• Non ci sono risultati.

Leadership e strategia

2.2. Le capacità del leader

Alle tre aree di competenza della leadership precedentemente individuate attraverso il modello a tre cerchi di Adair, corrispondono altrettante funzioni che, riassunte, vanno a delineare in modo omogeneo il saper fare e il saper essere del leader. Come già accennato brevemente, a livello individuale, le funzioni più importanti sono: la motivazione, la capacità organizzativa e la reattività al cambiamento, la capacità di gestione della performance ed infine la capacità di selezione e sviluppo delle risorse umane. Di seguito andremo ad analizzare in modo più approfondito alcune di queste capacità.

2.2.1. Motivare l’individuo

Una delle attività fondamentali nell’esercizio della leadership consiste nel condurre le persone verso un obiettivo fino a che questo non venga raggiunto. Motivare qualcuno vuol dire quindi spingerlo verso una direzione prestabilita. I sistemi di retribuzione legati alla performance non sempre sono sufficienti a spingere le persone verso l’obiettivo concordato. Il contatto quotidiano con il leader del gruppo, gioca un ruolo decisivo per innescare azioni produttive, distinguendo così chi svolge il proprio lavoro passivamente da chi si impegna a svolgerlo al meglio.

In merito al processo motivazionale, che sempre più spesso tende ad essere sottovalutato, sono state elaborate diverse teorie tra cui quelle di Gary Latham e Edwin Locke31, che, osservando nel corso dei loro esperimenti più di 1100 supervisori e team leader, hanno calcolato in media un incremento della produttività lavorativa tra l’11% e il 27%, quando in azienda il processo di goal setting (definizione degli obiettivi) veniva stabilito per gruppo o individualmente.

La motivazione, termine singolare femminile, in psicologia indica “l’insieme dei bisogni, desideri o intenzioni che prendono parte alla determinazione del comportamento e che conferiscono a questo unità e significato: si distinguono aspetti primari quali i bisogni fisiologici o sociali, e aspetti secondari, quali i fattori di stimolazione esterna o di progettualità individuale”32. Dare un motivo, equivale quindi a dare una ragione per svolgere qualcosa per qualcuno.

La motivazione è formata da tre componenti: la direzione, che specifica verso cosa ci stiamo impegnando; lo sforzo, che misura quanto in termini di energie ci

31 Cfr. AMSTRONG M. [2008].

spingiamo a dare del nostro meglio; ed infine la persistenza, ovvero quanto a lungo dura questa attività.

Come evidenziano la definizione del vocabolario Treccani e la FIG. II. V, la motivazione si innesca sulla base di un bisogno che noi percepiamo come insoddisfatto. Il processo motivazionale è quindi composto da tre elementi che si influenzano reciprocamente in un sistema a ciclo infinito, e che sono rispettivamente: il bisogno, l’obiettivo e l’azione per raggiungerlo33. Questo modello deve però tenere presente che questi tre elementi possono assumere varie forme, a seconda dell’individuo e della situazione in cui esso si trova. Le politiche motivazionali si devono plasmare a seconda degli individui, che come sappiamo, sono unici e si differenziano gli uni dagli altri.

La motivazione, intesa come un complesso sistema di forze che manovrano il nostro comportamento, agisce su due piani distinti: a livello intrinseco e a livello estrinseco. La motivazione intrinseca deriva principalmente da fattori individuali che includono il senso di responsabilità, l’interesse che proviamo per una determinata professione, l’autonomia di azione o la necessità di sviluppare dei nuovi task. La motivazione estrinseca include invece dei metodi che non dipendono da noi stessi e che ci spingono a raggiungere un determinato obiettivo, come ad esempio gli incentivi economici, i premi o i provvedimenti disciplinari (fattori che sono indotti dall’ambiente che ci circonda).

2.2.1.1. Le teorie della motivazione sul lavoro

Comprendere i processi motivazionali sul lavoro si rivela importante soprattutto perché l’ambiente lavorativo è il luogo dove l’individuo passa la maggior parte del suo tempo e dove costruisce una propria identità a livello sociale. Motivare nel modo più idoneo le risorse umane costituisce sicuramente uno dei metodi che contribuiscono al raggiungimento del vantaggio competitivo sul mercato. Per questo motivo le teorie sulla motivazione che si sono accumulate nel corso degli anni, hanno tentato di spiegare le ragioni che influenzano il nostro comportamento.

