1. Introduzione
3.4 Denti come arnesi: il ‘corpo comico’ deformato dal linguaggio
3.4.2 I denti di Artotrogo e il parassita delle Bacchides
Un altro tipico parassita affamato che abbiamo già incontrato all’opera è l’Artotrogo del Miles Gloriosus, il quale nomina i propri denti soltanto in un caso,
333 Cf. BETTINI 2008, p. 82; cf. anche p. 18 e, per lo stesso verbo riferito ai merli, in alternativa allo zinziare, p. 265 s.
334 Cf. v. 79 (derisores), vv. 481 e 484 (rideo), vv. 470, 477, 482 (ridiculus), v. 486 (adrideo); inoltre Ergasilo nomina i propri denti al v. 79 (dove parla di ‘vacanze per i denti’) e al v. 187 (dentes calceati), i denti altrui al v. 486 (dentes restringere) e al v. 798 (dentilegos facere). Viene infine descritto dal puer nell’atto di frendere dentibus (v. 913). Parallelamente, incontriamo immagini ‘canine’ (v. 85 s., rievocato al v. 184; v. 485 s.) che nella descrizione del puer si trasformano addirittura nell’identificazione parassita-lupo (v. 912).
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all’inizio della commedia, ma con una battuta che lo caratterizza una volta per tutte, attraverso l’immagine dei suoi denti che per la fame rischiano iperbolicamente di ‘mettere i denti’ (dentes dentiant, v. 34). Abbiamo esaminato il passo supra, a proposito delle personificazioni dei denti335, ma ora dobbiamo ricordare che anche in questo caso la situazione è legata agli obblighi del parassita, che qui, data la tipologia dell’anfitrione, per accedere alla mensa non è costretto a fare il ridiculus, bensì a lanciarsi nell’adulazione più smaccata. In questo caso il ‘pagamento’ dei pasti è l’incondizionato appoggio che Artotrogo fornisce alle vanterie di Pirgopolinice: sempre lavoro di parola, comunque, che come abbiamo visto è l’unica ricchezza dei parassiti. Anche se questo parassita non mostra l’ossessione per i denti di Ergasilo, ce li indica comunque come indissolubilmente legati al proprio mestiere, cosa abbastanza scontata, ma li descrive con una fantasia davvero creativa.
Rilevante ai fini della nostra indagine è anche la scena delle Bacchides in cui viene presentato un battibecco fra l’adulescens Pistoclerus e il parasitus, che in questa commedia non ha nome. Il parasitus, inviato a fare un’ambasciata a un rivale in amore del soldato che lo mantiene, teme che gli venga distrutto lo ‘strumento di lavoro’, individuato con una definizione assai fantasiosa (vv. 581- 605):
PARASITUS Ecquis in aedibust? Heus, ecquis hic est? Ecquis hoc aperit ostium ?
Ecquis exit? PISTOCLERUS Quid istuc? Quae istaec est pulsatio? Quae te <male> mala crux agitat, qui ad istunc modum
alieno viris tuas extentes ostio? 585
Fores paene ecfregisti. Quid nunc vis tibi?
PA. Adulescens, salve. PI. Salve. Sed quem quaeritas? PA. Bacchidem. PI. Utram ergo? PA. Nil scio nisi Bacchidem. Paucis: me misit miles ad eam Cleomachus,
vel ut ducentos Philippos reddat aureos 590 vel ut hinc in Elatiam hodie eat secum semul.
335 Cf. supra, par. 3.2.3, p. 129 ss.
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PI. Non it. † negato esse † ituram. Abi et renuntia. Alium illa amat, non illum. Duc te ab aedibus. PA. Nimis iracunde. PI. At scin quam iracundus siem?
Ne tibi hercle hau longe est os ab infortunio, 595 ita dentifrangibula haec meis manibus gestiunt.
PA. Quom ego huius verba interpretor, mihi cautiost ne nucifrangibula excussit ex malis meis.
Tuo ego istaec igitur dicam illi periculo.
PI. Quid ais tu? PA. Ego istuc illi dicam. PI. Dic mihi, 600 quis tu es? PA. Illius sum integumentum corporis.
