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TO In linea generale, le caratteristiche anagrafiche e socio-culturali delle utenti appaiono determinanti nella definizione della relazione. di fatto, quanto più basso è il livello di istruzione delle donne, tanto più difficile appare la relazione tra utente e operatore. Questo è quanto ci riferisce una delle intervistate:

Sono tutte giovani. Il loro livello culturale è basso, per le nigeriane bassissimo.

Le ghanesi cominciano ad essere più regolari in Italia e hanno la licenza media, che è comunque più del livello delle nigeriane. Io qui vedo le Edo: o erano prostitute lì, o mandate qui allo sbaraglio, comunque non sanno scrivere.

E queste sono clitoridectomizzate?

Sì, hanno o la parziale o la totale. E comunque non sanno né leggere, né scrivere. Poi ci sono le nigeriane regolari che equivalgono più o meno alle ghaniane. Negli altri consultori chiedono il tuo aiuto quando sono in gravidanza, tantissimo anche quando non riescono ad avere una gravidanza. Per una donna straniera, soprattutto per le ragazze nigeriane e ghanesi che vedo io, non riuscire ad avere un bambino è una cosa molto grave.

Poi c’è sempre la richiesta per le interruzioni di gravidanza. Per quanto riguarda la contraccezione e la visita ginecologica, la donna africana si preoccupa meno della regolarità del ciclo, si preoccupa meno delle infezioni, da me non vengono mai per infezioni del tratto genitale inferiore, io non ho donne che vengono per vaginiti. Eppure abbiamo dei percorsi in consultorio anche molto celeri, nel senso che quando all’appuntamento viene chiesta la motivazione, le mie segretarie e anche le ostetriche hanno un’agenda per cui su alcuni temi l’appuntamento viene preso immediatamente. Quindi se stanno male in gravidanza, se c’è una vaginite in una fase acuta, o necessità della pillola del giorno dopo, non ci sono liste di attesa, c’è l’accesso immediato. Io non ho mai

richieste in questo senso, quindi come ginecologia ho prestazioni molto,

molto limitate, limitate prettamente all’area della sterilità.

Altre dottoresse ci hanno inoltre spiegato quanto per le donne africane, in particolare dell’Africa dell’est, la maternità sia una questione centrale nei rapporti di genere. Questo appare particolarmente vero soprattutto su due aspetti: la sterilità e l’interruzione di gravidanza. In altre parole, molte delle tensioni che si sviluppano nelle relazioni di genere riguardano proprio i comportamenti riproduttivi. Riportiamo uno stralcio di intervista nel quale tale riflessione è particolarmente articolata.

Parlando per etnia, noi vediamo soprattutto le Edo: ci sono delle realtà in cui queste donne sono assoggettate a questa cultura maschilista, quindi c’è violenza nella loro relazione, ci sono donne picchiate. Si fa molta fatica. Se pensi solo a tutti gli aborti che ho io e che veramente mi fanno star male da morire, di donne che provano a rimanere incinta perché lui possa accettare loro col bambino. Quando lui dice no, non è che la donna desiste: insiste anche per tre, quattro volte. Sono coppie che magari non sono sposate in Africa, sono insieme qui anche da anni e la donna nigeriana se dopo una certa età non ha un figlio non si sente donna, così ci prova, ci prova finché lui dice di sì e nel frattempo continua ad abortire. Quindi questo maschio è un maschio che fa di loro un po’ di tutto: dalla violenza perché le picchia, oppure il fatto di forzarla ad andare in strada, è violenza anche una donna che è costretta a continuare ad abortire finché il padre padrone non dice: “Ok adesso mi va bene avere un figlio”. Oppure tutti gli aborti perché i maschi le abbandonano. Sono tutti rapporti molto violenti, questo è quello che vedo come ginecologa, poi se intervisti l’assistente sociale senti di tutte le violenze familiari, perché noi a tutte queste donne facciamo

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fare counselling sociale, perché lavoriamo col Comune contro la tratta, siamo in rete con tutti. Poi lavoriamo con un’associazione che aiuta le donne picchiate, violentate, che fa anche da casa di accoglienza immediata, perché c’è tanta violenza. Se vai a intervistare qualcuno in Comune hanno tutta una serie di storie di bambini allontanati.

