai grandi gruppi quanto a quelli di piccole dimensioni. Sia che si faccia riferimento ai gruppi nelle scienze sociali, che nelle scienze fisiche, il sistema teorico rimane quindi sempre lo stesso.

L’interdipendenza tra gli elementi del gruppo, a cui fa riferimento Lewin, può

52 DE GRADA E., [1999] Ibd.

essere distinta in due categorie53:

● L’interdipendenza del destino, che rappresenta un elemento di unificazione casuale, per il quale un aggregato di individui, senza elementi in comune, potrebbe divenire un gruppo se le circostanze ambientali lo permettono Ad esempio potrebbero essere ipoteticamente i clienti di una banca, presi in ostaggio da un rapinatore, che insieme sviluppano un senso di coesione, solo per il semplice fatto di condividere un destino comune. Il caso più conosciuto fu quello di Stoccolma nel 1973, quando quattro impiegati furono presi in ostaggio da due individui per un periodo di tempo di circa cinque giorni. Durante la segregazione gli individui non furono maltrattati, ma anzi svilupparono una sorta di atmosfera di gruppo che portò le vittime stesse a simpatizzare con i loro sequestratori, entrati a loro volta a far parte del gruppo. Questo episodio, da cui prende il nome la “sindrome di Stoccolma”, viene associato al meccanismo di attaccamento che sviluppa la vittima nei confronti del suo carnefice. Tuttavia può essere visto come la manifestazione più concreta di come un insieme casuale di persone può tramutarsi in gruppo nel giro di poche ore o giorni, sviluppando dei forti legami emotivi (nel caso specifico di Stoccolma, una delle vittime sposò uno dei suoi sequestratori);

● L’interdipendenza di compito, rappresenta invece un elemento di unificazione più forte, poiché è lo scopo finale o l’obiettivo a determinare il legame tra i membri del gruppo. Si parla di interdipendenza positiva, o collaborazione, quando il risultato di ogni membro garantisce il successo dell’intero gruppo, come avviene ad esempio in una squadra sportiva. L’interdipendenza negativa, o competizione, si manifesta quando il rendimento di un individuo può determinare l’insuccesso di qualcun altro. Un esempio sono le competizioni tra colleghi di lavoro per ottenere un bonus o una promozione in base al rendimento.

Muzafer Sherif, psicologo turco considerato il padre della psicologia sociale, noto soprattutto per i suoi studi in merito al ruolo che l’interazione sociale svolge come sostegno per l’individuo all’interno di una società, interpreta il gruppo in base alla sua

53 Cfr. SPELTINI G., PALMONARI A., [1999].

forma architetturale. È una struttura a tutti gli effetti, governata da norme e valori comuni, all’interno del quale i rapporti tra i membri si stabiliscono in base a forme di status e ruoli. La prima condizione essenziale è che vi sia un interesse o una motivazione comune che spinga gli individui a creare un’interazione duratura nel tempo. Le varie attività svolte al suo interno danno vita ad una specializzazione e differenziazione dei ruoli, contrassegnati a loro volta da uno status diverso. Secondo Sherif quindi le proprietà minime affinché un gruppo possa essere considerato come tale sono: avere una struttura ben organizzata con ruoli e status precisi; avere delle regole (anche tacite) e dei valori che regolano il comportamento degli individui. Questa natura longitudinale del gruppo, come la definisce lo stesso autore, prevede inoltre che le relazioni tra i membri, tra il leader e gli individui, tra i ruoli e le regole, si sviluppino nel corso del tempo. È quindi necessario che ci sia dietro un percorso temporale duraturo, poiché un insieme di individui messi casualmente in una stanza a discutere di un argomento, non costituisce un gruppo ma solo una situazione di aggregazione54.

