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DIALOGARE TRA NEMIC

Nel documento Uomini contro (pagine 95-107)

Dialogare tra nemici non è cosa troppo consueta. Si dialoga tra ami-

ci, mentre tutt’al più si parla con, o meglio ancora, si parla ai nemici: ci

si rivolge loro, talvolta per minacciarli, talaltra per schernirli, talaltra an- cora, è vero, per giungere alla pace o a un accordo. E in particolare tra popoli che hanno una comunanza di lingua, come sono gli abitanti delle diverse regioni della Grecia, secondo il persiano Mardonio presentato da Erodoto (7.98.2), le controversie dovrebbero essere risolte «servendosi di araldi e di ambasciatori e in qualunque modo piuttosto che con la guerra». Ma, come si vede, anche se la specificazione «e in qualunque modo» lascia intuire pure altri indefiniti spazi di costruzione della pace, i colloqui e gli accordi sono affidati innanzitutto a rappresentanti istitu- zionali (o personaggi particolarmente dotati nell’arte della homilia, ov- vero della relazione e conversazione, come Arato di Sicione)1, che cer- to agiscono per conto della loro patria, ma – e non potrebbe essere diversamente per un quadro dell’apparato politico-militare dell’impero persiano come il generale Mardonio – all’interno di una cornice diplo- matica che costituisce un filtro rispetto al rapporto diretto tra i soldati delle due parti. Insomma, di solito non si dialoga direttamente tra nemi-

ci ma, caso mai, si manda ufficialmente qualcuno a parlare con i nemi-

ci. Tuttavia, non bisogna arrivare alla prima guerra mondiale per scopri- re che le cose possono andare anche molto diversamente e che, nell’incontro faccia a faccia, i combattenti di parte avversa possono em- paticamente riconoscersi l’un l’altro come membri di un’unica famiglia e perfino solidalizzare tra loro2.

1 Cfr. A. Cozzo, Come evitare le guerre e rendere amici i nemici. Forme della di- plomazia nella Grecia antica, «Hormos» n.s. 1, 2008-2009, pp. 13-34 (num.

mon., edd. D. Bonanno, R. Marino, D. Motta, che raccoglie gli Atti delle Gior- nate di studio Guerra e diplomazia nel mondo antico), part. pp. 19 ss. 2 E questo, nonostante nel bellissimo libro di M. Jürgs, La piccola pace nella

Nell’Iliade, un Greco (e poco importa qui che si tratti in realtà del dio Ermes che si spaccia per un guerriero greco) può dire al suo indifeso ne- mico Priamo, sorpreso mentre si reca al campo acheo per chiedere la re- stituzione del cadavere di Ettore: «orbene, io non ti farò nulla di male, e anzi ti voglio difendere dagli altri: al caro padre ti trovo somigliante» (24.370-371). Poi comincia un dialogo che porterà il dio, sempre sotto mentite spoglie, a scortare il vecchio re nel campo greco. E alla tenda di Achille, immediatamente Priamo si rivolge al suo nemico invitandolo a ricordarsi del padre, a lui coetaneo (24.485), e appunto in nome di quel- lo gli chiede di avere pietà di lui e rendergli il corpo di Ettore (501-504). Così, commenta Omero, «gli fece nascere desiderio di piangere il pa- dre» (507), ed entrambi si diedero alle lacrime.

Si potrà pensare che questo è un caso molto particolare: Priamo non è armato ed è un vecchio da cui certo il giovane di cui Ermes veste i pan- ni non potrebbe temere alcun danno; per di più, l’episodio è ‘letterario’, dunque finto. Si ricordi però, innanzitutto, che il mondo epico è un mo- dello, e la dichiarazione del guerriero acheo deve avere quindi non solo una qualche verisimiglianza ma anche un valore paradigmatico. Dun- que, se si vede nel nemico – sia pure in un nemico al momento inoffen- sivo – il volto di un familiare, lo si dovrà aiutare: questa sembra essere la regola illustrata dal racconto. Ma, beninteso, vale anche la regola complementare: se non si vede nel nemico il volto del familiare è legit- timo ucciderlo.