Lo stralcio di intervista riportato riflette una realtà nella quale i comportamenti riproduttivi e la salute sessuale tendono ad essere profondamente interconnessi al tipo di relazione di genere (in questo caso in maggioranza per l’etnia edo, nigeria). Tuttavia l’utenza, anche all’interno dello stesso gruppo etnico, può presentare delle diversità; soprattutto l’emancipazione economica delle donne rappresenta un nodo importante in termini di maggiore consapevolezza e tutela della salute nonché dei propri diritti.

Questo è quanto ci riporta un’intervistata sollecitata da una domanda relativa alla parità tra uomo e donna.

Secondo lei il concetto che abbiamo noi di parità uomo-donna è lo stesso?

È diverso, è molto lontano, però quando la donna rimane in Italia per tanto tempo lo acquisisce, soprattutto quelle che lavorano ed escono un po’ dal clan africano.

Ci sono quelle che non escono mai da questi clan, ma quelle che iniziano a lavorare nelle cooperative si guardano intorno eccome! E iniziano a dire che il maschio italiano è diverso, e questo succede anche alle rumene o a quelle dell’area balcanica, dove c’è un rapporto molto forte, molto violento. Signore che sono qui da tanti anni e che hanno avuto con me una o due gravidanze iniziano a dirmi quanto sia diverso e migliore il maschio italiano. Ma noi troviamo tanto disagio tra quelle che sono al di fuori dei rapporti di coppia, che magari si sono separate. Sono ragazze che si vestono come noi, hanno dei seri problemi di identità perché non stanno né da una parte, né

dall’altra. Sono queste quelle che soffrono di più in questo momento, magari più della donna sempre accompagnata dall’uomo anche se decide sempre lui, però io vedo più sofferenza in quelle che in qualche modo si sono distaccate e non sono traghettate completamente nell’altra cultura.

Il panorama risulta ulteriormente articolato se si considerano inoltre i diversi progetti migratori, le condizioni e le situazioni di vita vissute dalle donne. Il riferimento va, per esempio, alla situazione delle donne somale ed etiopi che, arrivando da sole, sviluppano progetti migratori e reti relazionali alternative a quelle dei nuclei familiari.

Questo dipende soprattutto dalla provenienza della coppia. Posso dire che le donne della Somalia e dell’Etiopia sono donne che arrivano da sole e che quindi hanno un progetto migratorio completamente diverso, sono ospitate, quindi sono accompagnate dalle operatrici. La loro vita è tra di loro e tra loro c’è una buona relazione. Poi spostandoci nella realtà veneziana, ma restando tra le donne africane, perché da noi c’è una grandissima affluenza anche di donne dell’Est,

delle Filippine e dello Sri Lanka - ci sono le donne tunisine che io vedo che sono autonome, accedono ai servizi da sole. I rapporti coi loro mariti sono

sufficientemente alla pari direi, quindi non c’è questa dipendenza dal marito, non vengono accompagnate da loro, non sono “mediate” da loro. Le loro scelte rispetto alle loro azioni sono scelte autonome, sono donne che lavorano, quindi si pongono in una maniera direi sufficientemente paritaria.

La riflessione sopra riportata evidenzia ancora l’aspetto dell’emancipazione economica e di quanto risulti cruciale l’acquisizione di un’autonomia. di fatto, l’accesso a un reddito e la conseguente assenza o rottura

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TO una maggiore disponibilità e libertà di relazione anche nei confronti degli stessi servizi, che in simili circostanze riescono a erogare un servizio migliore. Attraverso le interviste abbiamo potuto inoltre individuare tre elementi critici principali che caratterizzano il rapporto delle utenti con i servizi e viceversa. Il primo fa riferimento alla sfera comunicativa, ossia alle difficoltà legate alla lingua. Il secondo fa riferimento alla scarsa conoscenza delle diverse culture africane da parte degli operatori e della cultura dei servizi italiani da parte delle africane. Il terzo alla sfiducia nei servizi da parte delle donne.

