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Leadership e formazione: l'outdoor training come metodo di empowerment individuale e di gruppo.

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Academic year: 2021

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Indice

Introduzione 4

Capitolo 1

Il Management di successo

1.1. Manager si nasce o si diventa? 6

1.1.1. La figura del manager 7

1.1.2. I ruoli di Mintzberg 10

1.1.3. L’approccio trasparente 12

1.1.3.1. Le dieci C trasparenti 12

1.2. I processi decisionali e di controllo nelle organizzazioni moderne 15

1.2.1. Le tipologie decisionali 16

1.2.2. Le decisioni strategiche 17

1.2.2.1. I modelli di decisione strategica 18

1.2.3. Le modalità di gestione del conflitto 19

1.3. Il clima organizzativo 21

Capitolo 2

Leadership e strategia

2.1. I tratti generali della leadership 24

(2)

2.1.1.1. La leadership situazionale 30 2.1.1.2. La leadership funzionale: i cerchi di John Adair 32

2.1.1.3. La Primal Leadership 36

2.2. Le capacità del leader 38

2.2.1. Motivare l’individuo 39

2.2.1.1. Le teorie della motivazione sul lavoro 40

2.2.1.2. Le tecniche di motivazione 43

2.2.2. La capacità organizzativa 45

2.2.2.1. Il job design 45

Capitolo 3

Gruppi di lavoro e formazione esperienziale

3.1. La definizione di gruppo 50

3.1.1. Bisogni, ruoli e status 54

3.1.1.1. I ruoli lavorativi 56

3.1.1.1.1. Potere, ruolo e leadership 59

3.1.1.2. Lo status 60

3.1.2. Il pensiero plurale e le dinamiche di gruppo 62

3.1.3. I gruppi di lavoro 65

3.2. La formazione 67

(3)

3.2.1.1. Formazione esperienziale e Leadership 74

Capitolo 4

Case study: le esperienze di outdoor education nelle

aziende italiane

Case study 1: SARA Assicurazioni 78

Case study 2: Polistudio Rovigo 81

Case study 3: Shering-Plough Corporation 86

Case study 4: UISP Nazionale 89

Conclusioni 93

Bibliografia 95

(4)

Introduzione

“Great leaders move us. They ignite our passion and inspire the best in us. When we try to explain why they are so effective, we speak of strategy, vision, or powerful ideas. But the reality is much more primal: great leadership works through the emotions. [...] In the modern organization, this primordial emotional task—though by now largely invisible—remains foremost among the many jobs of leadership: driving the collective emotions in a positive direction and clearing the smog, created by toxic emotions. This task applies to leadership everywhere, from the boardroom to the shop floor”1. Daniel Goleman introduce così il concetto di leader nelle organizzazioni moderne. Il punto di forza, ma anche l’enorme difficoltà, che incontra questo ruolo, consiste nel mettersi nei panni dell’altro per capire in che direzione si possa evolvere una determinata situazione.

Il presente lavoro strutturato in quattro capitoli, mira a fare chiarezza su come la leadership sia diventata a tutti gli effetti un elemento imprescindibile all’interno dei processi aziendali di un’organizzazione, facendo luce su quali siano gli strumenti adatti per incentivare lo sviluppo di queste capacità individuali, partendo dal presupposto che sia una caratteristica individuale essenziale da coltivare all’interno di una realtà organizzativa.

Nel primo capitolo introdurremo il concetto di management, cercando di individuare tutte le caratteristiche che lo identificano come ruolo, dai processi decisionali alle modalità di gestione dei conflitti, attraverso una tipologia di approccio e di analisi che vede il management come “trasparente”.

Nel secondo capitolo andremo a definire nello specifico una delle caratteristiche che compongono la figura del manager moderno: la leadership. Prendendo in considerazione i modelli e gli stili di leadership e l’intelligenza emotiva come valore aggiunto, andremo ad analizzare tutte le capacità che dovrebbero far parte di una figura dirigenziale che si identifica anche come leader: da quella organizzativa, a quella

(5)

motivazionale.

Nel terzo capitolo verrà approfondito invece il concetto di gruppo: un leader si rivela infatti come tale quando si confronta con un team di lavoro. È pertanto necessario stabilire quali siano le tipologie di gruppo e le caratteristiche essenziali per definirlo come tale, rispetto ad una semplice aggregazione di individui. Una volta stabilita quindi la capacità di un leader di saper condurre un gruppo di individui verso un obiettivo comune, è necessario introdurre anche quelli che rappresentano gli strumenti necessari ad implementare le caratteristiche relazionali e le dinamiche di gruppo: primo tra tutti la formazione, soprattutto quella di tipo esperienziale. Una metodologia che trova le sue origini agli inizi del Novecento e che negli ultimi anni ha assunto un’importanza sempre più crescente per le pratiche di human resource management.

Il quarto ed ultimo capitolo darà quindi uno sguardo ravvicinato a quei progetti formativi che sono stati portati avanti in alcune aziende italiane, basati proprio su esperienze di outdoor education, con lo scopo di migliorare le dinamiche di gruppo e formare i leader del futuro.

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Capitolo 1

Il Management di successo

1.1. Manager si nasce o si diventa?

Uno dei fattori strategici più importanti che rispecchiano il successo aziendale è certamente il cosiddetto “fattore umano”, affiancato da tutta una serie di altri elementi che orientano l'organizzazione verso il vantaggio competitivo. Conoscere le proprie potenzialità, non solo economiche e tecnologiche, ma anche professionali, costituisce una leva fondamentale per l'esercizio del management.

L'organizzazione affonda le sue radici su un sistema strategico di valori e di regole che devono essere necessariamente diffusi e condivisi da tutto l'organico. La figura del manager ha quindi, prima di tutto, il compito di trasmettere e condividere le decisioni del vertice aziendale in termine di obiettivi, allo scopo principale di stabilire un solido canale comunicativo, con e attraverso l'organico aziendale.

Ad oggi quando si parla di management non ci si riferisce solo ed esclusivamente al top management e ai vertici più alti dell'organizzazione, ma con l'evoluzione dei processi produttivi e dei sistemi di organizzazione nella catena decisionale (quest'ultima decisamente più appiattita rispetto al passato), questa figura viene ricoperta da un individuo che come gli altri, appartiene all'organizzazione, investe a pieno titolo le sue strategie e ne è l'immediato diffusore. Non si parla più di “padre padrone” e nemmeno di “capo”, ma solo di “manager”. Se con il taylorismo e la divisione scientifica del lavoro un unico individuo ricopriva le funzioni di reclutamento, di avvio e fine del rapporto professionale, controllo della produzione, direzione dei tempi e dei modi di lavoro, con il passare degli anni e con l'introduzione di un ufficio per la Direzione del Personale, ci si rese conto che la suddivisione delle responsabilità nella direzione di uomini e di mezzi di produzione a più livelli, era strettamente necessaria. La

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responsabilità organizzativa non era più rivolta solo ai sistemi di produzione, ma anche all’orientamento del fattore umano verso il successo2.

La capacità di motivare, il senso di appartenenza, il senso dell'etica e della morale, la capacità di trasmettere obiettivi economici ma anche professionali, la leadership, sono tutte capacità che non si possono insegnare. L'azienda appartiene a tutti i suoi componenti, ma solo alcuni hanno i requisiti per essere dei “buoni manager”. L'esperienza è sicuramente la base più importante che permette all'individuo di allenare tali capacità, condita da una buona dose di skills innate e doni naturali di senso di responsabilità e predisposizione a comunicare con gli altri. Non basta più, nell’azienda del 2.0, comandare e controllare, ma si rende necessario osservare, riflettere, comunicare, motivare e rassicurare.

1.1.1. La Figura del Manager

Quando si parla di management ci si riferisce principalmente ad un'attività di organizzazione e di controllo e quindi in generale di “gestione” di qualcosa o qualcuno. Ma è necessario tenere a mente che in questo caso le risorse più importanti per un Manager sono proprio quelle umane, attraverso le quali si ha l'opportunità di accedere alla gestione di tutte le attività aziendali. Di conseguenza alla base di una buona gestione è fondamentale assicurarsi non solo che le cose siano eseguite, ma che siano eseguite nel miglior modo possibile.

