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1. Introduzione

2.2 Lo stereotipo e la variazione

2.2.2 La facies/forma di Lisimaco e le guance cascanti

Possiamo confrontare il passo dello Pseudolus (vv. 1218-20) con uno del Mercator in cui il giovane Carino, perdutamente innamorato della cortigiana Pasicompsa, chiede all’amico Eutico di descrivergli chi l’ha comprata e condotta via, strappandola alle sue brame. Eutico, che non ha visto direttamente il compratore, riferisce come gli è stata descritta dai testimoni la sua fisionomia, una tipica figura di senex. Ironia della sorte, il giovane non sa che sta riportando la descrizione del proprio padre Lisimaco, che a sua volta è protagonista di un equivoco perché ha acquistato la ragazza non per sé, ma per il padre di Carino, Demifone, il quale ha concepito una passione senile tanto improvvisa quanto ridicola nei confronti di Pasicompsa. Questa situazione di equivoco a ripetizione può forse aiutarci, come vedremo, nell’interpretazione del lessico relativo alla descrizione dei personaggi.

Carino, disperato per la perdita della ragazza, chiede a Eutico se ha indagato per scoprire chi sia il compratore (vv. 622-24):

quin percontatu's hominis quae facies foret qui illam emisset: eo si pacto posset indagarier mulier?

perché non hai domandato quale fosse l’aspetto dell’uomo che l’ha comprata, per ricercare così, se possibile,

la ragazza?

Alle esitazioni di Eutico, Carino prima lo rimbrotta amaramente per la sua incompetenza e scarsa empatia, poi torna a dirgli cosa avrebbe dovuto fare per rintracciare l’acquirente: nell’impossibilità di saperne il nome, avrebbe dovuto almeno informarsi sulla sua nazionalità, il suo stato sociale, la sua famiglia, il suo

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indirizzo. Infine il dialogo torna a concentrarsi sulla facies dello sconosciuto (vv. 637-43128):

CHARINUS: At saltem hominis faciem exquireres.

EUTYCHUS: Feci. CH: Qua forma esse aiebant, <Eutyche>? EU: Ego dicam tibi: Canum, varum, ventriosum, bucculentum, breviculum,

Subnigris oculis, oblongis malis, pansam129 aliquantulum.

CH: Non hominem mi sed thensaurum nescioquem memoras mali. Numquid est quod dicas aliud de illo? EU: Tantum, quod sciam. CH: Edepol ne ille oblongis malis mihi dedit magnum malum.

CARINO: Ma almeno avresti dovuto fare delle ricerche sull’aspetto dell’uomo. EUTICO: Le ho fatte. CA.: Che fattezze dicevano avesse, Eutico? EU.: Te lo dirò: canuto, sbilenco, panciuto, boccalone, bassotto,

128 ENK 1932, sulla scia di Ritschl, Goetz, Ribbeck e Thierfelder, ritiene i versi 619-24 opera di un retractator. Forse, paradossalmente, per noi il fatto, qualora Enk avesse ragione, potrebbe addirittura essere utile: la canonica domanda sulla facies era sentita come una formula codificata tipicamente plautina? DUNSCH 2000, ad loc., ricorda che comunque molti altri passaggi in Plauto non sono ‘necessari’ per il procedere della trama, benché vengano giudicati autentici. Senza addentrarci troppo nella questione, per noi marginale, potremmo forse ipotizzare che si tratti qui di uno di quei casi di ‘ampliamento del dialogo’ rispetto al modello greco che secondo FRAENKEL 1960 (pp. 105-134) sono tipicamente plautini. Senza seguire, sulle caratteristiche di questa descrizione, le argomentazioni di Dunsch, si rimanda ad esse per una bibliografia esplicativa sull’argomento.

129 Il termine pansa come aggettivo è un hapax plautino. DUNSCH 2000 si rifà a ENK 1932 ritenendolo sinonimo di latipes e ricordando che altrove si incontra soltanto come cognomen nobiliare. ENK 1932 riporta infatti a tale proposito Plin. nat. 11.254: vola homini tantum exceptis quibusdam. Namque et hinc cognomina inventa: Planci, Plauti, Pansae, Scauri, sicut a cruribus Vari, Vatiae, Vatini, quae vitia et in quadrupedibus. Giustamente Dunsch ricorda inoltre che in tutta la descrizione non era necessario esercitare una particolare creatività da parte del poeta, perché la comicità non è insita tanto nell’aspetto del personaggio descritto, una caratteristica maschera di senex, quanto nel fatto che l’adulescens non si accorge di parlare del proprio padre. La traduzione qui proposta segue l’interpretazione di ERNOUT-MEILLET 2001, s.v. pando, che ritiene che pansa indichi un personaggio che cammina con i piedi larghi. La camminata ‘a gambe larghe’ sembra infatti più adeguata per la descrizione di un senex malandato.

