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Densità delle PMI (Numero delle PMI per 1000 abitanti, esclusi i settori finanziari)

Evidenze empiriche degli effetti del private equity sui family business

Grafico 10: Densità delle PMI (Numero delle PMI per 1000 abitanti, esclusi i settori finanziari)

Fonte: Eurostat, 2008

La peculiarità italiana risulta ancora più evidente se confrontata con la situazione degli altri grandi paesi europei. Si pensi che, mentre in Italia l’81% della forza lavoro è impiegato in una PMI (la metà in una microimpresa), nel Regno Unito la percentuale scende al 46% e in

98 Germania e in Francia addirittura al 39%. In altre parole, se il ruolo della PMI è importante per l’Europa, in Italia esso diventa ancor più decisivo.

Lo sviluppo delle imprese è, quindi, un punto di snodo fondamentale per il destino di un sistema economico come quello italiano, che vede nella capacità di competere delle migliaia di aziende piccole e medie una condizione di sopravvivenza necessaria nella prospettiva di crescente integrazione internazionale. Il concetto di capacità di competere assume peraltro le connotazioni più diverse a seconda delle opinioni e delle convinzioni di chi discute sull’argomento, qualificandosi talvolta come “crescita”, talvolta come capacità di fare “rete” o “distretto”, talvolta come “sopravvivenza attraverso le generazioni”. Di pari passo gli studi, le scelte normative e le discussioni evolvono anche con riferimento al ruolo che il sistema finanziario e gli strumenti finanziari possono giocare nella crescita della capacità competitiva delle imprese stesse e del loro contributo allo sviluppo economico. Il sistema delle relazioni fra banca e impresa pone al centro dell’attenzione il tema del capitale di rischio e della sua urgenza. L’esigenza di capitalizzare l’azienda diviene quindi un’esigenza forte, strutturale, definitiva. Il modello concettuale dell’azienda indebitata – protetta dalla dinamica inflativa e dall’abbondanza di credito – e sostenuta con garanzie a lato, viene rapidamente sostituito dal modello dell’azienda capitalizzata – non più sostenuta né dall’inflazione né dall’abbondanza di credito – in cui la ricchezza della proprietà deve essere trasferita dalle garanzie all’equity. Peraltro, lo spostamento verso una finanza dell’equity matura nel nostro contesto di aziende di piccola e media dimensione, in cui i legami patrimoniali si sovrappongono a quelli finanziari e a quelli affettivi e familiari che legano la proprietà all’impresa. Questi aspetti rappresentano un terreno fortemente interessante per il private equity, che viene a confrontarsi con aspetti in teoria noti ma nei fatti ancora poco sperimentati nel mercato italiano: la dimensione piccola, la valenza familiare le specificità della governance, il rapporto con il territorio, l’esigenza della crescita a prescindere da dinamiche di leva e di multipli. Questo ambito rappresenta una sfida e un’opportunità che può essere colta rivedendo, in parte, la tradizionale catena del

99 valore del private equity fondata sul concetto del “big is beautiful”, giacché la capacità del private equity di agire quale moltiplicatore dei progetti imprenditoriali costituisce – come sottolineò con forza il Governatore della Banca d’Italia già nella Relazione del 2007 – un indispensabile elemento di sistema.

Le operazioni di private equity che coinvolgono aziende più piccole impongono un attento controllo della dinamica costi- ricavi, spingendo a scelte di maggiore vicinanza al territorio o di specializzazione per settori produttivi, per aree o per filiere. Il ruolo del private equity, nel momento in cui viene ad interagire con le reti locali, deve essere impostato su un mutamento di stile d’azione, per cui la capacità di intervento nell’impresa non si limita ad un mero evento contrattuale, e circoscritto al rapporto tra finanziatore e finanziato, ma si estende a un’azione più ampia di interazione con il sistema sociale dell’impresa, fatto di consulenti, di clienti e fornitori, di confidi e di banche locali. Ovviamente è necessario che l’obiettivo della ricerca sia un funding maggiormente (molto) paziente e attento agli obiettivi di sviluppo delle PMI.