Gestire gli altri non vuol dire però essere immuni dalle valutazioni sul proprio operato. Il Manager, così come gli altri soggetti dell'organizzazione, è sottoposto sia al controllo da parte dei livelli gerarchici superiori, sia all’autocontrollo da parte di se stesso. Questo perché essere manager ed essere leader non è un compito facile. Emergono così le competenze comportamentali3, ovvero l'insieme di tutti quei comportamenti che impattano sulle relazioni con gli altri, come ad esempio la capacità di esercitare la leadership o le abilità comunicative.

Ogni grande organizzazione sviluppa in genere una propria mappa delle competenze, allo scopo di facilitare un tipo di valutazione in itinere rivolta ai manager, stilando una vera e propria tabella su cui confrontare il proprio operato.

2 GOI A. [2004], Professione Manager, Franco Angeli: Milano.

(8)

Secondo alcuni studi effettuati da Michael Pedler4, nella sua guida allo sviluppo delle capacità manageriali, si è arrivati alla conclusione che le caratteristiche universali per essere definiti come manager di successo sono in totale dieci e possono essere riassunte come di seguito:

● conoscenza di se stessi;

● modalità veloce di apprendimento; ● flessibilità mentale;

● inventiva e creatività; ● iniziativa;

● stabilità emotiva ed empatia;

● capacità di interazione e relazione con gli altri; ● problem solving/decision making;

● reattività al cambiamento; 4 AMSTRONG M. [2009] Ibd.

(9)

● professionalità;

● padronanza delle situazioni.

Queste dieci qualità universali devono essere messe in relazione ad altri aspetti del management che visti in un quadro d'insieme portano alla definizione di un vero e proprio “leader”.

Il primo tra questi aspetti è sicuramente quello di apparire come una fonte inequivocabile di autorevolezza agli occhi delle altre persone. Autorevolezza che non implica necessariamente esercizio del potere, ma un'attitudine personale che spinge gli individui ad avere fiducia nel proprio capo, e a rispettare le sue decisioni. Non basta quindi essere investiti di una qualsiasi autorità, ma l'autorevolezza implica un rispetto che deve essere meritato e mantenuto nel tempo.

Ma come riusciamo a far si che le cose vengano realizzate? Il processo del “making it happen” è il fine primo del management, e finché tutti i collaboratori non daranno il massimo per ottenere il risultato prestabilito, il compito del manager sarà quello di

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assicurarsi che succeda. Si tratta principalmente di correre rischi più o meno accettabili e di orientare le risorse umane verso un fine comune.

Ma ottenere dei risultati non dipende solamente da attitudini personali. La personalità è sicuramente importante e si manifesta in modo chiaro con la volontà di agire e l'iniziativa del fare. Si è predisposti naturalmente per manifestare un certo tipo di comportamento, ma nel corso della vita professionale le esperienze sono quelle che agiscono sulla concretezza dell'essere.

Per eccellere nell'ottenimento dei risultati è necessario manifestare una certa determinazione verso l'obiettivo finale. Secondo David McClelland dell'Harvard University5 sono tre i fattori che agiscono sulla motivazione del manager (dove il primo rappresenta inequivocabilmente quello più importante):

1. Il bisogno di riuscire; 2. Il bisogno di potere; 3. Il bisogno di appartenere.

Spinti da questi tre bisogni che potrebbero rientrare nelle categorie di stima e autorealizzazione della scala di Maslow, i manager che spiccano nell'impresa di ottenere un risultato sono in genere molto esigenti con se stessi e con gli altri, lavorano con più efficacia rendendo al massimo soprattutto quando sono sotto pressione e hanno la capacità di definire tempi e metodi di lavoro sia per sé che per altri. Con un occhio di attenzione rivolto a tutto ciò che succede fanno inoltre in modo da poter correggere tempestivamente ogni tipo di deviazione dall'obiettivo finale.

1.1.2. I “ruoli” di Mintzberg

Il lavoro del manager, secondo l'accademico canadese Henry Mintzberg, si analizza in base a tre “ruoli” principali, che sono rispettivamente: il ruolo interpersonale; il ruolo informativo; e infine il ruolo decisionale6.

Per quanto riguarda i ruoli interpersonali il manager ricopre primariamente la figura del leader, al fine di incoraggiare e motivare nel modo giusto i propri dipendenti, esercitando un tipo di autorità sia formale che informale. In secondo luogo deve rappresentare l'azienda anche in situazioni che esulano dall'ambito organizzativo, come

5 AMSTRONG M. [2009] Ibd.

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ad esempio portare a cena un cliente importante o addirittura presenziare al matrimonio di un proprio dipendente. Infine è necessario che ampli la sua rete dei contatti anche al di fuori dei confini aziendali, sia orizzontalmente e quindi con pari colleghi di altre società, sia verticalmente con i rappresentanti istituzionali e del commercio.

Per quanto riguarda la categoria dei ruoli informativi, il manager/leader deve essere pronto a supervisionare l'ambiente lavorativo per raccogliere sempre nuovi feedback, trasmetterli ai propri subordinati, e se necessario anche all'esterno dell'azienda stessa.

Nella terza ed ultima categoria, quella che racchiude i ruoli decisionali, il manager può ricoprire, in casi particolari, ossia quando occupa il vertice strategico, una figura imprenditoriale a tutto tondo e quindi avvalersi della responsabilità di avviare o chiudere determinati progetti, decidere come e dove impiegare le risorse sia finanziarie che umane, ed infine gestire ed arginare eventuali conflitti interni ed esterni.

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Secondo Mintzberg quindi, riconoscere i propri punti di forza e di debolezza in base a questi dieci ruoli, faciliterebbe l'individuo a sviluppare le proprie skills e le proprie conoscenze per diventare un manager a 360°.

1.1.3. L'approccio trasparente

Il management, come i modelli di gestione organizzativa, ha subito nel corso del XX secolo un lento e progressivo cambiamento che, secondo la scienza manageriale, è stato influenzato dall'evoluzione economica nel passaggio dalla società industriale a quella dei servizi. Un cambiamento che ha investito soprattutto il modo di interpretare il “fattore umano” all’interno dell’organizzazione, non più come semplice fattore produttivo, ma come individuo corredato da aspetti psico-sociali non sottovalutabili.

Ad oggi non si parla più solo di Lean Production e organizzazione snella, ma anche di Business Process Reeingineering, di Knowledge Management, di governance e via dicendo. Nel management cosiddetto “2.0”, è quindi normale focalizzare l'attenzione sulla motivazione, sulla cooperazione, sul lavoro di squadra, sullo sviluppo e l'arricchimento delle competenze individuali e di gruppo. Il panorama è quello di un management “trasparente”, inteso come sinonimo di franchezza, onestà e correttezza.

L'idea è quella di traghettare la cultura organizzativa verso un approccio più concreto orientato alla chiarezza, sia interna, ovvero verso se stessi, sia esterna, ovvero nei confronti dei propri interlocutori. Il management trasparente è quindi una proposta finalizzata ad integrare varie caratteristiche sia personali che oggettive della figura manageriale, integrandole con altre tecniche gestionali, al fine di rendere tutte le organizzazioni umane, come le persone che ci lavorano7.

1.1.3.1. Le 10 C trasparenti

Il management trasparente viene identificato attraverso due macro aree8, all'interno delle quali si posizionano rispettivamente cinque fattori per parte che alimentano questa nuova strategia. Le prime 5 C rappresentano i fattori ambientali e sono:

7

HAMEL G. [2009], Oltre la crisi, HBR Italia. 8

BOTTERI T. [2010], Il management trasparente. Guidare le persone e organizzazioni oltre la crisi, Franco Angeli: Milano.

