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1. Introduzione

2.2 Lo stereotipo e la variazione

2.2.3 La forma di Sosia e il tergum cicatricosum

Per completare il ragionamento ci può venire in soccorso un altro celebre elenco di caratteristiche corporee, calato però in tutt’altra situazione: si tratta del momento dell’Amphitruo in cui Sosia guarda Mercurio (tramutatosi nel duplicato dello stesso Sosia) davanti a sé e confronta il proprio corpo con il suo, sconvolgendosi sempre di più per la corrispondenza speculare dell’altro (Amph. 441-46):

Certe edepol, quom illum contemplo et formam cognosco meam,

quem ad modum ego sum (saepe in speculum inspexi138), nimi' similest mei;

itidem habet petasum ac vestitum: tam consimilest atque ego; sura139, pes, statura, tonsus, oculi, nasum vel labra,

malae, mentum, barba, collus: totus. Quid verbis opust?

Si tergum cicatricosum, nihil hoc similist similius.

137 Cf. Rud. 317, dove il lenone Labrace è tra l’altro definito ventriosus.

138 ONIGA 1991 ricorda come lo specchio sia nelle tradizioni popolari un ben noto strumento magico e si configuri come luogo del ‘doppio’ per eccellenza, fonte di equivoci come quello di Narciso. Qui ovviamente la situazione è inversa: l’immagine che sembra rimandata dallo specchio è invece viva e concreta. Per le credenze popolari legate allo specchio, cf. BETTINI 2000c, in particolare pp. 154-58.

139 In aggiunta ai due casi già segnalati dello Pseudolus, questo è l’unico altro passo plautino in cui vengono nominati i polpacci (sura, al singolare come pes) di un personaggio. Si tratta in tutti e tre i casi di schiavi (Scimmia, Pseudolo, Sosia), probabilmente perché erano gli unici che portavano la tunica corta e quindi avevano le gambe in mostra. CHRISTENSON 2000 ipotizza l’uso di calze imbottite per evidenziare i polpacci, ma su quest’ipotesi in genere cf. supra n. 124, p. 66 s. Christenson pensa anche a piedi esageratamente grandi, come quelli di Pseudolo, ma in questo testo non abbiamo nessuna evidenza per decidere in tale direzione.

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Certo, per Polluce, più lo guardo e più riconosco le mie fattezze,

come sono fatto io (spesso mi sono visto allo specchio), lui è troppo simile a me; ha lo stesso cappello e lo stesso abito; mi somiglia davvero;

gambe, piedi, statura, taglio di capelli, occhi, naso e labbra,

guance, mento, barba, collo: tutto quanto. Che bisogno c’è di altre parole?

Se ha la schiena piena di cicatrici, niente mi somiglia di più!

Anche qui, come nel riconoscimento del lenone Cappadoce nel Curculio, colui che cerca di effettuare l’identificazione descrive un altro personaggio perfettamente visibile agli spettatori, sulla scena. La struttura generale del discorso è molto simile a quella dei passi sopra commentati: si nominano le caratteristiche corporee essenziali del personaggio per poi indicare un elemento individualizzante (in questo caso la schiena segnata dalle frustate). Come nella scena del Curculio, questo elenco di particolari fisici ha più una funzione di ricognizione che di vera e propria descrizione del personaggio. Le caratteristiche corporee di questo sono quindi catalogate non perché gli spettatori le ricostruiscano nella propria memoria, ma perché le riscontrino via via nel corpo sulla scena, seguendo la progressiva presa di coscienza, da parte di Sosia, della corrispondenza perfetta, dettaglio per dettaglio, di quel corpo con il proprio. A differenza di quanto avviene nel Curculio, in cui il colpo d’occhio basta a individuare sinteticamente la forma di Cappadoce nella sua sagoma panciuta, Sosia riconosce in Mercurio che gli sta di fronte la propria stessa forma attraverso un lento accumulo analitico di particolari: l’altro è il suo esatto ‘duplicato’, paragonabile all’immagine riflessa nello specchio140. La forma dell’uno si

rispecchia in quella dell’altro; le parole di Sosia invitano il pubblico a confrontare le varie parti del corpo dei due personaggi man mano che vengono nominate, senza l’aggiunta di nessun aggettivo che le descriva. Solo l’ultimo elemento, il

140 In precedenza (v. 266), Mercurio aveva già dichiarato: “formam cepi huius in med et statum” (di costui ho assunto in me le fattezze e lo status”. Per il concetto di status in Plauto, cf. il prossimo capitolo. Anticipiamo soltanto, per chiarezza, che ONIGA 1991 traduce ‘condizione’,

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tratto cui spesso nei loci paralleli analizzati (a partire dai piedoni di Pseudolo) è affidata la funzione distintiva di individuare il personaggio, è qui specificato da un aggettivo: in altre parole, il tergum cicatricosum.