L’approccio definito dei bisogni-motivi-valori34, che interpreta la motivazione come il risultato del soddisfacimento dei bisogni personali fu elaborato da Clayton

33 Cfr. AMSTRONG M. [2008].

Alderfer35, psicologo americano conosciuto nella letteratura per aver sviluppato ulteriormente la scala gerarchica dei bisogni di Maslow. Nel 1969, attraverso il modello ERG (existence, relatedness, growth), semplificò la scala dei bisogni in sole tre categorie: il bisogno di sopravvivenza (fisico e di sicurezza), il bisogno di relazione (di rapporto con gli altri e di gruppo) e il bisogno di crescita (autorealizzazione). La differenza sostanziale tra i due modelli (Alderfer-Maslow) va attribuita non solo alla semplificazione delle categorie, ma anche al modo in cui esse si influenzano tra di loro. Se per Maslow la distribuzione dei bisogni era di tipo gerarchico e l’accesso ai livelli più alti della piramide era influenzato dalla soddisfazione dei bisogni inferiori, per lo psicologo americano i bisogni di sopravvivenza, relazione e crescita si influenzano sullo stesso piano. L’ordine di importanza delle tre categorie è infatti variabile a seconda dell’individuo. Inoltre per il principio di frustrazione-regressione, se uno dei bisogni a livello superiore non viene soddisfatto l’individuo può decidere di regredire a bisogni inferiori più facili da soddisfare.

Frederick Herzberg36, anch’egli psicologo statunitense e padre degli studi legati al job enrichment, introdusse la teoria bifattoriale, secondo la quale l’individuo, in ambito lavorativo, viene influenzato dai fattori igienici e dai fattori motivanti37.

I fattori igienici non hanno una vera e propria capacità di motivare, ma se non vengono soddisfatti adeguatamente creano del malcontento e sono, ad esempio, le condizioni di lavoro, la supervisione, le relazioni con i pari e le politiche di HR. I fattori motivanti appagano invece bisogni ad un livello superiore rispetto ai primi e generano la motivazione necessaria a raggiungere gli obiettivi e sono, ad esempio, l’avanzamento di carriera, il lavoro qualificante, le responsabilità e il riconoscimento sociale dei risultati ottenuti.

Ad un campione di 200 individui, tra ingegneri e contabili di Pittsburgh, Herzberg sottopose un questionario in cui veniva richiesto di indicare quali fossero stati fino a quel momento gli eventi che avevano prodotto in loro soddisfazione o insoddisfazione lavorativa.

Alla fine della ricerca furono individuati una ventina di fattori, sia legati alla soddisfazione, sia legati all’insoddisfazione, indipendenti gli uni dagli altri, ovvero non

35

Per approfondimento consultare il sito web: www.valuebasedmanagement.net 36 Cfr. AVALLONE F. [2011].

considerati come concetti opposti, ma semplicemente diversi. Alcuni fattori, definiti come positivi ed intrinseci, come la capacità di raggiungere un obiettivo prestabilito, il grado di responsabilità o essere promossi a lavori più importanti, vennero attribuiti alla soddisfazione. Quelli negativi ed estrinseci, come la supervisione dei capisquadra, i livelli di retribuzione e l’ambiente di lavoro, vennero invece attribuiti all’insoddisfazione. Però, se le variabili attribuite alla soddisfazione non sono presenti, ciò non comporta insoddisfazione, ma solo indifferenza.

Le teorie sviluppate da Herzberg furono considerate dagli anni sessanta in poi, fondamentali nell’esercizio del management, stimolando la revisione dell’organizzazione del lavoro e delle mansioni degli operai (job enrichment), accorpando compiti che prima erano separati da più livelli gerarchici.