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1. Complessità: l'ambiente in cui operiamo è dominato dall'incertezza ed è quindi necessario saper gestire in modo accurato i rischi e capire che le situazioni in cui spesso ci imbattiamo sono tutt'altro che semplici;

2. Cambiamento: cambiare è sinonimo di sapersi adattare e management trasparente equivale a management della trasformazione;

3. Crisi: ai momenti complessi e di cambiamento spesso si susseguono momenti di crisi, ma sta al manager saperli trasformare in esempi utili per le situazioni future; 4. Convalescenza prolungata: osservare, trarre spunto dagli eventi e rafforzare il

proprio stile di conduzione, per tutelarsi in caso di repentini mutamenti;

5. Comportamenti nuovi: è la somma delle 5 C precedentemente elencate. Il management trasparente si forma come conseguenza ai momenti in cui, per potersi mettere in discussione, la soluzione è “adattarsi”, sviluppando così nuovi punti di vista da prendere in considerazione.

Le seconde 5 C rappresentano invece lo scheletro di questi nuovi comportamenti, sul quale è necessario far leva nel modo più adeguato:

6. Corpo: come sede della forza e della resistenza poiché le attitudini fisiche non sono da sottovalutare. Prendersi cura di se stessi con una buona alimentazione e praticando sport è il metodo migliore per poter essere in linea con il proprio stato mentale. Il corpo è inoltre lo specchio del nostro vissuto, ed è quindi importante saper leggere le sintomatologie di allarme legate, ad esempio, a situazioni di forte stress, come la sudorazione eccessiva o l'aumento del battito cardiaco. 7. Cervello: è la sede delle attitudini mentali e rappresenta la logica e la coscienza

individuale. Il lobo sinistro è quello che permette le funzioni di articolazione del linguaggio e le capacità di ragionamento e di calcolo. Le percezioni vengono infatti trasformate in rappresentazioni di tipo logico, semantico o fonetico. Il lobo destro è invece più creativo ed intuitivo e analizza la realtà attraverso le analogie e le associazioni. Entrambi i lobi collaborano con la corteccia cerebrale (sede delle funzioni mentali cognitive complesse) e con il sistema limbico (emotività, comportamento, memoria);

8. Cuore: è il carattere emotivo, non necessariamente interpretato come una debolezza o una manifestazione troppo sentimentale e poco obiettiva. Si parla invece di passione per ciò che facciamo e di entusiasmo verso il raggiungimento

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di un obiettivo. A questo proposito si parla infatti di intelligenza emotiva96, che Daniel Goleman, psicologo e giornalista statunitense definisce come la capacità di comprendere le proprie emozioni e quelle degli altri, di auto-motivarsi e di motivare gli altri soprattutto nelle avversità, cercando di sviluppare un grado di empatia con il prossimo tale da poter controllare lo stato d'animo generale; 9. Coscienza: la sfera dei valori morali ed etici rappresenta un segmento della

personalità molto importante e marcato, a cui ci ispiriamo quotidianamente nel modo di agire e di pensare. Lo sviluppo della dimensione valoriale segue, nel corso della vita, tre fasi distinte che sono rispettivamente: una fase iniziale definita di “imprinting” che va dalla nascita ai primi sette anni di vita, nella quale l'individuo assorbe come una spugna e soprattutto a livello inconscio, ogni tipo di stimolo ambientale; il secondo va dagli otto anni ai quattordici ed è il momento in cui l'individuo decide di identificarsi con dei modelli veri e propri rispetto ai quali cerca di assomigliare il più possibile; la terza ed ultima fase va invece dai quattordici ai ventuno anni ed è il momento in cui vengono rafforzati tutti i valori appresi sino a quel momento poiché vengono applicati e perseguiti nella vita di tutti i giorni e soprattutto nel rapporto con gli altri. Quando si parla quindi di etica e di morale nel management ci si riferisce al comportamento quotidiano del manager con i suoi collaboratori, che si traduce in una vera e propria competenza professionale, fino ad arrivare ad un principio più profondo come quello di leadership al servizio degli altri.

10. Coraggio: come ultima ma non meno importante vi è la propensione al rischio, un sentimento spinto dalla volontà di rompere gli schemi per poter affrontare la realtà sotto altri punti di vista. Quando si parla di coraggio è logico associare un sentimento del genere all'idea di forza interiore, la quale conduce un individuo a mobilitarsi, a mettersi in gioco e a fare la differenza per se e per gli altri. Ma per far si che l'obiettivo finale coincida con quello atteso occorre creare una base solida su cui agire, attraverso un corretto uso del proprio corpo, del proprio cervello, del proprio cuore e infine della propria coscienza. Il coraggio manageriale è quindi un vero e proprio modello culturale imprenditoriale che si esprime sotto vari aspetti, tra cui: il coraggio mentale (cervello), che ci permette

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di passare dall'intenzione alla decisione; il coraggio emotivo (cuore), che ci permette di affrontare situazioni conflittuali, emotivamente instabili o problematiche; il coraggio etico (coscienza), ovvero il coraggio di dire, ma soprattutto di fare ciò che si ritiene eticamente giusto; ed infine il coraggio fisico (corpo), ovvero la capacità di supportare fisicamente, con consapevolezza e fatica, un'azione condivisa da mente, cuore e coscienza.

Il coraggio manageriale è quindi quella forza d'animo che ci permette di affrontare situazioni organizzative ad alto rischio ed il manager trasparente è colui che in tali situazioni è in grado di riconoscere quale risorsa personale attivare (cervello, cuore, corpo, coscienza), uscendo dalla propria comfort zone e sfruttando i punti di forza al servizio di un obiettivo finale. Essere manager, ed esserlo in modo trasparente vuol dire saper sfruttare le proprie paure e le proprie debolezze, sfidandole apertamente al fine di poter creare un concreto vantaggio competitivo.

1.2.

I processi decisionali e di controllo nelle organizzazioni moderne

Rispetto ad una concezione tayloristica di sistema “chiuso”, l'azienda moderna è attraversata da un processo continuo di controllo, comunicazione, decisione che si sussegue in modo ciclico, spinto e supportato dai fenomeni di interconnessione tra gli individui che fanno parte di questa realtà. Si parla quindi di sistema “aperto” e di soggetto “sociale”106, dove l'essere umano, caratterizzato spesso da limiti fisici e psicologici, debolezze e contraddizioni, è immerso in un'organizzazione in continuo cambiamento. È quindi impensabile che le sfide odierne per sopravvivere nel sistema economico possano essere affrontate da un solo individuo, per cui risulta necessario pensare al processo decisionale come ad una dinamica che si sposta su più livelli gerarchici, da quelli più bassi a quelli del top management.

Ma quali sono gli elementi che influenzano il processo decisionale? Sono sicuramente molteplici e possono essere distinti tra:

● Fattori organizzativi; 10

SCOTT W. G., MURTULA M., STECCO M. [2003], Manuale di Management. Strategie, modelli e risorse dell'impresa nell'economia digitale, Il Sole 24 ore: Milano.

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● Fattori ambientali;

● Caratteristiche del gruppo; ● Fattori specifici della decisione;

● Caratteristiche del processo decisionale11.

I fattori organizzativi, rappresentati dalla distribuzione del potere, dalla grandezza dell'organizzazione e dalla struttura organizzativa, influenzano, insieme ai fattori ambientali come l'incertezza e la complessità del mercato economico, le caratteristiche del gruppo, dettando la sua struttura e la sua composizione, i flussi comunicativi che si sviluppano al suo interno, le dinamiche socio politiche e infine la tipologia della leadership.

11

ZAPPALÀ S. [2004], Decidere nelle organizzazioni. Per una psicologia dei processi decisionali, Carocci editore: Roma.