In questa direzione vanno le riflessioni di una delle intervistate.

È importante chi accoglie: se un servizio non ha una buona accoglienza, loro non si sentono a loro agio. Non vengono da te pensando che tu puoi fare grandi cose per loro, sono abbastanza diffidenti, questo me lo dice anche la mediatrice culturale. Mi riferisco in particolare all’area nigeriana.

È bene tuttavia evidenziare come l’utenza non si definisca solo in questi termini. Le intervistate hanno infatti esposto una realtà nella quale accanto ad una popolazione femminile profondamente limitata dallo scarso livello di istruzione e integrazione, segnata da rapporti di genere non paritari, tendenzialmente violenti, vi sia anche un’altra tipologia di utenza, che vede sia le donne che gli uomini africani in un continuo dialogo con la propria cultura e con il contesto culturale di arrivo. In altre parole, è viva la percezione della presenza di uomini che partecipano, che manifestano sensibilità e che appartengono a ceti che permettono una elaborazione del progetto migratorio orientata alla piena integrazione. Anche quando l’uomo è assente nel momento del contatto tra la donna e il

servizio sanitario, l’impressione è che laddove vi è integrazione, questa assenza non sia voluta, ma sia ad esempio imputabile al fatto che nelle comunità africane l’occupazione maschile è molto più radicata di quella femminile e perciò la donna si reca da sola al consultorio semplicemente perché il marito non può accompagnarla.

Molto spesso le donne vengono a gruppetti di due, tre.

Se questo è dunque il panorama generale restituitoci dalla realtà dei servizi, vediamo ora quanto è emerso in merito alla specifica questione delle MGF. Anche in questo caso, la diversità

geografica delle utenti africane è decisiva, perché delinea la tipologia di mutilazione osservata dal personale sanitario. Vi è da sottolineare peraltro che le testimonianze ricavate dalle interviste con il personale sanitario documentano la presenza nel nostro territorio di donne africane sottoposte a MGF in patria in giovanissima età. Si tratta sempre di persone adulte, sulle quali l’intervento mutilatorio è stato praticato parecchi anni addietro; le donne, al momento della visita, non dichiarano di averlo effettuato, probabilmente anche consapevoli del fatto che, in certi casi, la rilevazione può risultare difficile per la scarsità degli esiti registrabili sulla morfologia dei genitali esterni femminili. Le intervistate e gli intervistati hanno riferito le maggiori tipologie di mutilazione delle quali sono a conoscenza attraverso la loro attività. emerge che le mutilazioni più comuni sono riconducibili a quelle praticate sulle donne del corno d’Africa, il cui numero peraltro è in diminuzione, e le mutilazioni definite “minori” sono praticate sulle donne provenienti dall’Africa dell’est. Rispetto a queste ultime, si sono rilevati alcuni elementi particolarmente critici sui quali occorre riflettere.

di seguito riportiamo le osservazioni di una delle intervistate.