3.1.1. Bisogni, ruoli e status

Nella psicologia tradizionale, lo scambio relazionale tra due individui dipende soprattutto dalle caratteristiche personali dei soggetti coinvolti, ma in una prospettiva costruttivista la relazione è strettamente correlata anche all’interscambio di informazioni, emozioni e significati, influenzati dalle necessità e dai bisogni situazionali. In ambito organizzativo, le relazioni personali e professionali si intrecciano inevitabilmente nel corso del tempo, anche se talora si manifesta una riluttanza al coinvolgimento emotivo in determinate situazioni lavorative, spesso è impossibile riuscire a sottrarsi. Dal momento in cui un individuo entra a far parte di un contesto organizzativo, dentro il quale deve proporsi e presentarsi agli altri come un collega, si innescano automaticamente delle relazioni di lontananza o di vicinanza. Tuttavia, sia in caso di esito negativo che positivo, sono plurimi i motivi per i quali l’organizzazione si sviluppa principalmente sulle relazioni di gruppo. Prima tra tutte è ovviamente la necessità di raggiungere un obiettivo, che sia quello organizzativo, oppure personale (spesso legato al guadagno), l’individuo ha bisogno di porsi una meta affinché sia spinto a ricercare una collaborazione comune. La seconda motivazione, non meno importante è

54 Cfr. SPELTINI G., PALMONARI A., [1999].

che alla base di un gruppo vi sono una serie di bisogni, personali o professionali, da soddisfare. Come già accennato nel capitolo precedente, e del quale daremo un ampio approfondimento nel prossimo paragrafo, McClelland individua quattro bisogni principali che attivano, ma soprattutto, mantengono nel tempo le relazioni (lavorative) di gruppo55:

● Need for security: questo bisogno innato si sviluppa nell’uomo fin dai primi anni di vita e accompagna l’individuo per tutta l’esistenza. È ciò che ci spinge ad avere fiducia nelle nostre capacità, ad avere fiducia in ciò che siamo e in ciò che possiamo fare. Il più delle volte già il fatto di avere relazioni familiari o lavorative soddisfa di base questo bisogno esistenziale di avere un posto nel mondo;

● Need for affiliation: spinti dall’esigenza di non sentirsi soli al mondo, questo bisogno di affiliazione ci costringe a cercare costantemente delle relazioni, sia affettive che lavorative. Tuttavia questa necessità funge da calamita per individui simili o affini a noi, e questa somiglianza è fondamentale affinché ci sia il consolidamento della propria identità. Le persone motivate da un elevato bisogno di affiliazione sono anche quelle che lavorano più volentieri in gruppo e che ricevono un grosso stimolo più dal riconoscimento sociale che da un riconoscimento professionale (monetario);

● Need for power: rappresenta la necessità di lasciare una traccia di se stessi nell’ambiente che ci circonda o il bisogno concreto di poter influenzare gli altri. Nel continuum del potere si parte, a livello più basso, dalla necessità di poter fare qualcosa di significativo, fino ad arrivare al bisogno di manipolare gli altri, la realtà o le situazioni. Il bisogno di potere può essere considerato tanto motivante quanto pericoloso, soprattutto quando si fa riferimento all’influenza, al dominio, alla sottomissione, ma anche all’obbedienza, alla resistenza o alla ribellione. In ambito organizzativo e professionale, la maggior parte delle relazioni che si sviluppano tra i membri sono anche delle relazioni di potere, che in genere sono strettamente correlate anche al bisogno di sicurezza. Chi ha un forte bisogno di potere tende ad essere attratto da chi invece ha un forte bisogno di dipendenza. Entrambi soddisfano queste due necessità per colmare un bisogno

di sicurezza;

● Need for equity: è il bisogno di ricercare, nelle relazioni con gli altri, una condizione di parità. Come suggerisce la teoria dell’equità di Adams, gli individui negli scambi sociali o nelle relazioni di tipo dare/avere, ricercano sul posto di lavoro imparzialità e giustizia. Per equità si intende quindi una situazione di equilibrio per la quale l’individuo percepisce che il trattamento ricevuto è analogo a quello che ricevono i suoi pari, assunti come oggetto di confronto. Quando invece viene percepita una condizione di non equità, si diffonde un clima di tensione che spinge l’individuo stesso ad adottare dei comportamenti che mirano a ristabilire una condizione di equilibrio.