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1.2.1. Le tipologie decisionali

Decidere vuol dire generalmente reagire ad un qualsiasi problema, cercando la soluzione migliore per il perseguimento dei propri obiettivi. L'organizzazione è una macchina complessa al cui interno ogni piccolo componente è quotidianamente impegnato a prendere sia decisioni autonome che collettive, le quali hanno un'origine diversa per tipologia e per tempistica. Per quanto riguarda la prima categoria si distinguono le decisioni tecniche da quelle manageriali e istituzionali.

Le decisioni tecniche sono quelle decisioni che coadiuvano lo svolgimento dell'attività produttiva e vengono prese al livello gerarchico più basso. La seconda tipologia, quella delle decisioni manageriali, si estende a livello intermedio, e comprende tutte le attività di coordinamento che mettono in relazione, non solo i componenti dell'azienda, ma anche la stessa con l'ambiente esterno. La terza ed ultima tipologia, quella delle decisioni istituzionali, appartiene invece al livello gerarchico più alto e riguarda le decisioni a lungo termine sugli obiettivi organizzativi e politici di direzione.

La seconda categoria distingue le decisioni tra programmate e non programmate, che, come lascia intuire l'etimologia stessa dei termini, si riferiscono nel primo caso a decisioni semplici e ripetitive che hanno una soluzione chiara e semplice, mentre nel secondo caso, a decisioni che derivano da situazioni non ricorrenti, spesso legate a fattori estrinsechi. In questo caso, ad esempio, si fa riferimento ai cambiamenti repentini di mercato che necessitano una collaborazione più stretta degli individui per potervi far fronte. Se le decisioni programmate possono, in un certo senso, limitare la flessibilità degli individui, con gli eventi non programmati l'abilità del manager consiste proprio nel trasformare queste decisioni repentine ed inaspettate in un processo routinario e programmabile.

1.2.2. Le decisioni strategiche

Le decisioni non programmate sono decisioni che derivano dai massimi vertici aziendali e per questo definite come “strategiche”. Sono il risultato di un processo per la determinazione di un obiettivo, che abbia però una durata a lungo termine e che implichi la riorganizzazione delle risorse materiali ed umane per il perseguimento dell'obiettivo stesso.

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Ma le decisioni che possono essere definite come tali, sono di vario genere, perché l'ambiguità del concetto non ci permette di classificare in modo preciso e sistematico delle tipologie universali. Ogni azienda è un universo a se, immerso in un sistema economico, politico, sociale e geografico differente, se si considerano le necessità che definiscono la strategia organizzativa, derivanti dai bisogni soggettivi ed oggettivi degli individui che ne fanno parte.

Secondo alcuni studi condotti in ambito sociologico le decisioni strategiche si possono riassumere in dieci categorie principali12

● Collocazione geografica (non frequente - riguardano ad esempio decisioni su l'apertura o la direzione di nuovi siti produttivi);

● Input (poco frequente - riguardano ad esempio il cambiamento dei fornitori); ● Confini (poco frequente - riguardano ad esempio la fusione con altre aziende); ● Personale (frequente - riguardano le politiche di HRM);

● Prodotto (frequente - riguardano ad esempio le strategie di marketing);

● Servizi (frequente - riguardano ad esempio l'introduzione o la riduzione dei servizi);

● Dominio (frequente - riguardano ad esempio le politiche di mercato);

● Controlli (più frequente – riguardano le strategie di pianificazione annuale e di budget);

● Riorganizzazione (più frequente – riguardano ad esempio le modificazioni dell'organigramma);

● Tecnologia (più frequente – riguardano ad esempio le decisioni sui macchinari e le attrezzature).

Le categorie di azione sono molteplici e di conseguenza nella letteratura sociologico/organizzativa non esiste ancora un consenso universale su una definizione singola, ma Mintzberg in questi caso parla di strategie intenzionali e strategie emergenti. Le strategie intenzionali sono quelle deliberate, ovvero pianificate in precedenza, mentre quelle emergenti risulterebbero da un processo decisionale non intenzionale e quindi non prevedibile e non pianificabile.

12 ZAPPALÀ S. [2004] Ibd.

(19)

1.2.2.1. I modelli di decisioni strategiche

Le decisioni strategiche-organizzative possono essere classificate, in linea generale, in base a sei modelli che in definitiva raggruppano le loro principali caratteristiche13. Il primo modello è quello razionale, o meglio conosciuto come lineare, proprio perché gli obiettivi sono raggiunti attraverso una precisa pianificazione dei mezzi e dei fini. Ne consegue che una tale organizzazione sia fortemente centralizzata e che derivi principalmente dalla dirigenza. Il secondo modello è quello burocratico, che come suggerisce il nome stesso, si muove attraverso un'attenta regolamentazione e sulle procedure standardizzate. In particolar modo le regole a cui abbiamo accennato sono relative all'amministrazione interna e che quindi definiscono i ruoli, i compiti e le competenze, ma anche provenienti dall'esterno e quindi dallo stato, da altri enti pubblici, dalle banche e così via. Il terzo modello viene definito come adattivo/incrementale, e viene utilizzato da quel tipo di organizzazioni che sono in grado di adattarsi costantemente ai cambiamenti provenienti sia dall'esterno che dall'interno. C'è da sottolineare che in questi casi però l'attenzione del management può focalizzarsi soprattutto sulle metodologie strategiche di adattamento, piuttosto che sugli obiettivi veri e propri. L'ambiente ha infatti un ruolo determinante e l'ottica generale è che sia normale commettere degli errori, ma è altrettanto normale imparare dalle proprie esperienze. Il modello politico invece prevede un'organizzazione che, essendo suddivisa in sottogruppi, tenta di mettere in accordo le loro singole strategie e i loro obiettivi verso una soluzione univoca. Il quinto modello è quello culturale, ed è quello che coinvolge non solo i massimi dirigenti ma tutti gli individui dell'organizzazione e vede nella collaborazione l'espressione maggiore della propria strategia. È importante quindi il clima comunicativo e motivazionale, influenzati rispettivamente dai valori e dalla mission a cui tutti fanno riferimento. Il sesto ed ultimo modello è quello caotico, dove per definizione l'assenza di una procedura decisionale diventa la strategia d'azione nei confronti delle incertezze. È evidente quindi che le maggiori decisioni vengano affidate alla casualità, attirando verso la soluzione del problema individui che il più delle volte si occupano di altro all'interno dell'organizzazione.

Questi modelli appena elencati non si escludono tra loro, ma bensì si integrano, poiché nel contesto aziendale, le decisioni possono essere affrontate in vario modo, da

13

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più persone o gruppi lavorativi, e conseguentemente a punti di vista differenti anche le strategie decisionali potrebbero assumere forme diverse.

1.2.3. Le modalità di gestione del conflitto

Una delle caratteristiche più importanti del management esposta fino ad ora è quella di riuscire a mediare i diversi punti di vista degli individui, al fine di evitare delle contrapposizioni che, nella fase decisionale, potrebbero rallentare o interrompere il raggiungimento degli obiettivi. Differenti settori o gruppi lavorativi presentano logiche e modalità operative differenti e per questo motivo non è semplice farle convivere pacificamente. L'impresa è da considerarsi quindi come un unico soggetto composto da più elementi distinti: la sfida è quella di farli collaborare tra loro nel miglior modo possibile.

Le organizzazioni per attrarre su di sé un più ampio consenso possibile, propongono degli obiettivi comuni di ordine generico, in modo tale che ci possa essere un ampio spazio consensuale tra tutti i collaboratori. Facendo quindi leva su obiettivi generici si ha la possibilità di poterli ridefinire in un secondo momento, in base alle esigenze manifestate da un gruppo specifico piuttosto che da un altro. A livello pratico un esempio potrebbe essere l'aumento degli utili, o tramite l’acquisto di tecnologie migliori per la produzione, oppure evitando alcuni sprechi non programmati (riducendo le spese tali risorse economiche potrebbero essere impiegate in modo differente). In azienda una delle situazioni dove si registra una maggiore conflittualità risale alla redazione del bilancio d'esercizio, dove nascono sentimenti di competizione e di forte conflitto tra le parti, soprattutto quando le risorse economiche non sono disponibili per tutti.