Prima di continuare l’analisi di questo tratto distintivo, val la pena però di soffermarsi su un elemento interessante che compare nel catalogo di Sosia (pur se non nella descrizione di Pseudolo): la statura, l’altezza complessiva del corpo, la cui corrispondenza deve ovviamente concorrere a creare la possibilità dello scambio di persona141. Si tratta comunque di un elemento presente anche in altre descrizioni di personaggi plautini che abbiamo sopra esaminato: nel passo già disccusso del Mercator, per esempio, Lisimaco è definito breviculum (639); nell’Asinaria (v. 401) Saurea fra le altre caratteristiche ha quella di apparire commoda statura (di altezza normale) e nel Poenulus (v. 1112) la nutrice viene descritta con varie indicazioni, fra le quali statura hau magna (di non grande altezza). Più interessante nell’ambito del nostro discorso è un’altra attestazione del termine (l’ultima delle quattro presenti in Plauto), nel Persa (v. 699), dove Sagaristione, travestito da Persiano, si inventa un fratello gemello da cercare ed affrancare (per battersela più rapidamente dopo aver truffato il lenone) e il suo compare Tossilo conferma l’esistenza di questo fantomatico gemello facendo intendere al pubblico che si tratta del ‘vero’ Sagaristione, nella sua abituale veste di schiavo. Per indicare la somiglianza tra il ‘Persiano’ e il suo simillimus, Tossilo usa queste parole (v. 698 s.):

141 Si potrebbe pensare anche a statura come ‘modo di stare’, ma ONIGA 1991 e BETTINI 2000ctraducono qui ‘statura’, come fanno anche le principali edizioni critiche con traduzione a fronte (ERNOUT 1932-61, NIXON 1916-38, DE MELO 2011-13, TRAINA 2012) e PARATORE 1978. Ricordiamo che nel passo di Svetonio sulla vita di Augusto (cf. supra, n. 135, p. 74 s.), la statura, insieme all’età, al colorito e ai segni particolari, era ritenuta sufficiente per l’identificazione dei visitatori della figlia Giulia. L’affermazione sembra confermata dall’uso ‘modulare’ del termine in passi plautini che trattano esplicitamente dell’altezza di un personaggio. Sembra che nelle descrizioni Plauto abbia in mente, come abbiamo già sottolineato, caratteristiche fisiche che potremmo forse classificare in due categorie, la forma e il color (cf. la descrizione del lenone in Curc. 230-33); ma la forma si concentra soprattutto sulle dimensioni del corpo, nel suo complesso (statura) o prendendo in esame singole parti ed evidenziando in questo caso comiche sproporzioni, come abbiamo notato, per esempio, nel caso di Pseudolo e del ruffiano Cappadoce.

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videor vidisse hic forma persimilem tui, eadem statura.

Mi sembra di aver visto qui uno somigliantissimo a te di aspetto, della stessa statura.

Ritorna qui, significativamente, oltre alla statura, un altro dei termini chiave nel campo semantico dell’aspetto fisico: la forma, che in questo caso allude alla sagoma immaginaria di un gemello fittizio, frutto di un travestimento che crea una sorta di ‘riproduzione’ dell’originale, tutta giocata sul ‘sembrare’ più che sull’essere (elemento ben sottolineato dal poliptoto videor vidisse)142.

Abbiamo visto in molti passi che il meccanismo delle descrizioni appare più o meno sempre lo stesso: un disordinato affastellarsi di informazioni che serve a richiamare negli spettatori le caratteristiche del costume di scena di un personaggio, anche se talvolta con qualche ‘segno particolare’.