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con gli occhi nericci, le guance cascanti, i piedi allargati alquanto. CA.: Non mi descrivi un uomo, ma un cumulo di malanni!

Hai altro da dirmi su di lui? EU.: Questo è tutto ciò che so.

CA.: Per Polluce, quel tizio con le sue guance cascanti mi ha fatto fare proprio una gran cascata!130

Anche in questo caso, come nel dialogo fra Ballione ed Arpace, si tratta di capire quali siano le caratteristiche di un personaggio per riconoscerlo sulla scena. Il termine facies ricorre ben due volte, al v. 622 e al v. 637: Carino insiste sul fatto che Eutico doveva informarsi sull’aspetto dello sconosciuto che deve essere assolutamente rintracciato. Eutico l’ha fatto e di conseguenza è in grado di fornire una descrizione dettagliata del senex che non ha visto, ma sul quale ha indagato. La descrizione è ovviamente diversa da quella del servus Pseudolo: corrisponde a quella di un anziano il quale, però, invece di mostrare la gravitas che dovrebbe caratterizzare la sua età ed il suo stato sociale, evidenzia alcune peculiarità grottesche e ridicole. Come nel caso della descrizione di Pseudolo, però, uno dei particolari viene isolato da chi ha ascoltato e viene commentato (con la tecnica dell’aprosdoketon) per gli effetti che quello specifico particolare ha sull’ascoltatore stesso: nel caso di Pseudolo i piedoni fanno capire immediatamente a Ballione che è rovinato; nel caso di Lisimaco, le guance cascanti strappano a Carino un gioco di parole sullo stesso argomento, perché si parla ancora della rovina di chi indaga sul personaggio assente (anche se in questo caso la rovina è sentimentale, non economica). Come nel caso di Pseudolo, la battuta sembra destinata non soltanto a far ridere, ma anche a rinforzare nel pubblico la conoscenza di quel particolare tratto, presentato come il ‘segno distintivo’ del senex Lisimaco.

Fin qui, la struttura del passo corrisponde grossomodo a quella dell’analogo passo dello Pseudolus. C’è però una differenza significativa: questa descrizione è

130 Risulta impossibile rendere efficacemente in Italiano il gioco di parole tra māla ‘guancia’ e mălum ‘male’: ho cercato di spostare lo scherzo sull’aggettivo riferito alle guance (cascanti), accostandolo a un metaforico capitombolo.

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chiaramente di seconda mano. Eutico non ha visto direttamente il compratore: l’espressione ‘standard’ “qua facie fuit?” (che aspetto aveva?) diventa al v. 622 “quin percontatu's hominis quae facies foret…?” (perché non hai domandato quale fosse l’aspetto dell’uomo…?) e al v. 637 “At saltem hominis faciem exquireres” (Ma almeno avresti dovuto fare delle ricerche sull’aspetto dell’uomo). La domanda diretta slitta in terza posizione (v. 638) e diventa “Qua

forma esse aiebant…?” (Che fattezze dicevano avesse…?). In questo passo forma e facies sembrano in larga parte sovrapponibili come termini sinonimici. Eppure si può forse osservare che il ristretto contesto in cui compare forma allude a una descrizione basata non più sulla condizione di testimone oculare, bensì sull’ascolto di testimonianze altrui, da cui vengono riprese le informazioni.

Vediamo ora come il termine forma viene usato in altri passi plautini paralleli, in analoghe descrizioni complessive delle fattezze dei personaggi. Rricorre infatti anche in altri due passi che abbiamo già parzialmente letto (Asin. 399-402 e Poen. 1111-14), perché in essi un personaggio chiede ad un altro quale sia la facies di un terzo personaggio e ne ascolta la descrizione. In questi casi possiamo anche vedere come il discorso si concluda spostandosi appunto sull’uso del termine forma e con un’esplicita allusione alla pittura: le parole dell’altro hanno ‘dipinto’ esaurientemente il personaggio assente, tanto da permettere di riconoscerlo. Il meccanismo si ripete quasi identico in entrambi i passi. Leggiamo prima come si configura nell’Asinaria (vv. 399-402):

MERCATOR: Qua facie voster Saurea est? Si is est, iam scire potero. LIBANUS: Macilentis malis, rufulus aliquantum, ventriosus,

truculentis oculis, commoda statura, tristi fronte.