Sono le ambiguità che nascono nei flussi comunicativi e di interazione individuale a nutrire i momenti di conflitto, ambiguità che secondo March e Olsen14 possono essere di quattro tipi:

● ambiguità di preferenza, quando in un obiettivo generale vi sono più sotto-obiettivi ugualmente perseguibili separatamente e in modo differente a seconda della situazione;

14 ZAPPALÀ S. [2004] Ibd.

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● ambiguità di comprensione, quando ad esempio siamo immersi in un ambiente difficilmente interpretabile;

● ambiguità sulla storia, ovvero quando non sono chiari gli avvenimenti del passato e quindi è difficile fare una stima di ciò che potrebbe accadere in futuro; ● ambiguità dell'organizzazione, ovvero ambienti organizzativi dove le decisioni

non vengono prese sempre dalle stesse persone poiché operano all'interno di ambienti mutevoli. Queste organizzazioni vengono chiamate anarchie organizzate, dove nonostante il caos si riesce sempre a dominare l'incertezza e l'ambiguità.

L’organizzazione è pertanto un sistema relazionale complesso e la conflittualità è parte integrante della natura umana. A livello organizzativo il manager si trova quindi a gestire una situazione conflittuale su più livelli: o “con” i collaboratori, o “tra” i collaboratori. Sia nei gruppi formali che in quelli informali vi sono degli individui che hanno per loro natura atteggiamenti sia positivi che negativi diversi, e che possono avere sugli altri delle ripercussioni più o meno importanti.

Il conflitto ha infatti una sintomatologia specifica, sia quando si manifesta all’interno di un gruppo di lavoro, sia quando proviene da un singolo individuo. A livello individuale sono gli atteggiamenti negativi che derivano da aspettative non rispettate, invidia nei confronti di altri collaboratori, impossibilità di sviluppi di carriera e insoddisfazione personale, inadeguatezza, cattivi rapporti con i colleghi, umiliazioni, stress lavoro correlato e mobbing che portano verso livelli di turnover e assenteismo molto alti. A livello di gruppo, generalmente le situazioni di conflittualità derivano invece da stili di leadership troppo rigidi e autoritari, dalla divisione dei compiti poco funzionale, dalla conformazione eterogenea del gruppo stesso e dei suoi individui, dalla sua dimensione, dalle condizioni di lavoro e dalla resistenza al cambiamento.

Se il comportamento di una singola persona all’interno del gruppo si rivela dannoso per gli altri, la soluzione migliore è intervenire nel minor tempo possibile, poiché ignorare la situazione o prendere dei provvedimenti troppo rigidi potrebbe peggiorare la situazione o indebolire il legame del gruppo. Avere un atteggiamento rigido favorisce infatti l’aumentare della conflittualità, mentre dimostrarsi flessibili e disponibili al cambiamento agevola l’adattamento degli individui.

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1.3. Il clima organizzativo

Il clima organizzativo si evidenzia per la sua importanza quando diventa necessario misurare la soddisfazione delle persone che operano all’interno di un sistema aziendale. Il vero valore di un’organizzazione è la risorsa umana, ed il clima organizzativo è il cuscino su cui l’individuo poggia la motivazione e l’intenzionalità a portare a termine i propri compiti.

Il “climate for well-being”15 è caratterizzato da procedure specifiche e la sua prima valutazione oggettiva risale intorno agli anni trenta del novecento, successivamente agli esperimenti di Elton Mayo alla Western Electric Company di Hawthorne, a Chicago16. Tra il 1927 e il 1932 il team di scienziati della scuola delle relazioni umane decise di intraprendere delle ricerche ricorrendo alla scienza come strumento di misurazione, in piena linea con lo scientific management dell’epoca. I risultati di un primo esperimento condotto sulla relazione tra aumento dell’illuminazione e aumento di produttività di uno dei reparti della fabbrica, mise in luce una forte componente psicologica che condizionava gli individui nell’ambito lavorativo. Il primo dei tre esperimenti condotti in fabbrica fu quindi orientato a dimostrare che il clima organizzativo ed i fattori formali (economici) ed informali (di natura psico-sociale) avevano una forte influenza a livello di rendimento produttivo. Articolato in tredici periodi per una durata di due anni, l’esperimento coinvolse 5 operaie: ogni periodo venne caratterizzato da un cambiamento sui tempi lavorativi (es. introduzione delle pause), seguendo in linea generale una progressiva riduzione dell’orario di lavoro effettivo; congiuntamente furono introdotti degli incentivi economici in base ai livelli di produzione. A conclusione dell’esperimento il rendimento orario di produzione aumentò progressivamente di circa il 30%, evidenziando il ruolo importante del clima organizzativo favorevole, instauratosi tra le operaie stesse e il loro supervisore (a metà dell’esperimento fu infatti sostituita una delle 5 operaie che creò situazioni di scompiglio e di crisi all’interno del gruppo).

15 MAJER V., MAROCCI G., A CURA DI [2011] Il c

lima organizzativo, Carocci editore: Roma 16 BONAZZI G., [2008], La questione industriale, Franco Angeli: Milano

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Impossibile non dare rilievo anche agli studi effettuati da Kurt Lewin17 negli anni quaranta dello stesso secolo, sulle dinamiche di gruppo e la sua correlazione con il clima organizzativo.

Così come il clima metereologico, quello organizzativo è costituito da un insieme di fenomeni che nella loro unità determinano lo stato generale di lavoro all’interno di un gruppo e di un’organizzazione. Con la teoria del campo, elaborata in termini matematici, si teneva conto di una moltitudine di fattori coesistenti che andavano a definire uno spazio psicologico e sociale importante al pari di quello fisico, rilevabile all’interno di un gruppo o di un contesto specifico. Al fine di misurare i comportamenti umani come discriminanti, concepì l’ambiente e gli elementi al suo interno come strettamente dipendenti, traducendo matematicamente questa relazione con la funzione

C = f (A,P)

dove C è il comportamento umano, equivalente alla funzione ( f ) di relazione tra l’ambiente (A) e la persona (P).

Sulla base di questi due autori si sono sviluppati nel corso della letteratura vari approcci che possono essere riassunti sotto quattro diverse tipologie: approccio strutturale, che definisce il clima come una caratteristica oggettiva derivante da aspetti e fattori oggettivi all’interno dell’organizzazione; approccio percettivo o psicologico, che individua la nascita del clima organizzativo da fattori individuali e quindi intrinseci all’individuo; approccio interattivo, che vede la nascita del clima organizzativo dall’interazione degli individui all’interno del gruppo; ed infine l’approccio culturale, che vede l’insieme dei valori condivisi come genesi di clima condiviso.

Il benessere sul posto di lavoro è quindi un tema rilevante per la letteratura e gli studi socio-economici che misurano la qualità e la salute dei lavoratori all’interno delle imprese. L’organizzazione è paragonabile ad una cellula vivente dove ogni componente collabora con l’altro per un fine comune, ma ci sono dei casi in cui non sempre si trovano nella condizione migliore per poterlo fare. La figura del manager come Leader all’interno di un gruppo è quindi fondamentale per allacciare tutte le componenti descritte sino ad ora.

17 Cfr. MAJER V., MAROCCI G., A CURA DI [2011] .

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Capitolo 2

Leadership e strategia

2.1. I tratti generali della leadership

Con il concetto generale di Leadership si fa riferimento alla posizione preminente di un soggetto, che sia un gruppo, un individuo o un’organizzazione, rispetto ad un altro della sua specie. Per fare qualche esempio, quando si sente parlare in economia di leadership di mercato, ci si riferisce ad un’azienda che assume una posizione dominante rispetto alle sue concorrenti, secondo una precisa strategia, come la leadership di costo. Quando invece si parla di leadership tecnologica il vantaggio competitivo è dato dal know-how presente in azienda, che rende l’organizzazione unica rispetto alle altre. In altri casi si può parlare invece di opinion leader quando un individuo, o un gruppo di individui, vengono presi come punti di riferimento all’interno di uno specifico contesto comunicativo. Basti pensare a Twitter e a quelli che oggi vengono identificati come influencer, i quali esercitano la capacità di orientare su specifici argomenti un gruppo di persone.