In secondo luogo, indaghiamo se una dinamica di incontro tra nemici non possa instaurarsi anche nel momento in cui, entrambi armati, essi si- ano già pronti ad uccidersi e, però, proprio un attimo prima, prendano la parola per dirsi i loro nomi e la loro genealogia. È il caso che, ancora in Omero, si verifica quando ad affrontarsi sono il troiano Glauco e il gre- co Diomede. A parlare per primo è il greco, preoccupato di una preoccu- pazione doppia e opposta: che egli si possa trovare a combattere, senza saperlo, con qualche dio che ha preso sembianze umane, o che il suo av- versario sia uno di ignobili natali e dunque indegno di lui e della sua lan- cia (Il. 6.23-143)3. Segue il lungo discorso di autopresentazione del suo

p. 41, si possa leggere che «nella storia delle guerre mai fino ad allora si erano verificati simili episodi di fraternizzazione».

3 Cfr. F. Létoublon, Défi et combat dans l’Iliade, «REG» 96, 455-459, 1983, pp. 27-48, part. p. 36: «Du point de vue des combattants, l’exposé généalogi- que a donc pour fonction de garantir que l’on ne va s’attaquer ni à un immor- tel, ni à un hôte que l’on n’aurait pas reconnu; c’est cette fonction qui expli- que son caractère rituel et sa présence constante dans les paroles de défi entre

A. Cozzo - Dialogare tra nemici 97 nemico (145-212) che porta al nuovo atteggiamento di Diomede. Que- sti, infatti, dopo avere conosciuto l’identità del suo avversario, depone il precedente senso di disprezzo nei confronti di un eventuale ignobile av- versario, e con esso depone anche le armi perché grazie alle parole dell’altro ha scoperto di avere di fronte qualcuno non solo di nobili ori- gini ma anche legato a lui da vincoli di ospitalità:

«gioì Diomede forte nel grido, e piantò la lancia nella terra nutrice di molti, e parlò con parole di miele al pastore di eserciti: “Ma dunque tu sei a me antico ospite paterno! [...] evitiamo le armi l’uno dell’altro anche nella mischia: ci sono infatti per me molti Troiani e alleati illustri da uccidere [...], e anche per te ci sono molti Achei da uccidere: quelli che puoi. Scambiamo- ci reciprocamente le armi, affinché anche costoro sappiano che ci vantiamo di essere ospiti paterni”» (Il. 6.215-231).

Anche sul campo di battaglia le parole di sfida a presentarsi hanno prodotto un riconoscimento: non, questa volta, che il nemico assomiglia al padre ma che quello che sta di fronte come nemico è, in realtà, un

ospite paterno. La presentazione prima del duello ha dato – almeno tra

questi due specifici avversari – la possibilità della scoperta del vincolo che impone loro di rispettarsi reciprocamente.

L’arresto del combattimento può avvenire, forse si obietterà, in un duello e non nella battaglia di massa, ma non è esattamente così. Anco- ra nell’Iliade, Ettore, per fermare (in vista della proposta di un duello) lo scontro degli eserciti che è in corso, si fa avanti proprio nel mezzo della mischia e, tenendo la lancia «nel mezzo», dunque in modo inoffensivo, trattiene le sue schiere e le fa sedere. Dapprima i nemici non compren- dono cosa stia succedendo e continuano a tirare le loro lance ma poi, quando Agamennone lo capisce, smettono4. Qui, dialogare con i nemici è un rischio che l’eroe troiano, ben noto al comandante greco, può cor- rere.

Certo, però, resta il fatto che questi casi si trovano in un poema epico e non in un’opera di storia e che registrano dunque un ideale e non una re-

adversaires inconnus l’un de l’autre». Nel duello tra Achille e Asteropeo, in- vece, la domanda del primo al secondo («chi e da dove sei, tra gli uomini?»:

Il. 21.150), corrisponde, credo significativamente, alle formule dell’ospitali-

tà: cfr. A. Camerotto, Il nome e il sangue degli eroi. Dalle parole alle armi

nell’epica greca arcaica, in A. Camerotto, R. Drusi (edd.), Il nemico necessa- rio. Duelli al sole e duelli in ombra tra le parole e il sangue, Padova 2010, pp.

