1. Introduzione
3.2 Denti come personaggi
3.2.5 Un nome fra i denti
Prendiamo ora in esame un passo del Trinummus, che in parte abbiamo già analizzato a proposito del concetto di facies241. In questo dialogo il sicofante dichiara che Carmide è più alto del suo interlocutore, suscitando l’ilarità del Carmide ‘in incognito’, il quale decide di giocare per un po’ con lui come il gatto con il topo, per il divertimento proprio e degli spettatori. Gli chiede quindi quale sia il nome del personaggio da cui pretende di essere stato inviato, dando così il via ad una nuova gag (vv. 906-910):
CHARMIDES. Quid est ei nomen? SYCOPHANTA. Quod edepol homini probo. CH. Lubet audire. SY. Illi edepol – illi - illi - vae misero mihi!
CH. Quid est negoti? SY. Devoravi nomen inprudens modo. CH. Non placet qui amicos intra dentes conclusos habet. SY. Atque etiam modo vorsabatur mihi in labris primoribus.
CARMIDE: Come si chiama? SICOFANTE: Per Polluce, come si può chiamare un onest’uomo. CAR.: Ho voglia di sentirlo. SI.: Per Polluce, si chiama – si chiama – si chiama –
accidenti, povero me! CAR.: Che ti succede? SI.:Senza accorgermene mi sono appena ingoiato il nome. CAR.: Non mi piace chi tiene gli amici intrappolati fra i denti!
SI.: Eppure anche poco fa mi stava a fior di labbra!
Il sicofante, che ha dimenticato il nome di Carmide, sostiene di averlo ‘ingoiato’, perché non riesce più a pronunciarlo, non l’ha più ‘in bocca’. La battuta inattesa viene spiegata subito dopo, come spesso avviene in Plauto242, dallo stesso parlante, che la riconduce esplicitamente alla matrice espressiva da cui deriva: nel nostro caso si tratta dell’espressione in labris primoribus vorsari
241 Cf. supra, p. 61 s.
242 Cf. FRAENKEL 1960, pp. 21-54, a proposito dei motivi della ‘trasformazione’ e dell’‘identificazione’, dove viene evidenziato a più riprese come le spiegazioni delle battute, in Plauto, siano d’abitudine posposte.
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(stare a fior di labbra o, come diremmo noi, sulla punta della lingua). La locuzione effettivamente sembra proverbiale243 e quindi è a partire da un luogo comune che si sviluppa la progressiva deriva logica del gioco. Il nome, una volta reificato, si tramuta nel suo stesso proprietario, intrappolato fra i denti del sicofante. Il sicofante, poi, dopo una serie di tentativi di indovinare il nome andati a vuoto, quando finalmente ci arriva, impreca contro Carmide; quest’ultimo, che non si è ancora palesato, lo rimprovera per l’atteggiamento sconveniente nei confronti di un ‘amico’ e il sicofante rimbecca il senex riprendendo lo scherzo di poco prima (v. 925):
Satin inter labra atque dentes latuit vir minimi preti?
Non è forse rimasto nascosto abbastanza fra le labbra e i denti, quell’uomo da nulla?
Questa sezione del dialogo si conclude in modo davvero paradossale (vv. 926 s.):
CH. Ne male loquere apsenti amico. SY. Quid ergo ille ignavissumus mihi latitabat? CH. Si appellasses, respondisset, nomine.
CAR.: Non parlar male di un amico assente! SI.: Perché allora quel vigliacchissimo mi si nascondeva? CA.: Se tu l’avessi chiamato per nome, avrebbe risposto!
Carmide, che già si era sdoppiato all’inizio della scena (per canzonare il maldestro sicofante, infatti, il Carmide presente accetta fin dall’inizio di parlare del Carmide assente come se fosse un altro), sembra addirittura triplicarsi, perché il suo nome ha assunto vita propria, nascondendosi nella bocca dell’impostore; ma il colmo è che alla fine il nome personificato potrebbe rispondere all’appello, se chiamato a sua volta per nome. Il meccanismo ricorda da vicino quello della ‘dentatura al quadrato’ di Artotrogo: qui abbiamo un nome che può avere il nome, come là avevamo denti che potevano mettere i denti.