Quella introdotta da David McClelland38, si concentrò invece solo sui bisogni di successo (need for achievement), interpretati come critici per la determinazione del livello di performance all’interno del contesto lavorativo. Il bisogno di successo rappresenta la motivazione che sottintende il desiderio di realizzare gli obiettivi nel migliore dei modi, di eccellere nelle proprie prestazioni e di spingersi al massimo per il conseguimento di eccellenti risultati. Gli individui che registrano un livello di motivazione al successo elevato generalmente si concentrano molto su se stessi, sono sicuri delle proprie abilità e non hanno paura di confrontarsi con gli altri. Al contrario le persone che hanno un basso livello di motivazione al successo, sono generalmente ansiose, autocritiche e propense al fallimento, più per paura che per inadeguatezza.

Il bisogno di successo non rappresenta tuttavia l’unica motivazione che spinge l’individuo a raggiungere la propria meta. Nel contesto lavorativo si manifestano anche il bisogno di affiliazione (need for affiliation), interpretato come la necessità di stabilire dei rapporti positivi con i propri collaboratori, e il bisogno di potere (need for power) interpretato come il desiderio di influenzare gli altri, nel senso positivo del termine, guidando il proprio team verso un interesse comune (per approfondimento vedi capitolo 3).

38 Cfr. AVALLONE F. [2011 .

2.2.1.2. Le tecniche di motivazione

Ma quali sono le tecniche per motivare correttamente l’individuo o il team di lavoro?

Così come il cliente esterno all’azienda viene incentivato e motivato ad usufruire di un servizio in cambio di un compenso economico, il cliente interno39 (collaboratore aziendale), deve essere incentivato allo stesso modo, con la differenza che ad esso chiediamo in cambio un tipo di sforzo differente: impegno, disciplina, costanza, serietà e positività.

Il primo passo è quello di identificare le esigenze dell’individuo tramite l’osservazione continua sul posto di lavoro. Non basta un semplice colloquio, è necessario capire quali sono i bisogni e quali necessità dobbiamo colmare. Una volta identificati, il processo di motivazione ha lo scopo di far capire all’individuo che il ruolo che ricopre all’interno dell’azienda, è il mezzo per raggiungere non solo gli obiettivi comuni, ma anche i suoi obiettivi personali.

Affinché ci possa essere un esito positivo, le vie motivazionali da percorrere sono tre40: 1. La valorizzazione dell’individuo;

2. L’incentivo monetario; 3. L’incentivo non monetario.

Quando si parla di valorizzazione dell’individuo si fa riferimento soprattutto a quelle pratiche di talent management, introdotte per la prima volta da David Watkins nel 1998, che identificano quel processo di sviluppo e mantenimento del talento e delle capacità degli individui qualificati all’interno dell’azienda.

Il termine talento, dal latino talentum e dal greco antico τάλαντον, che in origine indicava l’unità di misura della massa e del peso, ad oggi racchiude le abilità, le doti, le conoscenze e le competenze proprie dell’individuo, ovvero l’insieme delle caratteristiche che consentono ad ognuno di noi di dare il massimo nei compiti che svolgiamo. Una persona dotata di talento (di un “peso” in termini intellettuali) è quindi un genio con “una predisposizione naturale o un’attitudine nel fare qualche cosa”41.

39

Per approfondimento consultare il sito web: www.paolomazzoni.it 40 Cfr. AMSTRONG M. [2008].

La gestione dei talenti, o talent management, si occupa quindi di valorizzare l’individuo dotato di tali attitudini, di metterlo in condizione di accrescere le proprie skills e di investire attivamente sul suo successo.

Il premio monetario rappresenta invece la soluzione più semplice da percorrere per incentivare una risorsa umana a svolgere un determinato compito. Il denaro, sotto forma di emolumenti si figura come la ricompensa scontata e più diffusa per i dipendenti. Secondo le teorie della discrepanza la soddisfazione viene raggiunta in questo caso, solo quando la retribuzione si eguaglia a ciò che l’individuo si aspetta di dover ricevere, mentre per la teoria dell’equità la soddisfazione si raggiunge quando il compenso ricevuto raggiunge o supera quello ottenuto dai propri colleghi di lavoro42. La soddisfazione indotta dal compenso monetario viene influenzata quindi da tre variabili:

1. la propria retribuzione;

2. il confronto con la retribuzione degli altri dipendenti;

3. la percezione di quanto l’individuo ritenga adeguato un certo compenso per il proprio lavoro.

