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TO una forte critica anticoloniale, nella quale la violazione dei diritti delle donne sfuma tra le innumerevoli alterazioni sociali, culturali e tradizionali causate dal dominio culturale occidentale.

I diritti delle donne, schiacciati dalle strutture coloniali, non appaiono dunque sproporzionatamente violati rispetto ai diritti umani di tutti gli africani.

La questione peraltro può riguardare sia i diritti individuali che quelli dei popoli. È così che si può spiegare la visione di molti intervistati e intervistate che distinguono tra approccio occidentale e africano ai diritti e al ruolo delle donne. In linea generale tuttavia si può dire che la condanna verso le MGF, seppur sganciata dal discorso dei diritti umani e della discriminazione nei confronti delle donne, è unanime. ciò ovviamente non significa la totale dismissione della pratica, ma sicuramente è possibile parlare dell’esistenza di una tendenza a considerare il processo migratorio come un momento in cui l’adattamento al nuovo ambiente e l’integrazione verso modelli di famiglia e di rapporti di genere marcati, anche sul piano giuridico, in termini di diritti individuali e di maggiore parità, assumono una rilevanza tale da indurre di fatto ad un ripensamento di quegli usi e costumi che, nel contesto europeo, non possono ovviamente avere gli stessi significati rinvenibili nei paesi di origine. Quanto rilevato nella ricerca sembra comunque delineare un panorama nebbioso nel quale si possono scorgere solo indizi della portata del fenomeno. Le diverse realtà di ogni singolo paese africano e il silenzio che avvolge la pratica hanno contribuito a sfumare le conoscenze, le percezioni e di conseguenza anche gli atteggiamenti degli africani e delle africane in merito alle MGF, pur riconoscendo nella tendenza all’abbandono un dato in via di affermazione.

In questa prospettiva tuttavia vanno evidenziati i limiti di in approccio “settoriale” al problema, inteso come risolutivo, si tratti dell’approccio diritti umani, così come di quello collegato alla violenza e alle implicazioni per la salute riproduttiva. Questi discorsi e dispositivi non sembrano essere sufficienti per sviluppare un atteggiamento fermo e deciso, da parte degli immigrati africani, contro la pratica.

Tale atteggiamento sembra invece richiedere, per affermarsi, un processo di acquisizione di consapevolezza più aderente alle connaturate trasformazioni di ogni sistema di valori di riferimento, così come ai mutamenti fisiologici dei diversi contesti socio-culturali. La cultura è ed è sempre stata essenziale per lo sviluppo, in quanto rappresenta una dimensione fisiologica e fondamentale dell’esistenza. L’aver scelto di leggere il fenomeno delle MGF adottando la lente dei diritti umani non è in contrapposizione a tale assunto. Adottare la lente dei diritti umani delle donne implica infatti assumere la portata universale di questo paradigma e, nel contempo, considerare la rilevanza delle diverse sensibilità culturali entro le quali possono trovare attuazione le esperienze concrete di promozione dei diritti umani in generale, e dei diritti delle donne in particolare.

In questo senso è importante capire come interagiscono le varie culture e come operare attraverso di esse, tenendo conto della loro funzione nel disegnare l’insieme dei valori, delle credenze e dei costumi di cui le diverse comunità sono portatrici e attraverso i quali gli individui gestiscono la propria vita e interpretano la propria società, senza peraltro che ciò significhi o implichi uniformità di pensiero o di comportamento.

Intendere la cultura come un dato uniforme e immutabile significa ignorare l’influenza della globalizzazione e, in

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particolare, il ruolo dei processi migratori nel presente, nonché trascurare le influenze del passato e della storia. Leggere invece le culture come dimensioni in continua evoluzione e in rapporto tra loro, e i diritti come

creazioni storiche continuamente ridefinite a livello transnazionale, così come nelle dimensioni locali, permette di comprendere meglio l’impossibilità di separare in modo netto cultura e diritti o di concepire relativismo e universalismo come situazioni

diametralmente opposte e incompatibili. È nel quadro di un approccio basato sulla sensibilità culturale e sul dialogo interculturale che va ad inscriversi l’ottica di genere.