PI. Nequam esse oportet cui tu integumentum inprobu's. PA. Sufflatus ille huc veniet. PI. Dirrumptum velim. PA. Numquid vis? PI. Abeas. Celeriter factost opus.
PA. Vale, dentifrangibule. — PI. Et tu, integumentum, vale. 605
PARASSITA: C’è qualcuno in casa? Ehi, c’è qualcuno qui? Qualcuno apre questa porta?
Qualcuno esce? PISTOCLERO: Che modi sono? Che maniera di bussare è questa? Che cosa ti tormenta, che in questo modo
sfoggi le tue energie alla porta di casa di un altro? Hai quasi sfondato i battenti. Che vuoi dunque?
PA.: Salve, giovanotto! PI.: Salve! Ma chi vai cercando?
PA.: Bacchide. PI.: Ma quale delle due? PA.: So soltanto che è Bacchide. In breve: mi ha mandato da lei il soldato Cleomaco,
(per dirle che) o gli renda i duecento Filippi d’oro o se ne vada insieme con lui oggi da qui a Elatea. PI.: Non ci va. Si rifiuta di andarci. Vattene e riferisci. Lei ama un altro, non lui. Ora vattene da questa casa.
PA.: Sei troppo arrabbiato! PI.: Ma lo sai quanto sono arrabbiato? Oggi, per Ercole, la tua faccia rischia lo sfacelo,
tanto smaniano sulle mie mani questi schiacciadenti336!
PA.: Se interpreto bene le parole di questo qui, devo stare attento che non mi faccia schizzar via dalle mascelle gli schiaccianoci!
336 La traduzione esatta sarebbe ‘spaccadenti’, ma ho cercato di rendere il gioco che mette dentifrangibula in parallelo con nucifrangibula, ‘schiaccianoci’.
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Gli riferirò le tue parole a tuo rischio e pericolo.
PI.: Che dici? PA.: Gli riferirò quel che hai detto. PI.: Dimmi, chi sei? PA.: Io sono lo scudo del suo corpo.
PI.: Dev’essere proprio un uomo da nulla, uno che ha uno scudo così scarso! PA.: Lui verrà qui gonfio di rabbia! PI.: Vorrei che scoppiasse!
PA.: Vuoi altro? PI.: Che tu te ne vada, e in fretta!
PA.: Addio, schiacciadenti! PI.:Addio anche a te, scudo!
Il dialogo è serrato e vivacissimo, ma su tutto emerge il gioco di parole tra i neutri plurali dentifrangibula e nucifrangibula, letteralmente ‘spaccadenti’ e ‘spaccanoci’. Si tratta ancora di hapax plautini337, che vale la pena di esaminare
più a fondo.
Anzitutto, prima ancora di approfondire il significato dei termini (significato peraltro abbastanza evidente ma forse capace di riservarci qualche piccola sorpresa), vediamo come essi vengono utilizzati nel testo. La definizione dentifrangibula è chiaramente riferita ai pugni dell’adulescens, smaniosi di stamparsi sulla faccia dello scocciatore; si tratta quindi di una personificazione del tipo di quelle che abbiamo esaminato nel capitolo precedente: una parte del corpo che acquista vita autonoma, configurandosi come un ‘aiutante’ del suo proprietario, un aiutante dotato di volontà propria e capace di compiere mirabilia. Il termine viene riecheggiato alla fine del dialogo, quando i due si lasciano dopo uno scambio di battute che mirano a spaventare l’avversario: come due animali che si gonfiano per apparire più forti e spaventosi e così tentano di far fuggire il rivale senza bisogno di lottare, così anche i due si inventano immagini corporee iperboliche, per ottenere quello che alla fine ottengono, cioè di lasciarsi senza neppure essersi sfiorati. È così che, per contrapporsi agli spaventosi dentifrangibula del giovane, il parassita invoca la forza del soldato che lo
337 Per quanto riguarda dentifrangubulus come hapax assoluto, in quanto presente soltanto in questo passo di Plauto, sebbene vi ricorra due volte, cf. LOMMATZSCH s. v. dentifrangibulus, TLL, 5.1, c. 549, l. 17 - c. 549, l. 19, 2011. Cf. TRAINA 19992, p. 85, dove il termine nucifrangibulum risulta fra i termini catalogabili, secondo i criteri esposti dallo stesso Traina, quali hapax plautini. Cf. CRESSMAN 1915, p. 289, che indica entrambi i termini come ricorrenti unicamente in questo passo di Plauto.