Le caratteristiche di fondo che uniscono questi contesti differenti sono molto semplici: alla base della leadership ci deve essere un sistema di relazioni che mette in contatto più soggetti; il leader ricopre il ruolo di guida nei confronti di qualcun altro, che sia un individuo o un’organizzazione; l’influenza del leader agisce sempre sulle opinioni, sulle strategie di azione o sui comportamenti, individuali o di gruppo; ed infine, un leader è tale indipendentemente dai rapporti gerarchici all’interno di una organizzazione.

Le origini di un approccio sullo studio dei gruppi di lavoro e su come i suoi componenti possono essere influenzati, vanno ricercate negli esperimenti effettuati dalla “scuola motivazionale” di cui fecero parte autori come Elton Mayo e Abram H.

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Maslow. Dobbiamo a questi sociologi ed economisti l’input sulla maggior parte degli studi fatti fino ad oggi, poiché la loro attenzione al fattore umano ha portato alla luce l’individuo come essere pensante, con delle caratteristiche psicologiche incisive sulla produttività dell’organizzazione.

Essere manager non vuol dire necessariamente essere leader, ma si presuppone che per esercitare bene la professione manageriale, come ci suggerisce lo schema già citato di Mintzberg, una delle dieci caratteristiche principali del manager, sia la leadership. Il management interessa infatti genericamente il perseguimento di un obiettivo attraverso il reperimento, l’impiego e l’organizzazione delle risorse economiche e materiali. Ma uno degli strumenti che ci identificano come degli ottimi manager è essere soprattutto degli ottimi Leader.

Liu Shao-Ch’i, presidente della repubblica popolare cinese dal 1959 al 1968, dichiarò alla fine della sua carriera che “non esiste un leader perfetto, e se qualcuno si definisce come tale è sicuramente un impostore”. La leadership non è infatti una meta o un punto di arrivo. La leadership è un percorso, una via che dura per tutta la vita e che richiede dedizione e pazienza. L’analisi sulle componenti della leadership perfetta vanno quindi contestualizzate perché non esiste un elenco scritto e specifico, né tantomeno delle regole standard da rispettare per diventare leader. Da centinaia di studi effettuati è stato possibile definire solo dei tratti generali che accomunano le persone che si sono dimostrate in grado di ricoprire tale ruolo e che riguardano principalmente le competenze professionali, le capacità e i tratti della personalità.

Ma perché una persona, piuttosto che un’altra emerge come tale in una specifica situazione? Perché a differenza delle altre manifesta dei tratti comportamentali che sono tipici di un leader. Le qualità generiche più comuni, secondo l’economista britannico John Adair18, sono calibrate in base al contesto ed hanno un peso differente a seconda del gruppo di lavoro in cui i leader agiscono:

● L’entusiasmo: è sicuramente il tratto più importante e necessario. Rappresenta l’impulso ad arrivare positivamente al raggiungimento di un qualsiasi obiettivo precedentemente stabilito;

● La sicurezza: è la capacità di ispirare fiducia nel prossimo, di figurarsi come punto di riferimento in caso di incertezza e crisi imminente;

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● La durezza: rappresenta la tenacia e la propensione ad ottenere il rispetto e la qualità del lavoro, senza però risultare eccessivamente arroganti o autoritari; ● L’integrità: rappresenta la fedeltà ai propri valori morali, che devono essere

costantemente ricordati ai componenti del gruppo;

● Infine il calore e l’umiltà, che rispecchiano i tratti più umani del nostro comportamento e che si focalizzano sull’attenzione alla persona e alle relazioni, tramite la disponibilità al dialogo ma soprattutto all’ascolto.

Da queste prime caratteristiche generali se ne deduce che, quando nel management privo di leadership, entra in gioco il lato psicologico e relazionale del fattore umano, diventa impossibile raggiungere dei risultati soddisfacenti.. Come ci suggerisce John Kotter19, un individuo può e deve incarnare entrambe le duplici figure che si completano a vicenda, quella del leader e quella del manager.

Se il manager gestisce attraverso la pianificazione economica e l’allocazione delle risorse, il leader elabora una visione, allineando verso la giusta direzione tutta la squadra. Il manager puro si focalizza sulla stabilità e sul controllo, azzerando i tempi morti e gli sprechi. Il leader cerca invece delle vie alternative mettendo in gioco la sua creatività e quella degli altri.

2.1.1. Modelli e stili di leadership

Essere leader vuol dire, prima di tutto, personificare le caratteristiche e le qualità richieste dal gruppo di lavoro che ci riconosce come tali.

Nel corso della storia abbiamo visto susseguirsi figure istituzionali che come leader emergevano a capo di una nazione. Winston Churchill ad esempio risultò tale nel corso della seconda guerra mondiale grazie al suo carisma e ad una serie di conoscenze belliche che gli permisero di essere un ottimo stratega. Conoscenze che gli furono meno utili successivamente, quando nel 1945 perse le elezioni contro un candidato del partito laburista, Clement Attlee.

Alcune caratteristiche generali possono essere infatti presenti in più persone, come ad esempio il coraggio, mentre altre sono strettamente correlate alla situazione. Negli anni quaranta del 1900, alla State University dell’Ohio, alcuni autori come Stodgill e

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Fleishmann elaborarono il Leader Behavior Description Questionnaire20 (LBDQ), che veniva somministrato ai dipendenti per descrivere, su due dimensioni, il comportamento di un leader:

● la dimensione della considerazione, che racchiudeva i comportamenti che ispirano fiducia, rispetto, amicizia e calore;

● la dimensione della struttura d’iniziazione, che indicava la dimensione comunicativa ed organizzativa nei confronti del team di lavoro.

Il risultato del questionario si basava sulle impressioni personali dei dipendenti ed il leader di riferimento poteva ottenere da questo esperimento alti punteggi da entrambe le parti, o viceversa. Lo stile di leadership veniva quindi definito da queste possibili combinazioni, ottenendo quattro varianti, descritte qui di seguito nella FIG. II. I.

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Ma le teorie sviluppate dal gruppo della Ohio State University furono ben presto bersaglio di critiche, non solo per la semplicità legata alle sole due dimensioni analizzate e all’omissione delle variabili ambientali, ma soprattutto perché la considerazione e la struttura d’iniziazione non potevano essere correlate, da sole, agli indici di produttività e di soddisfazione dei lavoratori. Alcuni esperimenti effettuati successivamente da Fleishman evidenziarono infatti che ad alti livelli di struttura, il turn over e le lamentele aumentavano considerevolmente. Quindi, un alto punteggio in entrambe le dimensioni non sempre era correlato positivamente alla performance del leader.

Negli anni successivi, partendo dagli studi sull’LBDQ, Blake e Mouton svilupparono a loro volta una griglia manageriale21 (FIG. II.II), considerando come dimensioni principali l’orientamento al dipendente e l’orientamento al compito, dalle quali emersero cinque stili di leadership.