L’analisi di genere, proprio per il suo intrinseco carattere relazionale, è fondamentale per comprendere l’esperienza dei diritti che le diverse categorie di uomini e donne, bambini e bambine sviluppano nel corso della loro esistenza. Un approccio ai diritti declinato in un’ottica di genere richiede una lettura action oriented, vale a dire un’interpretazione volta alla promozione dei diritti, in quanto strumento politico nelle strategie di progresso sociale. La prospettiva di genere nel quadro del paradigma diritti umani può rappresentare uno strumento per analizzare valori, comportamenti, azioni politiche e decisioni programmatiche e individuare come essi agiscano nel determinare l’esclusione o la discriminazione di alcune persone, o nel privilegiarne altre; permette inoltre di studiare le forme complesse, multiple o composte di differenziazione/ discriminazione generate dall’effetto sommatorio o moltiplicatorio di tipologie diverse di “vulnerabilità” di matrice individuale e collettiva.

Un’analisi dei diritti in un’ottica

di genere mette in luce, essenzialmente, le differenze individuali e di gruppo in

relazione alle diverse posizioni che i singoli occupano nella società in dipendenza dai loro ruoli e dalle risorse che detengono. Le difficoltà ad interpretare il paradigma diritti umani come la chiave entro la quale proporre un discorso di cambiamento circa la pratica delle MGF sono state rilevate sia attraverso le interviste singole, sia nei focus group con gli uomini e le donne africane. non si può infatti negare l’esistenza di uno spazio di tolleranza “culturale” nei confronti della pratica. Su questo margine di tolleranza bisognerebbe, a nostro avviso, operare delle riflessioni, in particolare sull’atteggiamento che, dietro un preteso relativismo culturale e una militanza nei confronti dei diritti della cultura, confonde la perpetrazione di una violenza con la libera espressione di una tradizione e di un’usanza. A questo proposito però è utile ricordare che anche dalle stesse interviste si può evincere l’importanza della dimensione temporale relativamente al processo di dismissione delle MGF e della necessità di intervenire utilizzando strumenti di comunicazione che siano efficaci e percepiti dai destinatari come tali da coinvolgere la dimensione di comunità. Va ricordato a questo proposito che già oggi sono in netta maggioranza coloro che, anche nei paesi africani, condannano la pratica, a sostegno della quale non vale pertanto alcun alibi di tipo culturale.

non vi sono dubbi, comunque, sul fatto che le MGF facciano parte di quel nucleo di tradizioni che accompagna gli immigrati africani in Veneto, soprattutto in alcuni gruppi, come ad esempio le comunità nigeriane, per le quali si può supporre una certa tendenza a perpetuare interventi mutilatori, le cui conseguenze sul piano fisico peraltro sono risultate spesso così irrilevanti, nelle donne adulte portatrici, da poter essere difficilmente identificabili anche dagli stessi sanitari.

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TO È proprio sulla base di questa

osservazione che si ritiene importante sviluppare un intervento congiuntamente ai mediatori culturali.

L’indagine condotta ha svelato uno scenario di possibili azioni nelle quali il ruolo dei mediatori e dei rappresentanti di comunità è apparso fondamentale. È bene evidenziare infatti come la familiarità dei mediatori e dei rappresentanti di comunità con le diverse popolazioni africane del territorio fornisca loro la possibilità di parlare un linguaggio che simbolicamente e praticamente diventa uno strumento fondamentale per veicolare un discorso sui diritti, sulla parità e sulle trasformazioni dei ruoli di genere nella diaspora. In tal senso, il ruolo dei mediatori risulta essere quello di mettere i soggetti di fronte ad una riflessione critica che possa guidare ad una decisa presa di posizione rispetto all’abbandono della pratica.