Come ci ricorda Herzberg, la retribuzione appartiene ai fattori igienici e quindi a basso contenuto motivazionale. Una privazione monetaria causerebbe insoddisfazione, ma al contrario una remunerazione fissa, senza alcun tipo di incentivazioni, non genera soddisfazione a lungo termine. La remunerazione è sicuramente uno strumento potente per soddisfare i più bassi bisogni di sopravvivenza e assume una forma discriminante quando l’individuo decide di accettare o meno un’offerta di lavoro. Gli incentivi monetari sono quindi uno strumento motivazionale, ma hanno un effetto temporaneo e più accentuato sulle persone che hanno un attaccamento al denaro e al successo molto forte.

Il riconoscimento, la responsabilità, l’autonomia decisionale, la crescita professionale e l’empowerment, rappresentano invece i premi non monetari che a differenza del denaro hanno un potenziale infinito e decisamente più duraturo.

Delle cinque, il riconoscimento è la forma di motivazione (materiale e non) più efficace. Premiare la performance brillante dei collaboratori con bonus, cene, viaggi e buoni spesa è un metodo diffuso tra i manager per dimostrare ai dipendenti che stanno andando nella giusta direzione. Il riconoscimento consiste tuttavia anche nel dare un

42 Cfr. AVALLONE F. [2011] .

riscontro positivo tramite un apprezzamento verbale, anche perché a livello relazionale il feedback positivo ha un potenziale quasi infinito. Queste forme motivazionali (in particolar modo quelle materiali) non possono ovviamente essere distribuite quotidianamente, ma devono essere modulate sui risultati e sui comportamenti particolarmente degni di nota, ma soprattutto devono essere spontanei e adeguatamente bilanciati.

2.2.2. La capacità organizzativa

La capacità organizzativa di un leader non solo viene misurata in base alle attività di coordinamento e mantenimento del processo produttivo, ma è riconducibile anche ad altre attività come quella di impostazione dei ruoli e dei compiti individuali e allo sviluppo delle capacità dei singoli individui o dei gruppi di lavoro. Tenendo conto della realtà mutevole di un’organizzazione, le competenze manageriali e le soluzioni organizzative adottate devono essere revisionate ed aggiornate in corso d’opera, perché come un elastico, la competenza organizzativa è resiliente, mutevole, ma solida, perché le circostanze particolari richiedono sempre una dose di elevata adattabilità al contesto.

L’organizzazione nel suo insieme non va concepita solo ed esclusivamente come un insieme di mezzi tecnologici, produttivi ed economici, ma va riconosciuto che alla base di ogni processo vi sono una serie di attività, di azioni, di decisioni e di relazioni che influenzano coloro che operano al suo interno. La dimensione relazionale è quindi centrale non solo perché un leader deve essere capace di declinare un sistema di ruoli e di compiti in relazione ai suoi dipendenti, ma deve essere capace di differenziarli, di integrarli, di coordinarli perché la fitta rete delle relazioni non coinvolge solo gli individui, ma anche il rapporto tra l’individuo e il gruppo, il rapporto tra i vari gruppi di lavoro ed infine il rapporto tra i gruppi di lavoro e l’organizzazione. Se un singolo componente di questa catena lavora male, le ripercussioni si manifestano a cascata su tutto il resto dell’unità.

2.2.2.1. Il job design

Tra gli strumenti organizzativi di un manager/leader, il job design43 rappresenta uno dei più importanti elementi di incontro tra il dipendente, il ruolo che ricopre in

azienda e chi glielo impone. Decidere le mansioni, i compiti e le responsabilità degli individui richiede una conoscenza approfondita delle capacità di ogni singolo componente del team. Saper riconoscere il livello di maturità, di propensione al rischio, di competenze professionali, di competenze relazionali e psicologiche degli individui, è strettamente necessario affinché si possa cucire precisamente un incarico su ogni singolo dipendente.