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Anche per i ginecologi, a meno che non si tratti di una mutilazione maggiore che quindi è assolutamente ineludibile, quando si tratta di clitoridectomia, parziale ablazione delle labbra, i segni non sono così evidenti. Inoltre nelle persone giovani difficilmente si riscontrano dei processi patologici nei genitali esterni, ragion per cui non sono più di tanto oggetto dell’attenzione del ginecologo, che invece rivolge di più l’attenzione al collo dell’utero per la prevenzione dei tumori, l’utero stesso per controllare se ci sono dei fibromi, alle ovaie per le irregolarità mestruali. In ambito universitario, quando mi sono laureata io, non se ne parlava. Ho iniziato ad occuparmi di questa problematica quando ero in Parlamento: sono stata in parlamento per tre anni. C’era un gruppo di parlamentari che si occupavano di MGF all’interno del Ministero delle Pari opportunità e io ne ho fatto parte. Lì è cominciato un interesse “indotto”, però a quel tempo (eravamo nell’89-’90), il problema della presenza degli stranieri, perlomeno in territorio veneziano, era molto relativo. Non era così a Roma e Torino però. Comunque all’epoca non era una cosa di cui si sentiva, non era una cosa che ci si trovava ad affrontare dal punto di vista professionale. Da allora però ci sono stati vari convegni e si è accentuata, per quello che riguarda il mio processo personale di apprendimento, un’attenzione maggiore proprio per vedere di riconoscerle e

di poterne dar conto, in modo che emergesse e non rimanesse un fenomeno sommerso. Io di solito me ne accorgo perché ci sto attenta e normalmente nelle ragazze del Delta State è pratica frequente.

È pratica frequente la clitoridectomia?

Sì.

O anche l’ablazione delle piccole labbra?

Tutt’e due. Non totale e in genere viene fatta in maniera artigianale, non è che si può affermare che sia un’operazione che viene fatta chissà quanto bene.

Che età hanno queste ragazze?

Beh, quelle che vedo io sono tutte molto giovani, tra i 20 e i 30 anni.

Si rileva dunque la non ovvietà dell’osservazione di una mutilazione. contrariamente a quanto accade con l’infibulazione, una lieve mutilazione non lascia molte tracce e risulta pertanto difficile da individuare. In tal senso si esprime una delle dottoresse intervistate:

Intanto io credo che noi non ci rendiamo sempre conto di quando loro hanno avuto la mutilazione genitale, perché a volte le mutilazioni sono per così dire “minori”, non sono devastanti, non cambiano l’anatomia in modo così evidente da darci certezza dell’avvenuta mutilazione. Sono solo alcune che subiscono quella mutilazione importante, in cui poi viene fatta una sutura, in cui in qualche modo vengono chiuse le labbra e avvicinate tanto da lasciare un piccolissimo pertugio. Quelle sono veramente poche. La maggior parte subisce delle mutilazioni (ci sono vari gradi di gravità delle mutilazioni) minori, per cui quando le vedi hai idea che ci possa essere stato qualcosa, ma non ne hai la certezza. Allora glielo chiedi. Quando ti rispondono “Sì”, ok. Ma quando ti rispondono “No”? Non sempre è chiarissimo. La maggior parte di quelle che vedo io sono nigeriane e quindi per le nigeriane posso dirlo con una certa sicurezza, con una buona convinzione. Non ho un campione abbastanza numeroso per poter estendere il discorso ad altre etnie. La mia impressione è questa: che una donna che ha subíto una mutilazione genitale sa che qui è una cosa poco accettata e quindi se la mutilazione non è così evidente, è possibile che la neghi per non dover discutere. Io ho avuto questa impressione.

Che tipo di mutilazione è quella minore?

Quando tagliano il cappuccio del clitoride o una parte del clitoride o tutto il clitoride, non è facile verificare se ci sia stata una

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TO mutilazione o no. Ci sono delle volte che è chiuso, ma non è chiuso del tutto e tu ti dici: “Boh?”. Non è sempre facile. Poi dipende molto dalla sensibilità delle persone e dalle occasioni, perché una donna si può visitare senza neanche guardare se ha subíto una mutilazione genitale, come dicevo quelle minori possono passare via senza che neanche ci si accorga, ci si accorge di quelle chiuse.

La criticità delle mutilazioni minori, tecnicamente definite Sunna, sta dunque nella difficile rilevazione, resa ancora più improbabile dal fatto che molte volte è lo stesso operatore o operatrice sanitaria che non pone la verifica della pratica tra i possibili controlli da effettuare nella visita. Le MGF passano dunque inosservate e in tal modo sono difficilmente definibili anche in termini quantitativi. Va da sé che se non si ha una conoscenza specifica, come quella dimostrata da quelle intervistate che hanno avuto esperienze professionali in alcuni dei paesi africani ove la pratica ha una certa rilevanza, il fenomeno resta sommerso.