L’incontro con i mediatori e le mediatrici ha ribadito però quanto la cultura dei diritti umani sia avvolta da poca chiarezza e sia percepita come estranea da queste comunità. Questa è probabilmente una delle chiavi interpretative con cui leggere lo sguardo sospettoso di coloro i quali intravedono nella proposta dei diritti umani una sorta di intromissione ingiustificata della cultura occidentale e un attacco alla tradizione. d’altro canto però vi è da registrare che la centralità della mediazione culturale nell’azione contro le MGF è emersa anche dalle interviste con gli operatori socio-sanitari e con le forze dell’ordine. Si tratta evidentemente di un dato maturato nel confronto con altre esperienze che hanno avuto come protagoniste le comunità migranti. di fatto, l’intervento e il lavoro con i mediatori culturali appare essere di fondamentale importanza per veicolare tutta una serie di messaggi che diversamente non pare possibile trasmettere.

Questo tipo di atteggiamento, emerso peraltro anche in occasione del II incontro del Tavolo sulle MGF organizzato dalla Regione Veneto nel dicembre del 2008, apre indiscutibilmente a quesiti importanti circa la significatività del discorso dei diritti umani in questi contesti, soprattutto con riferimento alla loro universalità. Proprio a partire da questo dato dovrebbe svilupparsi un percorso di azione che, prendendo le mosse da una riflessione specifica sul significato dei diritti umani rispetto alle MGF, permetta una riflessione complessiva sul significato valoriale del paradigma diritti umani.

Quanto rilevato suggerisce però la necessità di un passaggio preliminare. Occorre cioè sviluppare un nuovo orizzonte conoscitivo circa l’iscrizione di una serie di questioni al paradigma diritti umani e veicolare in maniera forte la valenza universale di questo paradigma per poter arrivare ad una comunicazione reale con le popolazioni africane. È evidente che la distanza che queste comunità avvertono rispetto ai diritti umani è anche il prodotto di integrazioni difficili se non mancate, o comunque il punto di vista di soggetti che si misurano con politiche migratorie che di fatto non riconoscono nei processi di accoglienza un passaggio fondamentale per una corretta e piena integrazione. La necessità di dismettere la pratica delle MGF, pur se condivisa, rischia di essere interpretata come un’ingerenza di organismi e culture lontani, e assimilata a pratiche di colonizzazione, sebbene da parte delle donne la consapevolezza del bisogno di riappropriarsi del proprio corpo e di rivedere in chiave paritaria i rapporti uomo-donna sia avvertita con forza. nel 2005, secondo le stime dell’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), il numero dei migranti internazionali aveva già oltrepassato la

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soglia dei 190 milioni; di questi quasi la metà è costituita da donne. La migrazione è un’esperienza complessa, con importanti ricadute sia per le comunità e i paesi di origine sia per quelli d’accoglienza, oltre che per le soggettività direttamente coinvolte nei processi migratori. nel corso del tempo, la migrazione favorisce lo sviluppo di cambiamenti anche radicali a livello culturale: i sistemi di valori e le norme comportamentali di riferimento, entrando in contatto con gli stili di vita dei paesi di accoglienza progressivamente si ibridano, permettendo lo sviluppo di approcci diversi anche ai diritti umani e all’uguaglianza di genere.

Le politiche migratorie dei paesi di destinazione possono promuovere l’integrazione, le strategie per la gestione delle diversità e lo sviluppo del dialogo interculturale. La società civile può dare il proprio contributo sfatando miti e non alimentando pregiudizi, fornendo ai migranti tutte le informazioni sui servizi cui possono accedere e invitandoli a partecipare al processo di integrazione. L’esigenza di lavorare dal basso per diffondere la cultura dei diritti umani e la dismissione delle pratiche di MGF è emersa con forza nel corso dei lavori del II Tavolo regionale. Proprio in quell’occasione, da parte dei rappresentanti di comunità sono arrivati alcuni suggerimenti sull’importanza della comunicazione e sul linguaggio da utilizzare per veicolare il valore della proposta dei diritti umani relativamente alla pratica delle MGF, a partire dalla necessità di non isolare questa pratica dal contesto entro la quale si inscrive.