MERCATOR: Non potuit pictor rectius describere eiius formam.

MERCANTE: Che aspetto ha il vostro Saurea? Se è lui, potrò subito saperlo. LIBANO: Ha le guance macilente, assai rossiccio, panciuto,

ha occhi minacciosi, statura normale, volto arcigno.

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Ora possiamo confrontare il passo dell’Asinaria appena letto con l’altro, anch’esso già visto in precedenza, del Poenulus (vv. 1111-14):

HANNO: Sed earum nutrix qua sit facie mi expedi.

MILPHIO: Statura hau magna, corpore aquilo. HA.: Ipsa east. MI.: Specie uenusta, ore atque oculis pernigris.

HA.: Formam quidem hercle uerbis depinxti probe.

ANNONE: Ma spiegami che aspetto ha la loro nutrice.

MILFIONE: Ha una statura non alta, la pelle bruna. ANNONE: È proprio lei! MILFIONE: La figura graziosa, la faccia e gli occhi nerissimi.

ANNONE: Per Ercole, con le parole hai dipinto alla perfezione le sue fattezze!

In entrambi i passi si inizia lo scambio di battute chiedendo quale sia la facies del personaggio e si conclude sostenendo che l’interlocutore ha ben ‘dipinto’ la sua forma. Notiamo fin d’ora quanto sia rilevante in questi due contesti la metafora pittorica, un elemento che torneremo ad approfondire più tardi131. Sembra che, in questi specifici casi, la facies alluda all’aspetto reale del personaggio sulla scena, la forma invece all’immagine ricreata sapientemente dalle parole. Può essere cioè che nell’uso plautino la forma tenda a fissarsi in opposizione a facies nei passi in cui entrambi i termini compaiono? Siamo in una fase in cui il termine formosus registra occorrenze sporadiche. L’originario significato di forma come ‘stampo’ potrebbe non essersi ancora perso del tutto e una sfumatura che lo differenzierebbe da facies potrebbe consistere proprio nel legame con quel significato di partenza.

Passiamo ora a un brano ulteriore in cui è rilevante l’uso di forma in una descrizione. Si tratta di una situazione del Curculio in cui il servo Palinuro, vedendo avvicinarsi un altro personaggio, si rende conto che si tratta del lenone

131 Cf. almeno BETTINI 2003 (cf. supra, n. 111, p. 58) eDAVID 2010 (cf. supra, p. 14), ai quali si rimanda per ulteriori indicazioni bibliografiche.

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Cappadoce, sfigurato perché sofferente per il mal di fegato. Palinuro si esprime in questo modo (vv. 230-33):

Quis hic est homo cum conlativo132 ventre atque oculis herbeis133?

De forma novi, de colore non queo novisse. Iam iam novi: leno est Cappadox.

Chi è quest’uomo con la pancia capiente e gli occhi color dell’erba? Dalle fattezze lo conosco, ma dal colore non riesco

a riconoscerlo. Ecco, ecco, lo riconosco: è il lenone Cappadoce.

In questo caso, di fronte a un personaggio irriconoscibile che gli viene incontro, lo schiavo Palinuro basa la sua ricognizione solo sui due parametri molto generali della forma e del color134. Se quest’ultimo, alterato dalla malattia, non permette l’anagnorisis135, il giudizio dovrà basarsi esclusivamente sulla

forma.

132 Se escludiamo gli autori cristiani, questo è l’unico passo che ci attesta l’aggettivo conlativus, poi spiegato da Festo (51. 15-16 L.) con queste parole: Conlativum ventrem magnum et turgidum dixit Plautus, quia in eum omnia edulia congeruntur. Lo stesso Festo spiega un altro utilizzo dell’aggettivo: conlativum sacrificium dicitur, quod ex conlatione offertur. Questa seconda spiegazione di Festo ci può far supporre forse nelle parole dello schiavo plautino un’allusione parodica al rito religioso, visto che il lenone sta uscendo dal tempio di Esculapio, dove ha pregato per la propria salute.