1. Lo stile esaurito, in basso a sinistra del grafico, registra sia bassi livelli di orientamento al compito, sia di orientamento al dipendente. Identificato anche

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come laissez-faire, il leader in questione si limita solo a comunicare passivamente informazioni e ordini, senza prestare molta attenzione alle relazioni con i propri dipendenti evitando, il più possibile di incappare in eventuali problemi da risolvere;

2. Lo stile del circolo ricreativo, o del gruppo di amici, nel quadrante in alto a sinistra, presenta bassi livelli di orientamento al compito ma alti livelli di orientamento al dipendente. Tratti che lasciano intuire una leadership incentrata principalmente nel creare un’atmosfera lavorativa rassicurante e familiare, supponendo che un tale clima organizzativo aumenti la produttività dei dipendenti;

3. Lo stile del compito, come suggerisce il termine, si trova nel quadrante in basso a destra e presenta alti tratti di orientamento al compito e bassi livelli di orientamento al dipendente. Questo stile di conduzione, identificabile con lo scientific management ed il taylorismo, evidenzia un interesse maggiore per la produzione e tramite l’esercizio di uno stile di conduzione autoritario, spinge i lavoratori a conseguire il risultato ottimale nel minor tempo possibile;

4. Lo stile di squadra, ritenuto quello più efficace dei cinque, si trova nel quadrante in alto a destra, e registra invece, come evidenzia il grafico, alti livelli di orientamento alle risorse umane e alti livelli di orientamento alla produzione. I leader che adottano questo stile sono attenti sia al processo produttivo sia al fattore umano e a tutte le sue variabili;

5. Il quinto ed ultimo stile, quello a metà strada, registra livelli moderati per entrambe le dimensioni, e sebbene lo stile di squadra possa essere ritenuto quello più efficace sulla carta, uno stile ponderato, se ben applicato, riesce a bilanciare entrambe le necessità, portando a termine gli obiettivi e mantenendo un clima organizzativo soddisfacente.

I leader, come abbiamo visto, possono essere classificati secondo svariate categorie, a seconda dello stile di conduzione oppure a seconda del tipo di comportamento nei confronti dei membri del gruppo. Michael Amstrong a tal proposito ne identifica quattro22:

22 Cfr. AMSTRONG M. [2008].

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● Leader carismatico: eccellente comunicatore, il leader carismatico fa leva sulla sua ingombrante personalità e sulla sua capacità di comunicatore;

● Leader autocratico/democratico: i leader autocratici giocano con la loro autorità per farsi ascoltare, costringendo gli altri a perseguire la sua come unica soluzione, contrariamente a quanto accade con i leader democratici che favoriscono il team building ed il problem solving collettivo;

● Leader agevolatori/controllori: queste due tipologie di stile di conduzione della leadership si differenziano in base al metodo con cui incoraggiano gli individui a seguire gli obiettivi. Il leader agevolatore ispira l’altro tramite una vision, mentre il controllore impone in modo più autoritario di obbedire alle proprie indicazioni;

● Leader transazionali/trasformazionali: i leader transazionali incentivano l’obbedienza tramite salari più alti o incarichi con maggiori responsabilità, tramite quindi una transazione materiale. I leader trasformazionali invece percepiscono come più importante il piano motivazionale per incentivare il conseguimento degli obiettivi.

Nonostante le più svariate classificazioni, non esiste uno stile di leadership considerato in assoluto il migliore, perché ogni leader è diverso dall’altro e ogni gruppo si differenzia da gli altri per i membri che ne fanno parte e per l’ambiente organizzativo e sociale in cui è immerso. Un leader ritenuto efficace è infatti in grado di modificare in itinere il proprio stile, adattandolo alle necessità della situazione, applicando ad esempio una forma più autoritaria, anche se il suo stile principale è stato fino a quel momento più democratico e partecipativo. Un leader meno efficace non sa gestire in modo lineare il proprio stile, causando incertezza negli individui a causa dei suoi cambi di stile casuali.

2.1.1.1. Leadership situazionale

Lasciando da parte per un momento la visione che identifica l’appartenenza allo status di leader come derivante da un insieme di qualità generali, Paul Hersey e Kenneth Blanchard elaborarono un modello situazionale23 che arricchì quelli precedentemente utilizzati mettendo in risalto il fattore “maturità”. Lo stile della leadership dovrebbe

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infatti variare in base al livello di conoscenze e di maturità delle persone che si ha intenzione di guidare.

Secondo i due autori, gli stili di leadership principali sono quattro e derivano in un primo momento dall’interazione (come nel caso della griglia manageriale) di due variabili principali: il comportamento supportivo, orientato all’ascolto, alla comunicazione e all’interazione e il comportamento direttivo, più orientato all’organizzazione.

Il primo stile, con una minor propensione alla delega, è il telling (attività: prescrivere). Come suggerisce il termine inglese “raccontare”, il leader è colui che si assume tutte le responsabilità e che provvede solo ad informare gli altri dei ruoli e dei loro compiti.

Il secondo stile è il selling (attività: addestrare) e si differenzia dal primo perché, in questo caso, il leader nell’elaborare una strategia tiene in considerazione i suggerimenti dei propri collaboratori, stimolando quest’ultimi ad intervenire attivamente nel processo organizzativo.

Il terzo stile è quello del participating (attività: coinvolgere), perché i rapporti interpersonali sono di primaria importanza e dove il leader incoraggia e supporta attivamente il lavoro di squadra dei propri dipendenti.

L’ultimo stile è quello del delegating (attività: delegare). In questo caso il leader/capo tende a strutturare il meno possibile il lavoro degli altri, lasciando una piena libertà di azione ma soprattutto di decisione, curando quindi il meno possibile il rapporto interpersonale con il collaboratore.

Ma secondo Hersey e Blanchard, nessuno tra questi stili appena citati, rappresenta, così com’è, lo stile migliore da adottare. L’efficacia della leadership dipende, per la maggior parte, dalla situazione in cui il gruppo di lavoro sta agendo e dai tratti personali dei collaboratori. Per misurare o meno l’efficacia della leadership a questo modello bifattoriale va aggiunto un terzo fattore, la maturità dell’individuo o del gruppo, in relazione ad uno specifico compito. Maturità intesa come la capacità di potersi assumere delle responsabilità in uno specifico contesto o come l’insieme delle competenze

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proprie di un singolo individuo o di un gruppo. Ed è in base a questa caratteristica che il leader deve personalizzare il suo stile di azione24:

● Livello maturità M1: livello più basso; capacità del singolo o del gruppo di assumersi responsabilità bassa. Lo stile di leadership che si consiglia di adottare è il primo, il telling;

● Livello maturità M2: livello medio-basso; capacità modeste ma c’è disponibilità dei collaboratori ad apprendere. Lo stile della leadership è il secondo, il selling; ● Livello maturità M3: livello medio-alto; le capacità del collaboratore sono alte,

ma la disponibilità a collaborare e a prendersi delle responsabilità è variabile. Lo stile della leadership è quello del participating;

● Livello maturità M4: livello alto; l’individuo o il gruppo dimostra alti livelli sia di propensione alla collaborazione, sia alte capacità e competenze che gli permettono di agire in autonomia. Lo stile di leadership da applicare è quello del delegating.

Anche in questo caso non mancano le critiche al modello situazionale, che per molti autori presuppone una capacità intuitiva eccessiva per un leader. Quest’ultimo dovrebbe essere perfettamente in grado di riconoscere, a priori, il grado di maturità del proprio gruppo di lavoro e quindi di cambiare in corso d’opera il proprio stile di base (pratica in genere ritenuta poco produttiva e difficile da realizzare).

2.1.1.2. La leadership funzionale: i cerchi di John Adair

Le caratteristiche di un leader, come abbiamo visto con il modello situazionale, si definiscono soprattutto in base ai bisogni degli individui che riconoscono un leader come tale. Così come l’individuo, un team di lavoro è unico e sviluppa le proprie esigenze, che, secondo il modello interpretativo di John Adair, si distinguono in tre diverse aree di competenza 25:

● Esigenze di compito: definiscono l’obiettivo del team di lavoro a livello di gruppo ed individuale;

24 HERSEY P. BLANCHARD K.H. [1984] Ibd.

(33)

● Esigenze di mantenimento del gruppo: se le esigenze di compito riguardano gli obiettivi, quelle di mantenimento del gruppo riguardano i singoli individui, e raggruppano tutte quelle regole, anche non scritte, che servono per mantenere la coesione dei membri in qualsiasi situazione;

● Esigenze individuali: in quanto esseri umani portiamo all’interno del gruppo anche le nostre necessità, che derivano sia dalla vita privata, sia dalle situazioni affrontate quotidianamente in ambito lavorativo, di natura non solo materiale (compenso economico), ma anche psicologica (riconoscimento sociale, appartenenza, status).