Per quanto concerne l’indagine rivolta al mondo socio-sanitario, le interviste condotte con medici ginecologi di reparto e dei consultori dei maggiori centri urbani del Veneto, oltre che con ostetriche e assistenti socio-sanitarie, hanno esplorato alcuni degli aspetti che abbiamo ritenuto

importanti ai fini della nostra ricerca: le peculiarità che caratterizzano la relazione delle donne africane provenienti dai paesi da noi individuati come rappresentativi per la ricerca con i servizi socio-sanitari; le differenze che definiscono il rapporto con le donne africane secondo le diverse provenienze; le difficoltà rilevate nel rapporto che queste donne hanno con i servizi sanitari del territorio; la conoscenza della cultura di provenienza delle donne africane e le rispettive configurazioni dei rapporti di genere; la conoscenza della pratica delle MGF tra il personale sanitario. È emerso che la maggioranza della popolazione femminile africana che si rivolge ai consultori proviene da nigeria, Ghana, Senegal e solo in minima parte dai paesi del corno d’Africa, rispecchiando dunque la composizione femminile della popolazione africana immigrata nel Veneto.

In base a quanto rilevato dalle interviste, appare evidente come la provenienza geografica tenda a caratterizzare non solo il diverso rapporto con i servizi, ma anche la tipologia di intervento richiesto. dalle interviste emerge come la maggioranza delle utenti provenienti dall’Africa occidentale, e in particolare dalla nigeria, si rivolga ai servizi prevalentemente per problematiche legate alla gravidanza e al parto. I medici intervistati ci hanno infatti riferito come difficilmente queste utenti partecipino o usufruiscano di interventi di prevenzione o più semplicemente dei diversi progetti di percorso nascita attivi in tutti i consultori del territorio. È quindi un’utenza

con la quale generalmente si lavora sull’emergenza, sulla patologia avanzata o in prospettiva del parto.

Le caratteristiche anagrafiche e socio-culturali delle utenti appaiono determinanti nella definizione della

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TO relazione. di fatto, quanto più basso è il livello di istruzione delle donne, tanto più difficile e casuale appare la relazione tra utente e operatore. dalle interviste è inoltre emerso che per le donne africane la maternità costituisce una questione centrale; questo fatto riflette una realtà nella quale i comportamenti riproduttivi e la salute sessuale tendono ad essere profondamente interconnessi a modalità relazionali con l’uomo caratterizzate da rapporti fortemente discriminanti, dove la capacità riproduttiva delle donne è vista soprattutto come capacità di poter stare con un uomo in ragione della propria fertilità. Tuttavia anche all’interno dello stesso gruppo etnico l’utenza può presentare delle diversità, che vedono nell’emancipazione economica e culturale delle donne un nodo importante in termini di maggiore consapevolezza e tutela della salute, nonché dei propri diritti.

Il panorama risulta ulteriormente articolato se si considerano i diversi progetti migratori, le condizioni e le situazioni di vita vissute dalle donne. Il riferimento va, per esempio, alla situazione delle donne somale ed etiopi che giungono in questo territorio sulla base di progetti migratori e reti relazionali alternative a quelle dei nuclei familiari. In più, l’accesso a un reddito e la conseguente assenza o rottura di dipendenza economica sembra favorire una maggiore disponibilità e libertà di relazione anche nei confronti degli stessi servizi che, in simili circostanze, possono erogare un servizio migliore e costruire con le utenti un rapporto non meramente occasionale.

Attraverso le interviste abbiamo potuto inoltre individuare tre maggiori elementi critici che caratterizzano il rapporto delle utenti con i servizi e viceversa.

Il primo fa riferimento alla sfera comunicativa, ossia alle difficoltà legate

alla lingua. Il secondo fa riferimento ad un non adeguato livello di conoscenza delle diverse culture africane da parte degli operatori sanitari, sebbene l’utenza straniera costituisca oggi un target significativo rispetto al quale tutti i medici intervistati hanno dichiarato un grande interesse e messo in luce la necessità di approfondire le problematiche sanitarie e umane che derivano dalla frequentazione dei servizi da parte di queste nuove utenti. Peraltro anche la non conoscenza dei servizi presenti nei diversi territori o la non dimestichezza con questi da parte delle donne africane rende ovviamente difficile il loro rapporto con il personale medico. Il terzo elemento attiene ad una generale sfiducia nei confronti dei servizi da parte di molte di queste donne.