243 La proverbialità è attestata almeno a partire da Cic. phil. frg. 5.93 quod in primoribus habent, ut aiunt, labris. Altri esempi in FLURY s. v. labrum, TLL 7.2, c. 810, ll. 10-15, 1972.
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Possiamo allora pensare, in conclusione, ad una marcata tendenza plautina alla personificazione, che Fraenkel aveva già isolato come uno dei tratti stilistici peculiari dell’autore244, ma della quale abbiamo evidenziato alcune caratteristiche
molto originali nel caso che tale personificazione si riferisca ad elementi di un personaggio vivente, quali parti del corpo, o ad attributi personali fortemente individualizzanti come il nome. Alcune parti del ‘corpo comico’, già comprese, quindi, in un essere animato, assumono infatti una propria identità autonoma distaccandosi dal resto dell’organismo, ma sempre fermando questa autonomia ad un certo punto, cioè quando si tratterebbe di recidere del tutto il legame che le unisce in un’unica volontà con il complesso del personaggio a cui appartengono. Abbiamo così, nello Pseudolus, il puer ‘aspirante prostituto’ che parla allusivamente della necessità di comprimere dentes; nei Captivi, i denti che si mettono gli scarponi per andare a caccia del cibo ardentemente desiderato dal loro proprietario Ergasilo; nel Curculio, i denti che si comportano come occhi, alludendo ad un parassita capace di ‘vedere’ con gli strumenti necessari ad alimentarsi; nel Miles, i denti che potrebbero mettere a loro volta i denti, se la fame di Artotrogo si facesse sentire con troppa insistenza; nel Trinummus, addirittura un elemento incorporeo della persona, il nome, che prende vita, sostituendosi temporaneamente all’individuo che lo porta. Un rapido excursus nei testi plautini può confermarci che tale comportamento non è tipico solo dei denti (basti soltanto pensare alle mani, che, in linea con le caratteristiche del personaggio a cui appartengono, possono ad esempio risultare oculatae245 quando appartengono a una lena, steriles o gravidae246 (con allusione alla capacità o meno di trasportare oggetti di valore) quando sono dei giovanotti che frequentano la casa di una prostituta, o addirittura possono rifiutarsi di credere al pagamento finché non lo stringono247, trattandosi delle mani di una meretrix). La comune aura popolare di queste espressioni sembra rimandare all’ambito dei racconti
244 Cf. il capitolo “La personificazione di cose inanimate” in FRAENKEL 1960, pp. 95-104. 245 Cf. Asin. 203: Semper oculatae manus sunt nostrae, credunt quod vident.
246 Cf. Truc. 97 s.: …neu, qui manus attulerit sterilis intro ad nos, / gravidas foras exportet. 247 Cf. Truc. 901: Manu’ votat priu’ quam penes sese habeat quicquam credere.
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folklorici, sullo stampo ad esempio della favola di Menenio Agrippa a proposito della secessione sull’Aventino, narrata da Livio, in cui le parti del corpo tentano una ‘ribellione’ nei confronti del ventre, considerato un inattivo parassita, ma, a causa dell’indebolimento dell’intero organismo, devono constatare la solidarietà che lega fra di loro tutte le membra248.