133 L’aggettivo è un hapax che indica il colore del bulbo oculare, come sintomo del mal di fegato citato poco oltre, al v. 239: cf. MONACO 1969, p. 236.

134 Sappiamo che i colori erano molto importanti nelle rappresentazioni sceniche, anche se non abbiamo dati certi per tutti i personaggi. In ogni caso, troviamo frequenti allusioni al colore dei capelli (il senex li aveva bianchi, il servus rossi, ecc…) e della pelle, con varie gradazioni di colorito. Per maggiori dettagli, cf. PETRIDES 2014 e la bibliografia ivi indicata.

135 Per quanto riguarda il color come tratto distintivo ai fini del riconoscimento, ricordiamo che nello Pseudolus (poco prima della descrizione del protagonista) Arpace, il messo del soldato

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Non ci addentriamo qui nel problema – forse consono a una concezione moderna e realistica del teatro più che alle convenzioni della scena antica – di come e se fosse effettivamente reso nella performance il color di questi oculi herbei: non pare affatto da escludere però che Plauto facesse appello alla fantasia degli spettatori più che a tratti visibili del travestimento136 per rappresentare questa caratteristica del lenone.

Tornando invece all’elemento distintivo che permette il riconoscimento del ruffiano Cappadoce, è interessante notare che il tratto del personaggio in scena su cui Palinuro fa convergere l’attenzione del pubblico è la forma, ovvero il profilo complessivo della sua sagoma panciuta (conlativo ventre).

Laddove le descrizioni di personaggi non presenti in scena si affidano a caratteri ‘pittorici’ còlti in dettaglio, a segni particolari come piedoni, guance macilente, occhi nerissimi ecc., che ne permettono il riconoscimento, nel caso di Cappadoce che avanza sotto gli occhi del pubblico, sfigurato dall’itterizia, basta uno sguardo d’insieme alla sua forma per individuare a colpo d’occhio il suo che ha acquistato la ragazza, accusato da Ballione di essersi accordato con Pseudolo per truffarlo, sbotta dicendo (vv. 1195 s.): Quem tu Pseudolum, quas tu mihi predicas fallacias? / Quem ego hominem nullius coloris novi (Quale Pseudolo, quale truffa mi vai dicendo? / Quell’uomo, io non so proprio di che colore sia!). I commenti al testo sottolineano come l’espressione del v. 1196 non si trovi che qui, ma avvicinano il passo a Catull. 93 (nil nimium studeo, Caesar, tibi velle placere, / nec scire utrum sis albus an ater homo). Il color può forse essere inteso come mezzo di riconoscimento più immediato rispetto alla forma, che salterebbe all’occhio con minore evidenza e sarebbe quindi da considerare più attentamente? Le attestazioni sono troppo poche per garantirci tale interpretazione, ma l’ipotesi potrebbe andare d’accordo con il ‘codice’ dei colori di capelli e pelle che emerge dalle descrizioni plautine. Più interessante, sebbene di epoca ancora posteriore, risulta Svetonio, Aug. 65, in cui viene raccontato che Augusto, dopo aver relegato la figlia Giulia, pretendeva di sapere di ogni suo visitatore qua is aetate, qua statura, quo colore esset, etiam quibus corporis notis vel cicatricibus. Le caratteristiche che, secondo Svetonio, Augusto riteneva essenziali per il riconoscimento erano quindi età, statura, colorito e ‘segni particolari’. Per color nel senso abituale di ‘colorito’ di una persona, cf. HOFMANN s.v. color, TLL 3, c. 1718, ll. 35-84, 1910.

136 A tale proposito, cf. MONDA 2012, n. 12, p. 151 s., sul tema delle “frequenti ‘dichiarazioni’ di colorito e di mimica facciale dei personaggi plautini e terenziani”: Monda sottolinea che, a suo parere, “i personaggi in scena dicono a parole ciò che la convenzione della maschera non permette agli spettatori di vedere con gli occhi”.

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venter, che potrebbe essere un tratto distintivo da lenone avido137. Appare comunque evidente che la forma, anche in questo caso (come nei passi esaminati supra), in Plauto non è esattamente sovrapponibile alla facies, termine che non viene neppure utilizzato nella sommaria descrizione ‘in presenza’ di Cappadoce.