Niente di tutto questo nel confronto fra il vero Sosia e il dio che ha assunto le sue sembianze: il pubblico è guidato dalle parole di Sosia, che regge una lampada (nella finzione scenica è notte143), ad osservare il ‘doppio’ dello schiavo

con una ben precisa tecnica di avvicinamento progressivo (prima l’abbigliamento, poi le gambe, i piedi e la statura, infine le singole parti del capo) che rende molto evidente come lo stupore del personaggio si accresca ad ogni nuova parola. Inoltre Sosia guarda Mercurio-Sosia una prima volta nella direzione alto-basso (cappello, vestito, gambe, piedi), poi torna di nuovo a guardarlo partendo dall’alto (statura) e

142 Cf. anche, per i possibili scherzi sulla statura, il passo del Trinummus che abbiamo esaminato sopra e che ricerca un effetto straniante nella battuta sul personaggio che da assente diventa più alto (Trin. 903 s., che abbiamo già letto supra, p. 61 s.: CHARMIDES: Qua facie est homo? SYCOPHANTA: Sesquipede quiddamst quam tu longior. / CH.: Haeret haec res, si quidem ego apsens sum quam praesens longior).

143 BETTINI 2000c sottolinea come l’oggetto di scena (la lampada) potesse accompagnare (e sottolineare) i movimenti di Sosia nell’ispezionare il corpo del proprio doppio.

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osservandolo più da vicino nei tratti del volto, anche questi elencati dall’alto al basso (taglio di capelli144, occhi, naso, labbra, guance, mento, barba, collo). L’ordine delle indicazioni sembra suggerire sia un avvicinamento tra i due personaggi, sia ben precisi movimenti scenici di Sosia, che mima un’attenta e ripetuta osservazione. Una situazione ben diversa rispetto all’affannato accumularsi di dettagli sull’aspetto di Pseudolo nelle parole del povero Arpace, ingiustamente accusato da Ballione di essere un mentitore e un impostore, o all’analoga descrizione dello ‘sconosciuto’ senex da parte del giovane Eutico, incalzato dall’amico che lo ha appena tacciato di insensibilità nei confronti delle sue sofferenze amorose.

Torniamo ora alla battuta sul tergum cicatricosum, che suggella il raffronto fra i due personaggi di Sosia e Mercurio: l’elenco delle parti del corpo pronunciato da Sosia mentre si ‘rispecchia’ nell’altro viene concluso con il riferimento ad una delle caratteristiche più comuni del servus della palliata, la schiena piena di cicatrici per le punizioni infertegli dal padrone. Sosia, a questo punto, sembra vantare le proprie ferite in una larvata parodia dell’orgoglio per le proprie cicatrici tradizionalmente ostentato dai combattenti romani (ma, significativamente, nella realtà non ci si vantava mai di cicatrici sulla schiena, che sarebbero equivalse ad una confessione di viltà in battaglia145). Il particolare che

144 Significativamente, non il colore dei capelli, come abbiamo visto in molte descrizioni della facies, ma il tonsus, il ‘taglio’: non ci sono colori in questo elenco di dettagli.

145 SEGAL 1987, p. 139 osserva che, in senso comico, le strisce color porpora sulla schiena degli schiavi distinguevano il loro ruolo più di quanto i bordi dello stesso colore della toga distinguessero i senatori romani. Sulle cicatrici come ‘segno particolare’ e sull’orgoglio delle cicatrici, cf. PETRONE 1996, Metafora e Tragedia. Immagini culturali e modelli tragici nel mondo romano, Palermo, in particolare il cap. 4 (“La prova della cicatrice”), pp. 103-117, dove sono riportati vari aneddoti di personaggi eroici che ostentano con orgoglio le proprie cicatrici come prova del valore dimostrato in battaglia. Sul topos delle cicatrici esibite come prova di virtus del condottiero, cf. ad esempio il discorso di Mario in Sall. Iug. 85.29: non possuum fidei causa imagines neque triumphos aut consulatus maiorum meorum ostentare; at, si res postulet, hastas, vexillum, phaleras, alia militaria dona, praeterea cicatrices advorso corpore. Hae sunt meae imagines, haec nobilitas, non hereditate relicta, ut illa illis, sed quae ego meis plurumis laboribus et periculis quaesivi (Per ispirare la vostra fiducia, io non posso esibire ritratti, trionfi, consolati

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ci interessa di più, però, è un altro: lo schiavo allude al proprio tergum cicatricosum come possibile elemento differenziante fra sé e il proprio ‘doppio’; ma questo elemento, ironia della sorte, non è visibile perché ben coperto dall’abbigliamento di scena. In effetti pare davvero straniante anche solo l’ipotesi di un Mercurio con la schiena deturpata dai segni delle frustate, veri e propri marchi infamanti sia per la collocazione (sul dorso) che per la natura (non da arma da taglio, ma da percosse subite come punizione tipicamente servile), senza parlare dell’intangibilità del dio. Abbiamo quindi un segno che avrebbe potuto differenziare il vero Sosia dal falso Sosia146, ma purtroppo tale segno è destinato a restare nascosto, a rivelarsi soltanto nella battuta del personaggio, che ‘disegna’ così unicamente attraverso la parola proprio l’elemento corporeo più importante per la propria identificazione, senza avere la possibilità di confrontare anche quello, come ha fatto con tutti gli altri dettagli fisici.