Queste tre aree di azione interagiscono tra loro in modo costante, questo perché se la prima esigenza di compito viene soddisfatta, automaticamente verranno influenzate e soddisfatte anche quelle di gruppo e individuali. Allo stesso modo se si presta attenzione a soddisfare accuratamente le esigenze individuali e poi quelle di gruppo (o viceversa), l’obiettivo finale sarà più facile da raggiungere.

I tre ruoli appena descritti ci introducono a quello che nello studio della leadership di John Adair, viene definito come “approccio funzionale”, che, come suggerisce la parola, determina le funzioni principali di una leadership efficace.

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Come evidenziato dalla FIG. II.III, a livello di esigenze di compito, le funzioni del leader sono26:

● Definizione dei compiti: l’obiettivo deve essere chiaro, concreto, definito nel tempo, realistico, valutabile, ma soprattutto deve essere motivato. Un leader non deve solo rispondere a cosa e a come si deve svolgere un compito, ma anche al perché quell’obiettivo deve essere raggiunto;

● Briefing: rappresenta più uno strumento che una funzione. È il metodo con il quale si comunicano velocemente a tutto il gruppo di lavoro le istruzioni per affrontare una determinata situazione lavorativa o per attivare un confronto attivo su un qualsiasi problema. In quanto strumento di comunicazione, è necessario servirsi di un canale chiaro e semplice, dimostrando di essere preparati sull’argomento ma anche rassicuranti ed incoraggianti. La riunione di lavoro è quindi uno strumento essenziale da usare in qualsiasi fase della pianificazione e della produzione, perché comunicazione e leadership sono sorelle.

● Pianificazione: questa funzione permette al team di avere un piano di lavoro ben definito che passo dopo passo indica i vari step per raggiungere l’obiettivo finale. In questa fase il leader deve passare da un’iniziale elaborazione individuale del proprio piano, fino alla condivisione degli obiettivi con il team anche in fase di pianificazione, e non solo in sede finale. Nel continuum della pianificazione (Fig. II. IV), all’estrema destra troviamo infatti un’area di libertà in cui il team leader può chiedere al proprio gruppo dei suggerimenti, oppure di rielaborare da zero un vero e proprio piano di lavoro. La pianificazione è dunque una delle attività chiave per le organizzazioni, e il miglior atteggiamento del leader è quello di essere creativo;

● Controllo: la funzione di controllo è estremamente importante per tenere sotto una certa soglia il livello di “perdita di tempo” e quindi di spreco in termini di energie durante le attività lavorative. Perdite di tempo che possono assumere varie forme, come ad esempio le discussioni, che possono svilupparsi tra più membri del gruppo e che distolgono l’attenzione dall’obiettivo finale.

26 ADAIR J. [2007] Ibd.

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A livello di esigenze individuali e di gruppo le funzioni del leader sono27:

● Valutazione: la fase della valutazione è necessaria per stabilire i criteri di successo tramite i quali siamo in grado di affermare se un obiettivo è stato conseguito o meno, o se il team di lavoro sta andando nella direzione giusta. La valutazione in itinere è utile ai fini del processo decisionale, poiché valutare i possibili rischi o i possibili risultati fa parte della pianificazione.

● Esempio: essere d’esempio risulta il metodo efficace per farsi riconoscere a lungo termine come un leader da cui prendere costantemente spunto. Non solo per le caratteristiche più tangibili e pratiche, ma anche per quelle intangibili come la condotta e i valori da perseguire. È inoltre importante ricordare che quando si ricopre un tale ruolo, essere d’esempio è inevitabile, poiché il lavoro di un leader è sempre sotto osservazione;

● Motivazione: comunicazione e leadership vanno di pari passo con la motivazione, che dal latino vuol dire appunto “muovere". Il primo passo è quello di capire i bisogni e le esigenze individuali per poterle assecondare e soddisfare nel modo più giusto. A questo proposito è utile fare affidamento alla scala dei bisogni di Maslow, organizzati in ordine di importanza, da quelli fisiologici (essenziali) a quelli di autorealizzazione (complessi). Ma la motivazione è determinata solo al 50% da noi stessi. L’altro 50% proviene dall’esterno, ed in questo caso dal leader che ha il compito di indirizzarci verso la giusta meta; ● Organizzazione: per poter coordinare tutte le funzionalità precedenti, il team

leader deve avere quindi delle ottime capacità organizzative a tutto tondo. Non solo essere quindi un buon comunicatore e motivatore, ma anche un buon organizzatore, peculiarità essenziale.

27 ADAIR J. [2007] Ibd.

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2.1.1.3. La Primal Leadership

Dalle teorie più recenti e in particolare dalle ricerche e gli esperimenti di Goleman, Boyatzis e McKee28, emerge il concetto di primal leadership, ovvero di leadership primitiva. I tre ricercatori di Harvard hanno individuato un modello che si fonda, rispetto a tutti gli altri, su base neurologica, proprio per dimostrare come a livello biologico le emozioni e i nostri comportamenti hanno un impatto positivo o negativo sugli altri.

I grandi leader della storia hanno influenzato popolazioni intere, trasmettendo la loro passione, le loro idee e i loro valori al prossimo. A livello aziendale un simile comportamento non si traduce solo in termini di strategia, ma anche (e soprattutto) di emozioni. Tra il saper fare e il saper essere vince in questo caso “come” un leader riesce a fare il proprio lavoro. Capire il ruolo importante delle emozioni nel contesto lavorativo indirizza il leader migliore, rispetto agli altri componenti del gruppo, verso il

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perseguimento di un obiettivo, attraverso la gestione di quei fattori ritenuti intangibili come il morale, la motivazione e l’impegno.

Definirla come primitiva, non a caso, ne sottolinea l’aspetto innato. Sin dai capi tribù e gli sciamani, la figura del capo carismatico era di primaria importanza nel clan, poiché solo chi possedeva delle specifiche caratteristiche, era autorizzato dal consenso comune a ricoprire un tale ruolo emotivamente impegnativo.

Storicamente impegnato come la guida morale della società, il leader nelle moderne organizzazioni continua a ricoprire questa caratteristica primitiva non tangibile.

Il modo in cui agisce il nostro sistema limbico è la base per capire l’implicazione biologica dei centri emotivi sul funzionamento della leadership. L’ “open loop"29, o circuito aperto, che si differenzia da gli altri sistemi chiusi del nostro organismo, come quello circolatorio, è strettamente correlato all’ambiente esterno e alle persone che ne fanno parte, ed in particolar modo alle loro reazioni emotive. Questo perché la nostra stabilità emozionale e il nostro benessere dipendono in larga misura dalle relazioni che abbiamo con gli altri. Il sistema circolatorio è un sistema chiuso, perché se ci troviamo vicino ad un altro essere vivente il loro sistema non influenza in alcun modo il nostro, differentemente da come accade se ci riferiamo alle reazioni emotive. A partire dal mondo animale, dove una madre è spinta a proteggere i propri cuccioli se percepisce in loro un sentore di paura o di difficoltà, le stesse reazioni istintive sono presenti nell’essere umano in qualsiasi tipo di situazione. In ospedale, la presenza di un familiare o di una persona di conforto ad un malato, produce in esso l’aumento della pressione sanguigna e diminuisce la produzione di acidi grassi. Il sistema aperto è quindi una regolazione limbica tramite la quale un soggetto è automaticamente in grado di trasmettere segnali che influenzano la regolazione ormonale, la pressione vascolare ed il sistema immunitario di qualcun altro.

In ambito aziendale, ad esempio, è possibile che durante una sessione di brain storming si possa creare qualche attrito tra i componenti del gruppo, generando un clima di ansia e pressione generale, che per il circuito aperto, potrebbe espandersi a macchia d’olio. I leader emozionali (che potrebbero non corrispondere a quelli “ufficiali”), agiscono da calamita in quanto attrattori limbici e come tali devono essere in grado di

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