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La definizione, il target di riferimento e l'ambito di intervento

3. Le politiche del lavoro e i giovani

3.1 La definizione, il target di riferimento e l'ambito di intervento

Le politiche del lavoro, che si collegano al mercato del lavoro e prevedono l’utilizzo di risorse pubbliche (Rizza 2013), possono essere ricondotte ad alcune categorie di intervento (Reyneri 2011) che di volta in volta mirano a regolare le modalità di incrocio tra domanda e offerta di lavoro, attraverso le procedure di assunzione e di licenziamento, oppure ad attivare misure di mantenimento o di garanzia del reddito61, per proteggere i lavoratori dai rischi di disoccupazione, o, infine, misure

per aumentare l’occupazione di particolari gruppi target62, come ad esempio i giovani, le donne, gli

over 50, i migranti, o, infine a qualificare la quantità e la tipologia dell’offerta di lavoro, attraverso l’attivazione di servizi di formazione e di riqualificazione professionale.

Si caratterizzano per essere politiche selettive, ovvero che si rivolgono a degli specifici gruppi di destinatari, composti da disoccupati, lavoratori a rischio di disoccupazione e di esclusione sociale, inattivi, ovvero da tutte quelle persone escluse dal mercato del lavoro, per motivi diversi, e che potrebbero essere accompagnate a rientrarvi, se opportunamente motivate e incoraggiate. Il target,

61 I sistemi di protezione sociale in Europa sono diversi ma con tutele uniformi verso chi perde il lavoro. In quasi tutti i

Paesi infatti, anche se con requisiti diversi, esiste l’indennità di disoccupazione e, in alcuni Paesi, come Regno Unito e Germania, anche di protezione per chi cerca il primo lavoro. L’indennità di disoccupazione rappresenta una prestazione economica istituita per gli eventi di disoccupazione e è erogata a favore dei lavoratori dipendenti che abbiano perduto involontariamente l’occupazione.

62 Si tratta di incentivi all’assunzione, creazione diretta di lavoro, specifici rapporti di lavoro, come, in Italia, ad esempio,

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che risulta caratterizzato da situazioni di marginalità e debolezza lavorativa sociale, e che esprime maggiore bisogno di sostegno per inserirsi nel mercato del lavoro, è rappresentato da giovani, disoccupati di lunga durata, donne, lavoratori anziani, migranti e disabili.

La comunità scientifica internazionale ha condiviso un’ulteriore specificazione distinguendo tra politiche del lavoro passive e attive (Clasen e Clegg 2011), definendo le prime come le misure a sostegno e garanzia del reddito dei lavoratori, da ricondurre a indennità di disoccupazione, prepensionamenti, ammortizzatori sociali, e affidando invece alle seconde il compito di rendere più efficiente il sistema del mercato del lavoro attraverso un miglioramento delle caratteristiche dell’offerta, ovvero con azioni di facilitazione dell’incrocio tra domanda e offerta di lavoro, incentivi alle assunzioni, creazione di opportunità di lavoro e, in generale, interventi di inclusione sociale e lavorativa di quanti si trovano in posizione di svantaggio. Da questo punto di vista, rispetto ai programmi di politica sopra descritti, le politiche passive sono quindi associate prioritariamente alle misure di garanzia del reddito mentre le politiche attive attengono agli interventi volti ad aumentare l’occupabilità di target specifici e a quelli che si prefiggono il rafforzamento e il miglioramento delle competenze dei lavoratori.

Nell’ambito della presente ricerca ci si è confrontati, in particolare, con l’ambito delle politiche attive del lavoro e, di seguito, si offre pertanto una descrizione sintetica delle politiche passive, che rappresentano comunque un’importante misura di sostegno del reddito per moltissimi lavoratori in stato di precarietà occupazionale, a rischio di disoccupazione, anche di lunga durata.

Tali misure, che come visto possono essere di mantenimento o di garanzia del reddito, sono attivate nei casi di rischio di disoccupazione involontaria, a causa di crisi aziendale, o di sospensione o riduzione del lavoro, e sono presenti in quasi tutti i Paesi europei. Storicamente si sono costituiti due modelli di dispositivi di tutela del reddito dei disoccupati, il primo dei quali, definito come sistema Ghent63, rappresenta un programma volontario di adesione ed è finanziato sostanzialmente dallo Stato

e gestito dalle organizzazioni sindacali, mentre il secondo modello, presente nella maggior parte dei Paesi industriali, è rappresentato da un’assicurazione obbligatoria cha varia rispetto allo status occupazionale del lavoratore, gestita da enti pubblici anche in collaborazione con le parti sociali (Clasen e Clegg 2011). Nonostante tali dispositivi siano presenti in tutti i Paesi industrializzati esistono delle differenze rilevanti per quanto riguarda la consistenza della spesa dedicata a tali misure e la maggiore o minore disponibilità va correlata ad alcuni specifici parametri quali il tasso di rimpiazzo, cioè il rapporto tra l’ammontare del beneficio e la retribuzione percepita64, la durata del

63 Il dispositivo prende il nome da Ghent, città belga dove è stato introdotto per la prima volta. Attualmente è ancora

presente in Svezia, Danimarca e Finlandia, mentre è stato abbandonato da altri Paesi che l’avevano originariamente adottato come il Belgio, l’Olanda e la Norvegia.