Come la descrizione dei piedoni di Pseudolo determina la sconfitta di Ballione (che realizza di aver perso l’amato denaro), e l’allusione alle guance cascanti di Lisimaco contribuisce ad acuire la disperazione di Carino (informandolo che un anziano con maggiori disponibilità economiche gli ha dei miei avi; ma, se ce n’è bisogno, lance, vessilli, decorazioni al merito e altre ricompense al valor militare; e inoltre le mie cicatrici, tutte sul petto. Son questi i miei ritratti, la mia nobiltà: essa non m’è stata trasmessa, come a quelli la loro, ma me la sono guadagnata a furia di fatiche e di rischi). Testo e traduzione di Sallustio sono tratti da STORONI MAZZOLANI 200111. Ai passi indicati da Petrone 1996 si può aggiungere Plinio nat. 7.101: L. Siccius Dentatus, (…) quadraginta quinque cicatricibus adverso corpore insignis, nulla in tergo. Lucio Siccio Dentato, (…) famoso per le quarantacinque cicatrici sulla parte anteriore del corpo, nessuna sulla schiena: l’opposizione adverso corpore – in tergo è esplicita. Da tali evidenze, possiamo ricavare che qui si gioca sulla combinazione di un’equivalenza (riconoscimento tramite le cicatrici) e un’opposizione (‘cicatrici sulla parte anteriore del corpo come segno di valore e di animo nobile’ vs. ‘cicatrici sulla schiena come segno di viltà e di stato servile’. Non a caso, Sosia è diverso dal tipo del servus millantatore, ma è piuttosto un pauroso e un vigliacco). A proposito della cicatrice come ‘segno identitario’, cf. anche BAROIN 2002, pp. 33-45.

146 Probabilmente aleggia in sottofondo la cicatrice più famosa di tutte, quella che permette alla nutrice Euriclea di riconoscere il padrone. Il pubblico dell’epoca di Plauto sapeva cogliere i riferimenti alla saga di Odisseo, come ci dimostrano numerosi riferimenti in altre commedie (p. es. nello Pseudolus). Nell’Amphitruo, però, l’attenzione è spostata soprattutto sul particolare tipo di cicatrici ‘da percosse’ tipiche degli schiavi e sul riconoscimento del servus in quanto tale.

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sottratto la ragazza), così l’allusione al tergum cicatricosum costituisce il segnale che Sosia perde la partita contro il proprio ‘doppio’, il quale è in grado di sottrargli un bene ancora più prezioso di una somma di denaro o di una ragazza: la sua identità147.

Sembra emergere quindi uno σχῆμα διανοίας caro a Plauto, il quale in tutti e tre i casi, manipolando un elemento della corporeità che potrebbe far parte di una descrizione piuttosto stereotipata, ne fa invece il punto di partenza per una battuta che, variando sul tema, utilizza la tecnica dell’aprosdoketon per scherzare sul momento in cui viene constatata l’avvenuta sottrazione di uno dei beni più preziosi nel mondo plautino: il denaro, le giovani donne, l’identità.

Tirando inoltre le conclusioni sul versante dell’indagine relativo al lessico delle fisionomie plautine, possiamo condensare l’analisi in questi termini: dalle situazioni esaminate emerge che si parla abitualmente di facies dei personaggi, mentre la parola forma viene utilizzata di preferenza nelle situazioni in cui si fa riferimento a pitture (Asin. 399-402 e Poen. 1111-14), riflessi nello specchio (Amph. 441-46), descrizioni di seconda mano (Merc. 637-43), oppure in funzione complementare rispetto a un color alterato dalla malattia (Curc. 230-33). Vien da chiedersi se queste peculiarità di utilizzo costituiscano una semplice variatio nel lessico della descrizione oppure possano segnalare una maggiore ‘artificialità’ delle fattezze indicate con il termine forma in opposizione a facies.