Le condizioni fondamentali affinché un processo di job design sia efficace si riassumono in alcune regole da non dimenticare mai. Il primo accorgimento è quello di rispettare l’ampiezza del profilo lavorativo. Le mansioni non devono essere né troppe, né troppo poche, ma il carico di lavoro deve essere adeguato alle capacità e al ruolo che l’individuo ricopre. Saturare al massimo le capacità di una persona, comporta stress e distrazione, mentre impoverire il suo profilo lavorativo equivale a demansionare o a passare un messaggio di sfiducia nei suoi confronti. In relazione a questa prima regola generale, è opportuno che i compiti assegnati siano inoltre affini e non appartenenti a ruoli organizzativi diversi. Ad un operaio semplice che ha il compito di svolgere determinate azioni nella catena di produzione dovranno essere assegnati compiti simili o congiunti con il suo ruolo (come ad esempio pulire la postazione di lavoro dopo ogni blocco). Difficilmente gli verrà assegnato, ad esempio, il compito di preoccuparsi dell’approvvigionamento delle materie prime per tutta la catena di montaggio. Nelle realtà aziendali di piccole o medie dimensioni, tuttavia gli imprenditori sono spinti a concentrare nelle mani di poche persone eccessivi carichi. Questi killer job sono una delle prime cause di stress lavoro correlato, che si manifesta quando le richieste lavorative superano le capacità del singolo individuo.

Per poter svolgere con precisione l’attività di job design è necessario però aver presente cosa rappresenta il ruolo lavorativo all’interno di un’organizzazione. In modo approssimativo possiamo definirlo come la posizione di un individuo all’interno di una precisa realtà aziendale, composto dalle seguenti tre parti44:

1. elemento: la componente lavorativa più piccola che identifica la sequenza manuale e fisica del lavoro svolto (riempire il braccio di caffè in polvere e avvitarlo nell’apposita macchinetta);

44 Cfr. AVALLONE F. [2011].

2. Compito: comunemente conosciuto come task, il compito rappresenta una unità ben definita di elementi, caratterizzata da un inizio e da una fine (pulire la macchinetta del caffè dopo ogni utilizzo);

3. Mansione: è una sequenza di compiti, che identifica in modo univoco il lavoro svolto da una persona (addetto al banco-bar);

Ma vediamo più nello specifico cosa vuol dire definire un ruolo lavorativo: Un esempio di role profile

Denominazione: addetto al banco-bar. Unità organizzativa: servizio di sala.

Finalità: responsabile della preparazione di bevande calde/fredde e della preparazione dei dolci; approvvigionamento delle materie prime e della pulizia del bancone di lavoro. Obiettivi chiave:

● preparare velocemente e in modo efficiente le ordinazioni;

● collaborare con i colleghi per soddisfare al meglio i bisogni del cliente. Conoscenze richieste:

● HACCP (Hazard Analysis and Critical Control Points);

● Preparazione del caffè espresso tramite l’utilizzo di una macchinetta da Bar; ● Tecniche di ebollizione del latte per la preparazione della schiuma da

cappuccino;

● Tecniche di taglio frutta per la decorazione di piatti o cocktails. Competenze richieste:

● sapersi adattare ai bisogni e alle richieste di ogni singolo cliente;

● saper gestire efficacemente le risorse materiali a propria disposizione evitando inutili sprechi;

● saper lavorare in team. Competenze comportamentali:

● possedere delle ottime doti comunicative;

● saper gestire situazioni di stress mantenendo un profilo emotivo adeguato alla situazione.

Nel processo di definizione dei ruoli è strettamente necessario che i collaboratori siano coinvolti nella descrizione e definizione del loro profilo lavorativo, affinché si

possa stabilire con loro non solo un contatto umano e relazionale, ma che ci possa essere anche il giusto grado di motivazione che spinge l’individuo a raggiungere l’obiettivo. Ed è a questo punto che entrano in gioco le capacità organizzative e relazionali del vero manager/leader.

Come approfondiremo nel terzo capitolo, uno dei ruoli più importanti del leader è quello di costruire, sviluppare e mantenere un gruppo di lavoro, per dare vita ad un tipo di performance degna di tale nome. Il team è quindi un gruppo di individui che svolge il proprio lavoro in vista di una finalità comune.

Capitolo 3

Documenti correlati