In questa direzione va anche la seguente testimonianza.

Io sono stata in Africa da appena laureata e ho lavorato in due regioni diverse, cioè in Mali, dove ero in ginecologia e ho visto le grosse escissioni, e poi in Mozambico, dove comunque c’erano meno problemi di mutilazioni. Poi, in conseguenza del fatto che dagli anni ’90 sono al

consultorio e lavoro soprattutto con le donne straniere, ho visto le donne che sono qui in Italia. Qui in Italia non parlano del loro problema. Loro vengono qui come le donne normali.

Lei vede donne nigeriane e ghanesi?

Sì.

Con mutilazioni?

Sì. Però piccole. La maggior parte sono escissioni parziali del clitoride o escissione

del clitoride. Altro qui non si è mai visto. A Vicenza ho visto un caso o due di somale con escissioni totali.

Se dunque la verifica della pratica appare in alcuni casi difficile, altrettanto si presenta la possibile rilevazione della reiterazione sulle bambine. Ancora una volta, tra le questioni nodali c’è la difficoltà di accedere ad informazioni difficili da reperire. Alcune delle intervistate hanno infatti riportato le difficoltà incontrate nel tentativo di verificare attraverso domande all’utente l’esistenza o meno della pratica, nonché l’intenzione di reiterarla sulle bambine.

Quando la mutilazione è minore la mia sensazione è che le donne tante volte ti dicano: “Non mi hanno fatto niente”. Io chiedo sempre: “Lei è stata operata da bambina, le è stato fatto qualcosa qui da bambina?”. Loro mi dicono di sì quando è talmente evidente che non si può negare, e secondo me qualche volta mi dicono di no, anche se hanno subíto una mutilazione. Perché quando la mutilazione è minore, loro si rendono conto che forse possono anche dire che non è successo niente, senza che io possa dire: “Eh no signora, lei non me la racconta!”. Io comunque non lo farei perché non si può essere invadenti in questa area, se una preferisce tenersi le cose per sé. È che comunque il motivo per cui lo chiedo, soprattutto quando sono incinte, è capire che intenzione hanno in riferimento alle figlie. E quindi è lì che il discorso va sempre aperto. Certo, se loro non vogliono aprirlo non puoi mica obbligarle. Le donne sono diverse, molte ti dicono: “Sì, io ho subíto questa cosa ma non la farò a mia figlia! Perché ci sono stata male, perché ci sto male ancora, perché non ci credo”. Altre ti dicono “Non l’ho subíta”, per esempio quando è una cosa un po’ più piccola e così con quello ti chiudono un po’ la bocca. Altre ti dicono: “Sì” e quando tu apri il discorso sulle figlie, loro ti dicono: “No, io non farò niente”, con un altro livello di convinzione però

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rispetto a certe che ti dicono: “Non lo farò mai a mia figlia perché sono stata male”. Ogni donna è diversa. Cioè, io non mi sento di dire che ci sia una tendenza delle donne a fare una cosa o un’altra. Tra quelle con cui io ho parlato sono più quelle che mi hanno detto che non lo faranno alle figlie, però non giurerei che quello che ti dicono sia poi sempre quello che pensano. Perché in fin dei conti loro possono anche pensare: “Sono fatti miei”. Io credo che l’unico modo sia cercare di stabilire con loro un rapporto interpersonale di fiducia reciproca e allora te lo dicono, e ci vuole tempo. Le africane sono donne che

comunicano molto, le donne dell’Africa nera, molto più che quelle del Nord dell’Africa, che sono molto più chiuse, molto più restie (non tutte però, un po’ alla volta anche loro “mollano”). Diciamo che le donne dell’Africa nera sono molto più espansive,