È bene tuttavia evidenziare come l’utenza non si definisca solo in questi termini. Le intervistate hanno infatti descritto una realtà nella quale, accanto ad una popolazione femminile profondamente limitata dallo scarso livello di istruzione e integrazione, segnata da rapporti di genere non paritari, tendenzialmente violenti, vi è anche un’altra tipologia di utenza che vede le donne e gli uomini africani in un continuo dialogo sia con la propria cultura, sia con il nuovo contesto culturale di arrivo. Un indicatore della volontà di instaurare anche con i servizi del territorio una relazione orientata all’integrazione è sicuramente rappresentato da un lato dalla frequentazione seppur non sistematica da parte delle donne africane di alcuni servizi in particolare, dall’altro dall’assenza spesso involontaria dell’uomo nel momento del contatto da parte delle donne con i servizi, assenza frequentemente riconducibile a ragioni collegate alla sovrapposizione tra orari di apertura al pubblico dei servizi stessi e attività lavorativa.

Rispetto alle MGF, la diversità

geografica delle utenti africane delinea evidentemente la tipologia di mutilazione

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osservata dal personale sanitario. Le intervistate e gli intervistati hanno riferito le maggiori tipologie di mutilazione delle quali sono a conoscenza, in quanto oggetto di studio o perché incontrate nei contatti con l’utenza. emerge come le mutilazioni più comuni siano quelle praticate sulle donne del corno d’Africa, peraltro sempre meno presenti e proprio per questo poco conosciute dai sanitari intervistati, e quelle definite “minori” delle donne provenienti dall’Africa Occidentale. Piuttosto significativa è la non ovvietà della rilevazione della pratica anche quando la donna vi è stata sottoposta. ciò evidentemente in ragione delle deboli tracce che certe pratiche lasciano e della conseguente difficoltà a rilevarle nel corso delle visite. contrariamente a quanto accade con l’infibulazione, tutti i sanitari concordano sul fatto che un lieve intervento non necessariamente lascia tracce evidenti, soprattutto se eseguito nei primissimi anni d’età. La criticità delle MGF minori, tecnicamente definite sunna, sta dunque nella difficile rilevazione, resa ancora più improbabile dal fatto che molte volte è lo stesso operatore o operatrice sanitaria a non verificare se effettivamente la pratica è stata effettuata, trattandosi di episodi che se sono accaduti risalgono al periodo dell’infanzia o ai primi mesi di vita e che comunque possono non comportare complicanze particolari dal punto di vista clinico. Le MGF possono pertanto passare inosservate e dunque sono difficilmente definibili anche in termini quantitativi.

Se la verifica delle MGF appare in alcuni casi difficile, altrettanto complicata è l’indagine sulla reiterazione della pratica sulle bambine. Ancora una volta, tra le questioni nodali c’è la difficoltà di accedere ad informazioni pragmaticamente e simbolicamente celate. Alcune delle intervistate hanno infatti espresso le difficoltà incontrate nel tentativo di

verificare attraverso domande all’utenza l’esistenza o meno della pratica nonché l’intenzione di reiterarla sulle bambine. Tendenzialmente, si ricava dunque l’impressione che le MGF nei servizi sanitari si collochino in una dimensione di presunta assenza e che pertanto siano oggetto di un’attenzione e

problematizzazione che tende ad essere limitata. di fatto, con l’eccezione degli operatori e delle operatrici con esperienze dirette e con particolari “sensibilità”, si rileva uno stato di conoscenza ridotto, complessivamente insufficiente a comprendere sia il fenomeno delle MGF nella sua generalità, sia la possibile dimensione quantitativa di queste pratiche nel nostro territorio regionale in relazione ai diversi gruppi nazionali ed etnici. Un discorso diverso meritano ovviamente i casi nei quali gli operatori sono di fronte all’infibulazione. Infatti le implicazioni derivanti da eventuali interventi

di deinfibulazione e reinfibulazione posso porre alcuni dilemmi che interagiscono direttamente con la normativa italiana del 2006. Tuttavia, dalle interviste realizzate è emerso come gli interventi di reinfibulazione, specificamente su richiesta delle utenti, siano pressoché assenti. di fatto però, le implicazioni e le