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beneficio stesso, le condizioni richieste per accedervi e le regole di comportamento che devono essere rispettate per poter godere dell’indennità, riferendoci in particolare al vincolo della disponibilità ad accettare offerte di lavoro e a partecipare a programmi di ricerca attiva di lavoro qualora proposti dai servizi pubblici per il lavoro (Gualmini e Rizza, 2013). Recenti studi hanno analizzato l’andamento di tale categoria di politica del lavoro a livello europeo (Reyneri 2011) mettendo in luce, tra l’altro, come tra tutti i possibili percettori di indennità retributive, le donne, rispetto agli uomini, ne usufruiscano di meno, così come i disoccupati di lunga durata (oltre 12 mesi) rispetto a quelli di breve durata (da 6 a 12 mesi di disoccupazione), e, infine, dato di primario interesse anche per la presente ricerca, come siano soprattutto i giovani, fino a 24 anni di età, e gli ultra quarantacinquenni i gruppi di popolazione meno protetti dalla misura.

Ma, come anticipato, sono soprattutto le politiche attive del lavoro che risultano maggiormente rilevanti nell’ambito del presente studio, che si rivolge, in particolare, al contesto delle politiche a sostegno e promozione dell’imprenditorialità giovanile, in quanto operano per l’efficienza del mercato del lavoro, attraverso il supporto di specifiche misure di adeguamento dell’offerta di lavoro, ovvero delle competenze possedute dai lavoratori, rispetto alle esigenze espresse dalla domanda, corrispondente al fabbisogno di competenza del sistema produttivo. Tali politiche, che, come visto, consistono in interventi mirati ad aumentare l’occupazione di specifici target di lavoratori e a modificare la quantità e la qualità dell’offerta di lavoro, si definiscono come attive o proattive (Vesan 2012) in quanto perseguono la finalità di intervenire sui meccanismi regolatori del mercato del lavoro. Esso possono essere declinate in alcune principali tipologie di intervento (Kluve 2009) quali i servizi di orientamento e inserimento lavorativo, volti a migliorare l’efficienza nel collocamento dei disoccupati, in servizi formativi, finalizzati al rafforzamento del capitale umano dei lavoratori, in incentivi all’occupazione, ovvero sussidi salariali per incoraggiare l’assunzione o la salvaguardia di alcune categorie di lavoratori, in incentivi per le nuove attività di impresa, come i prestiti per l’autoimpiego, nella creazione diretta, infine, di posti di lavoro nel settore pubblico, soprattutto con riferimento ai target più svantaggiati di utenza, finalizzati a contenere la dispersione di capitale umano e ad offrire comunque una opportunità di inserimento lavorativo (Gualmini e Rizza 2013).

Un elemento da considerare trattando la questione delle politiche attive, o proattive, del lavoro si riconduce al tema del rischio di fallimento. In sostanza, volendo considerare l’efficacia di tali politiche, è necessario tenere in considerazione alcune possibili distorsioni, come ad esempio l’effetto spreco, da ricondurre alla possibilità che le imprese assumano comunque i lavoratori anche in assenza di una loro partecipazione ai programmi, oppure l’effetto distorsione, che si manifesta nel caso in cui l’impresa assuma i lavoratori beneficiari delle politiche, a scapito quindi di altra forza lavoro non beneficiata dai programmi, al fine di ottenere una riduzione dei costi di personale, o, ancora, l’effetto

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spiazzamento, da ricondursi al caso in cui le imprese che utilizzino lavoratori beneficiari di politiche attive si trovino in posizione di vantaggio rispetto ad altre imprese e altri lavoratori, grazie ai contributi ricevuti o ai minori costi sostenuti, inficiando in questo caso anche le norme che regolano la libera concorrenza65. Dall’insieme di tali possibili alterazioni e scostamenti emerge come sia

particolarmente importante perseguire una chiara definizione delle priorità, dei destinatari e dei settori che si intendono raggiungere con le politiche attive del lavoro, ponendo una particolare attenzione al monitoraggio e alla valutazione delle misure stesse.