Questi quattro bisogni appena elencati sono necessari per spingere l’individuo verso una condizione di collaborazione e al mantenimento di un gruppo di lavoro stabile. Come sappiamo un gruppo rappresenta infatti un’entità strutturata, dove ogni singolo membro è motivato da bisogni di natura differente e dove ognuno ricopre un preciso ruolo e un preciso status. Chi ricopre lo status di leader sarà una persona maggiormente propensa, rispetto agli altri, a soddisfare bisogni di sicurezza e di potere, mentre i suoi collaboratori svilupperanno tra loro bisogni di equità molto più marcati.

Il termine ruolo, dal latino rotulum, ovvero foglio arrotolato, indicava nella commedia dell’arte, il canovaccio della rappresentazione teatrale che serviva agli interpreti come traccia per le loro improvvisazioni e quindi per i loro ruoli. Così come nella commedia e nel teatro ogni persona nel corso della sua vita, ma anche nel corso di una singola giornata, assume una pluralità di ruoli: da quello di madre o di padre, a quello di figlio, sorella o fratello, a quello di studente, dipendente o imprenditore. Ogni individuo indossa quindi più maschere, che hanno sia delle caratteristiche fisse, che delle caratteristiche soggettive, che cambiano da un individuo all’altro.

3.1.1.1. I ruoli lavorativi

Anche i ruoli lavorativi non si sottraggono ai principi appena citati, e nelle organizzazioni equivalgono quindi a delle maschere che ogni individuo indossa per poter esprimere al meglio le proprie capacità o nascondere le proprie debolezze. Alcune persone si immedesimano così tanto nella loro professione da non distinguere più ad un certo punto la loro personalità dalla loro posizione lavorativa.

Quando un individuo entra a far parte di un contesto organizzativo viene investito della responsabilità di svolgere determinati compiti, delle mansioni, che in parte sono stabiliti da contratto, ed in parte emergono in base alle caratteristiche personali del soggetto durante il suo percorso lavorativo. Il ruolo si identifica quindi con l’insieme di quelle caratteristiche che definiscono una posizione lavorativa. Gli assiomi di base che soddisfano tali caratteristiche sono rispettivamente i seguenti56:

1. La condizione di ruolo sussiste solo nel momento in cui ci sia una relazione con altri ruoli complementari: il ruolo di madre esiste solo quando c’è un figlio; il ruolo di medico esiste nel momento in cui ci sono dei pazienti; il ruolo di capo esiste solo quando ci sono dei dipendenti;

2. Ogni ruolo ha dei confini, che possono essere d’azione, di potere o di controllo, entro i quali ogni individuo ha la facoltà di agire. Un operaio semplice che svolge i suoi compiti nella linea di produzione, non ha la possibilità di agire a livello manageriale sull’investimento del budget aziendale. Ci sono però situazioni particolari in cui questo confine potrebbe divenire meno marcato, soprattutto tra titolari di territori limitrofi, e quindi tra ruoli molto simili. Questo rapporto tra ruoli ed individui non può quindi essere considerato come statico, ma è soggetto a delle continue trasformazioni che vanno ad incidere spesso sulla mappa complessiva dell’organizzazione;

3. Ogni ruolo ha dei vincoli, sia interni, come quelli individuali e collegati ad esempio a caratteristiche della personalità, o esterni e quindi legati ad esempio a norme legali o regole aziendali da rispettare;

4. Ogni ruolo possiede sia una parte prescritta da contratto, e quindi strettamente collegata alle mansioni e ai compiti da svolgere, sia una dimensione soggettiva e quindi lasciata alla libera iniziativa dell’individuo che agisce autonomamente per sviluppare al meglio le proprie capacità. Le organizzazioni, da manuale, sono il regno delle regole e dell’ordine, tuttavia sappiamo che per resistere al cambiamento devono essere anche mutevoli e capaci di sapersi adattare. È per questo motivo che i ruoli devono risultare quindi dalla combinazione sia della dimensione prescrittiva, che di quella discrezionale, poiché la creatività del singolo individuo è fondamentale;