Le personificazioni di parti del ‘corpo comico’ plautino sembrano proprio rispondere alla logica del racconto popolare: da una parte, esprimono una tendenza centrifuga, rivendicando una propria autonomia che può creare situazioni di grande comicità (i denti che si mettono le scarpe e partono all’inseguimento dei cibi, oppure che ‘non ci vedono più’ dalla fame, ecc.); dall’altra parte, le stesse parti del corpo sembrano conoscere bene i rischi insiti nella recisione di quel ‘cordone ombelicale’ che le lega all’organismo grazie al
248 Cf. Livio 2.32: Tempore quo in homine non ut nunc omnia in unum consentiant, sed singulis membris suum cuique consilium, suus sermo fuerit, indignatas reliquas partes sua cura, suo labore ac ministerio ventri omnia quaeri, ventrem in medio quietum nihil aliud quam datis voluptatibus frui; conspirasse inde ne manus ad os cibum ferrent, nec os acciperet datum, nec dentes conficerent. Hac ira dum ventrem fame domare vellent, ipsa una membra totumque corpus ad extremam tabem venisse. Inde apparuisse ventris quoque haud segne ministerium esse, nec magis ali quam alere eum, reddentem in omnes corporis partes hunc, quo vivimus vigemusque, divisum pariter in venas maturum confecto cibo sanguinem. (Nel tempo in cui nell’uomo le membra non erano tutte in piena armonia, come ora, ma ogni membro aveva una sua facoltà di parlare e pensare, le altre parti del corpo, indignate che le loro cure, le loro fatiche e i loro servizi fornissero ogni cosa al ventre, mentre il ventre, standosene tranquillo nel mezzo, non faceva altro che godere dei piaceri a lui offerti, fecero tra loro una congiura decidendo che le mani non portassero più il cibo alla bocca, la bocca non lo ricevesse, i denti non lo masticassero. Mentre con questa vendetta volevano piegare il ventre con la fame, esse stesse ad una ad una e il corpo intero furono ridotti ad un’estrema consunzione. Di qui risultò evidente che anche l’ufficio del ventre non era inutile, e che era bensì nutrito, ma anche nutriva, restituendo per tutte le parti del corpo quel sangue, in virtù del quale viviamo ed abbiamo vigore, diviso ugualmente per le vene ed opportunamente trasformato dalla digestione del cibo. Testo e traduzione sono tratti da PERELLI
1974).Per il tono folklorico del testo liviano, cf. OGILVIE 1965, ad loc. (pp. 312-14), che rimanda a vari paralleli letterari, sia greci che latini, ipotizzando l’origine greca dell’apologo ed il suo ingresso nella cultura romana all’epoca in cui Fabio Pittore (contemponaeo di Plauto) componeva i suoi Annales. Lo stesso Ogilvie, però, ricorda che su tale datazione i pareri degli studiosi sono discordanti.
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quale restano in vita e nei confronti del quale, di conseguenza, devono mostrare solidarietà e spirito di collaborazione (per esempio, i ‘denti con le scarpe’ vanno a caccia proprio per sfamare Ergasilo; i denti che ‘non ci vedono più’ sono fiaccati proprio dalla debolezza generale di Curculio, ecc.).
Questo genere di personificazioni plautine, come abbiamo ricordato supra249, è già stato studiato da Fraenkel, ma il tipo di logica che stiamo qui evidenziando costituisce uno sviuppo ulteriore rispetto alle osservazioni dello studioso tedesco, il quale si limita a considerare gli elementi corporei alla stregua delle ‘cose inanimate’ (secondo una concezione ‘meccanicistica’ del corpo umano), senza cogliere la costante oscillazione fra personificazione del dettaglio e sintonia dello stesso dettaglio con la totalità dell’organismo e con le sue esigenze complessive. È invece proprio tale oscillazione che sembra costituire una delle caratteristiche peculiari del ‘corpo comico’ dei personaggi plautini.
Una ricognizione generale secondo quest’ottica delle personificazioni delle parti del corpo nell’insieme dei testi plautini fornirebbe probabilmente molto materiale di riflessione e di approfondimento, ma in questa sede non è possibile procedere oltre. Torniamo quindi all’analisi dei passi in cui Plauto nomina i denti, affrontando una nuova tematica emersa dall’indagine: il rapporto tra denti ed età dei personaggi. Abbiamo visto supra250 il momento della dentizione, l’utilizzo del verbo dentio e le credenze popolari legate a questo delicato passaggio, ma Plauto intesse una quantità di situazioni comiche, come stiamo per vedere, anche intorno al cambio della dentatura (da decidua a definitiva) e alla perdita dei denti in età senile.
249 Cf. supra, n. 244 p. 138.
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