In Italia, durante l’attuale fase di crisi della congiuntura economica si è cercato soprattutto di garantire che le PMI avessero l’accesso al credito necessario a rimanere solvibili in una fase di forte contrazione degli ordini, di credit crunch e di riduzione dei flussi di cassa. Le modalità di finanziamento delle PMI italiane, come ben sappiamo, sono eccessivamente squilibrate verso il debito bancario e il ricorso al capitale di rischio è troppo limitato. Questa caratteristica si rispecchia nel fatto che in Italia i finanziamenti alle imprese rappresentano il 63% del totale dei finanziamenti bancari, contro una media europea che non arriva al 50%. Nell’ambito del quadro sin qui descritto, soprattutto nel nostro Paese, l’attività di investimento in capitale di rischio di imprese di piccola e media dimensione acquisisce un valore sempre più importante, alla luce della necessità di fornire risorse ad un sistema in crisi di competitività, così gli obiettivi che possono essere raggiunti rafforzando il ricorso al capitale di rischio sono diversi:

 la necessità di dare vita ad un contesto economico in cui imprenditori e imprese familiari possano sviluppare la loro attività;

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 la necessità di aggiornare e implementare le competenze delle PMI ed ogni forma di innovazione;

 la necessità di aiutare le PMI a beneficiare delle opportunità offerte dal “Mercato unico” europeo e della spinta verso l’internazionalizzazione;

 la necessità, al fine del mantenimento della continuità aziendale, della base produttiva e di quella occupazionale, di garantire un adeguato supporto alle imprese in crisi.

L’analisi che mi accingo a svolgere parte dal contesto italiano, analizzando il mercato del Private Equity e la sua evoluzione negli ultimi 5 anni, per poi soffermarsi sul più specifico caso dei family business. Sulla base delle ricerche della PricewaterhouseCoopers esaminerò il contesto internazionale e nazionale dei family business, evidenziandone le criticità e i punti nevralgici per lo sviluppo. Infine tratterò un caso aziendale italiano di utilizzo del Private Equity nel delicato passaggio generazionale, verificandone l’eventuale contributo positivo.

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4.1

Il mercato italiano del Private Equity: una

breve analisi

In Italia, l’attività di investimento istituzionale nel capitale di rischio ha iniziato ad essere svolta in modo professionale e sistematico da un numero significativo di operatori, potendo quindi configurarsi come un vero e proprio settore all’interno del nostro sistema finanziario, nella seconda metà degli anni ‘8092. In

effetti, per convenzione, si fa coincidere l’avvio dell’attività del mercato del private equity e del venture capital, con l’istituzione, nel 1986, dell’A.I.F.I. (Associazione Italiana del Private Equity e Venture Capital). Nonostante il ritardo evidente rispetto ad altre economie internazionali (basti pensare che negli Stati Uniti la prima società di investimento nel capitale di rischio, l’American Research & Development Corporation, nacque già nel 1946 a Boston, mentre la creazione della prima venture capital limited partnership americana è datata 1958), in questi 25 anni di attività l’associazione è riuscita ad incrementare nettamente i suoi numeri. Nel 1986, infatti, c’erano in Italia solo 15 investitori istituzionali, tutti costituiti sotto forma di società finanziarie, oggi, al primo semestre del 2012 si contano 120 associati93, che vanno dalle SGR, alle holding di partecipazione, alle società finanziarie, alle banche. È evidente come, nel corso degli anni, pur restando invariati i presupposti di fondo, l’attività di investimento nel capitale di rischio si è andata diversificando, in funzione dei mercati e del sistema imprenditoriale di riferimento.

92 Vitale M., (1990), Venture Capital, AIFI, Sole 24 Ore, Milano.

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