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mantiene, autoproclamandosi per di più suo integumentum corporis (v. 601), cioè ‘protezione del suo corpo’, forse la corazza, forse lo scudo, in ogni caso un oggetto capace di recare aiuto ad un soldato già di per sé valoroso338. Ognuno dei due scherza sulla minaccia dell’avversario per sminuirne l’effetto (il parasitus con un ulteriore gioco di parole sui propri nucifrangibula, Pistoclero invece sottolineando il misero aspetto di chi si presenta con tanta baldanza), ma queste minacce aleggiano comunque nell’aria fino alla fine della scena. In un simile contesto, l’addio finale tra i due serve chiaramente a ribadire le caratteristiche che, fungendo da deterrente, hanno impedito il conflitto: il parassita saluta chi avrebbe potuto spaccargli i denti e l’adulescens saluta chi è addirittura capace di proteggere un soldato.
Nella battuta finale del parasitus, il sostantivo dentifrangibulum, prima riferito ai pugni di Pistoclero, si trasforma in un dentifrangibulus che definisce in toto Pistoclero stesso: un’ardita sineddoche che viola la tendenza della lingua latina a formare con il suffisso -bul- soltanto nomi femminili uscenti in -bula o neutri uscenti in -bulum. Infatti non si incontrano altri aggettivi in -bulus, come questo che dà vita all’epiteto dentifrangibule. Il suffisso -bulum di dentifrangibulum rimanda a uno strumento339, in parallelo con il nome integumentum, che può essere accostato ad altri sostantivi deverbali indicanti anch’essi strumenti e uscenti in -mentum. Concentriamoci sulla situazione comica: nel momento in cui il parasitus diventa con il proprio corpo integumentum (strumento di protezione), l’adulescens, il quale precedentemente ha parlato dei dentifrangibula che intende utilizzare, viene con essi identificato e diventa lui stesso dentifrangibulum (strumento di rottura dei denti). Al momento di salutarsi, quindi, i due si ‘reificano’ reciprocamente (con un procedimento di trasformazione esattamente opposto e speculare a quello della
338 Cf. BARSBY 1986 ad loc., che sottolinea la “comic pretentiousness” del termine integumentum in questo contesto.
339 Cf. CRESSMAN 1915, pp. 288-89, che accosta dentifrangibulum a infundibulum, patibulum, rutabulum, tintinnabulum, pabulum, venabulum, exorabulum, vocabulum. Per i pochi nomi in -bula (subula, fibula, mandibula, tribula, fabula), cf. BETTINI 2009, p. 37 s., dove viene evidenziato che ognuno di questi nomi indica uno strumento dotato della capacità di “agire in profondità sulla materia”.
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personificazione340): Pistoclero diventa ‘lo spaccadenti’ e il parassita anonimo assume il nome di ‘corazza’. Ecco, grossomodo, come dal dentifrangibula riferito ai pugni arriviamo al vocativo maschile dentifrangibule, riferito al ‘portatore’ di quei pugni e che con quei pugni viene addirittura identificato.
In ogni caso, quello che qui ci interessa è la creatività linguistica applicata ad una parte del corpo, i denti, e ad una situazione, quella dello scontro, in cui però uno dei due avversari è un parassita. A questo punto scatta il gioco su quanto sia pericoloso per un parassita perdere i denti, i banali pugni cedono il posto al surreale dentifrangibulum (‘strumento per rompere i denti’) e sui denti-strumenti del mestiere anche il parassita scherza, definendoli ‘schiaccianoci’, nucifrangibula. Plauto, insomma, spinge il gioco di parole fino ad arrivare alla ‘reificazione’ finale dei due personaggi. La scena inquadra un parasitus senza nome destinato a interpretare, in tutta la commedia, soltanto questo cameo, per poi sparire, ma la vivacità del dialogo e delle invenzioni linguistiche non può passare inosservata per la creatività che, ancora una volta, si appella esclusivamente alla fantasia degli spettatori allo scopo di costruire un ‘corpo comico’ dalle caratteristiche surreali341.