56 AVALLONE F. [2011], Ibd.

5. Potere, risorse e vincoli sono i tre elementi intorno ai quali gira il campo di azione di un ruolo, poiché tramite essi un individuo è capace, entro i confini, di esercitare una certa influenza utilizzando al meglio le risorse (sia finanziarie che non) di cui dispone;

6. Infine, ogni ruolo è soggetto al controllo e alla valutazione, sia da parte di chi ricopre altri ruoli, sia dalla persona stessa che lo interpreta.

I ruoli lavorativi si differenziano quindi principalmente sulla base delle funzioni organizzative, come la produzione, il marketing, la direzione delle risorse umane, l’amministrazione ecc, e dentro ad ognuna di esse sono molteplici, ed è per questo motivo che la prima dimensione di analisi di un ruolo è quella che rispecchia la sua funzione. La seconda dimensione è quella gerarchica, poiché ogni ruolo che viene ricoperto è associato ad un grado specifico di autonomia e di potere decisionale. È logico pensare che strutture organizzative tendenti al decentramento del potere, e quindi con un minor numero di livelli gerarchici, siano ricche di ruoli con un grado equivalente. La terza ed ultima dimensione è quella che vede le mansioni del ruolo, o come centrali, oppure come periferiche: un neoassunto sarà investito di compiti più periferici, proprio per dargli la possibilità di avvicinarsi per gradi, e tramite l’esperienza, alla sua mansione principale, a differenza di un senior.

La definizione di ruolo può essere quindi ampliata sulla base di queste premesse per ridefinirla come l’insieme delle aspettative che hanno gli individui verso chi occupa una determinata posizione, ma anche l’insieme delle aspettative su come gli altri agiscono nei confronti della persona che occupa quel determinato ruolo: pensiamo ad un leader, ciò che lo rende tale è l’insieme di tutte le aspettative che nutrono su di lui i membri del gruppo (definiti come role set) che si affidano alla sua direzione, e reciprocamente, anche l’insieme dei comportamenti che si attivano nei suoi confronti e che lo rendono tale. Questo aspetto di reciprocità dei ruoli fonda le proprie basi a livello culturale e sociale e, a tale proposito, uno degli esperimenti più importanti che definiscono questo concetto è quello dello psicologo statunitense della Stanford University, Phillip Zimbaldo, chiamato “Stanford Prison”57. Furono selezionati, sulla base delle caratteristiche psicologiche, 24 soggetti maschi tra gli studenti universitari della struttura, con lo scopo di rinchiuderli, per un periodo di massimo due settimane,

57 Cfr. SPELTINI G., PALMONARI A., [1999].

all’interno di un’ala dell’università appositamente dedicata. A 12 dei partecipanti fu assegnato il ruolo di guardie penitenziarie, mentre ai restanti 12 quello di prigioniero. Entrambi i gruppi furono precedentemente istruiti sui limiti pratici della simulazione e del loro comportamento. Dopo appena due giorni dall’inizio dell’esperimento i prigionieri, immedesimandosi nel loro ruolo, inscenarono una vera e propria ribellione contro i loro supervisori, che a loro volta, utilizzarono dei metodi di repressione e di sottomissione piuttosto forti. Nel corso dei giorni successivi quattro individui del “gruppo prigionieri” dovettero essere liberati, poiché iniziarono a manifestare dei gravi disturbi psicosomatici, come i rush cutanei da stress, mentre gli altri, assunsero un atteggiamento passivo, dando, secondo Zimbaldo, dei chiari segni di destrutturazione individuale, a seguito del potere intimidatorio e talora sadico esercitato dalle guardie.

Questo esperimento proverebbe quindi che i ruoli sono il risultato delle aspettative

Documenti correlati