In conclusione: analizzando i passi che presentano i denti come ‘arnesi di lavoro’ di una categoria ben precisa, quella del parasitus, abbiamo rilevato che, sul topos del parassita che rosicchia il cibo altrui, Plauto innesta una serie di
340 Nei testi plautini, esattamente come le cose inanimate possono essere personificate, i personaggi possono essere ‘reificati’: è l’altro capolinea del percorso della trasformazione, concetto chiaramente codificato da FRAENKEL 1960, pp. 21-54 sulla trasformazione e l’identificazione e 95-104 sulla personificazione. In particolare, a proposito del cambiamento di nome, cf. p. 26 s.: “Il concetto su cui si gioca in tutti questi passi, cioè che un uomo o una cosa si trasformino in un altro oggetto o in un’altra persona, assumendone le funzioni o subendone la sorte, si trova non di rado unito ad un altro. […] L’idea su cui tale concetto si fonda è questa: “ogni cosa è quel che il suo nome dice, e viceversa”. Perciò, se uno perde le qualità finora possedute, oppure ne acquista di nuove, deve cambiare anche il nome.”.
341 Qui ci troviamo nella situazione opposta rispetto a quella dei Captivi, dove Ergasilo, come abbiamo visto, impazza per tutto il corso della commedia. Dal confronto tra i due ‘estremi’ risulta interessante notare come l’apparizione di un parassita riesca in ogni caso a far impennare il picco di riferimenti corporei.
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fantasiose deformazioni corporee che si configurano come ‘variazioni sul tema’, suggerendo che nelle situazioni stereotipate il nostro autore gioca tutte le sue carte per evitare la noia e stimolare la fantasia dello spettatore342.
Il corpo del parassita subisce quindi una deformazione parodica, visibile soltanto con gli occhi della fantasia ma ben marcata, tanto che forse si dovrebbe aggiungere alle categorie plautine individuate da Fraenkel anche quella, appunto, della deformazione, o almeno individuarla come ‘sottocategoria’ della trasformazione.
342 Riporto soltanto per completezza un frammento (frg. Bacaria I MONDA) citato da Macrobio; esso è scarsamente utile per aggiungere elementi alla mia argomentazione, ma comunque vi torna il riferimento ai denti di un parassita plautino (Macr. 3.16.1-2): Nec acipenser (…) illius saeculi delicias evasit, et (…) accipite ut meminerit eius Plautus in fabula quae inscribitur Baccharia ex persona parasiti: Quis est mortalis tanta / fortuna adfectus umquam / quanta nunc ego sum, cuius haec ventri portatur pompa? / Vel nunc, qui mi in mari acipenser latuit antehac, cuius ego / latus in latebras reddam meis dentibus et manibus. (Lo storione … non sfuggì certo ai raffinati piaceri di quell’età. … ecco come ne fa menzione Plauto nella commedia Baccaria, facendo parlare un parassita: qual mortale fu mai tanto fortunato / come ora io, al cui ventre è servita questa magnificenza? / Ecco lo storione, che finora mi si nascose nel mare, / i cui filetti io nasconderò con i miei denti e le mie mani (il testo e la traduzione di Macrobio sono tratti da MARINONE 19772; il testo del frammento è ricavato da MONDA 2004). In base al metro, ARAGOSTI 2009, p. 104, ritiene che il passo facesse parte del canticum di un parasitus edax davanti a una tavola riccamente imbandita e lo paragona al monologo di Ergasilo (v. 825 ss.), in cui il parassita dei Captivi manifesta intenti distruttivi nei confronti di vari cibi (cf. supra, par. 3.4.1, p. 173 ss.), proprio come questo fa nei confronti dell’acipenser.
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