21-44, part. p. 33.

altà. Quest’ultima è dunque forse un’altra cosa, e ci mette davanti alla cru- da necessità, almeno per chi si trovi a subire un attacco, di metter mano alle armi? Prima di passare ad essa, per avvicinarmi gradualmente alla considerazione dei veri e propri fatti storici, ricordo ciò che Erodoto rac- conta a proposito del popolo degli Sciti quando la terra in cui esso abita comincia ad essere saccheggiata dalle Amazzoni. Gli Sciti, fino a che cre- dettero di trovarsi davanti ad uomini, «ingaggiavano battaglia con loro», ma nel momento in cui capirono che ad attaccarli erano donne, allora, «dopo essersi riuniti in consiglio, decisero di non ucciderle più in alcun modo» (4.111.1-2). In questo caso non si tratta di disprezzo per il genere femminile, cioè del fatto che gli Sciti ritengano indegno di loro combatte- re con donne, ma di altro: di volerle avere come mogli. Proprio per questo, essi (che peraltro parlano una lingua diversa da quella delle Amazzoni e non si intendono con loro) decidono di mettere in atto una tattica non vio- lenta attraverso una comunicazione fondata sui comportamenti e non sul- le parole. Essi si accampano non troppo distanti dalle Amazzoni senza at- taccarle, si limitano a fuggire se quelle li inseguono, e tornano poi ad accamparsi sempre più vicino; in questo modo, giungono ad avere qual- che contatto, prima uno con una, poi due con due e così di seguito fino a che l’accampamento degli Sciti e quello delle Amazzoni non si uniscono e si arriva alla frequentazione reciproca, alla comprensione linguistica e piano piano all’accordo di vivere insieme (4.112-116).

Ho citato questa storiella erodotea perché da essa emerge con chiarez- za l’idea che l’alternativa tra guerra e dialogo non deriva da una qualche intrinseca necessità della situazione bensì da una decisione sul rapporto che con i nemici si intende intrattenere. E si ricordi che gli Sciti, qui, era- no il popolo attaccato, non quello invasore, e che la comunicazione ver- bale era impedita dall’ignoranza della lingua.

Ma arriviamo finalmente alla storia vera e propria. Tucidide (2.13.1) ammette come possibile il fatto che lo spartano Archidamo, nell’invadere l’Attica, possa risparmiare dal saccheggio le proprietà dell’ateniese Pericle perché questi gli è legato da vincoli di ospitalità. Dunque la rinuncia allo scontro fatta da Glauco e Diomede nel rac- conto omerico quando essi si riconoscevano come ospiti ereditari non era semplicemente una finzione epica ma una possibilità reale anche in pieno V sec. a.C. Sappiamo bene, del resto, che i prosseni, cioè quei cittadini che ospitavano e tutelavano i diritti degli appartenenti ad un’altra città, avevano un ruolo importante ai fini delle azioni di pace tra la loro città e quella di cui erano prosseni, quando esse entra-

A. Cozzo - Dialogare tra nemici 99 vano in guerra5. Godendo della fiducia di entrambe le parti, tali figu- re erano nella posizione migliore per innescare un dialogo in grado di produrre risultati concreti di vario tipo. I prosseni, infatti, potevano ottenere che dei prigionieri venissero rilasciati facendosi garanti del pagamento di un riscatto6; a volte arrivavano a riconciliare le città av- versarie, specialmente dopo la sconfitta di una di esse, come avvenne nel 451 a.C., quando l’ateniese Cimone, prosseno degli Spartani, ri- chiamato ad hoc dall’ostracismo dai suoi concittadini, riuscì a nego- ziare la pace7; e capitava pure che riuscissero ad evitare il ricorso alle armi: ad esempio, nel 418 a.C., il conflitto tra Argo e Sparta ebbe mo- mentaneamente una soluzione grazie all’intraprendenza di due Argi- vi, il comandante Trasilo e il prosseno degli Spartani Alcifrone, i qua- li, immediatamente prima che il loro esercito si scontrasse con quello nemico, presero l’iniziativa di recarsi dal comandante spartano Agide e riuscirono a persuaderlo a risolvere il contrasto con un arbitrato an- ziché con le armi8.

Quando le guerre erano tra città vicine doveva capitare che venissero a contatto, dai fronti opposti, uomini che già si conoscevano per prece- denti rapporti di frequentazione. Lo storico Dionigi di Alicarnasso (An-

tichità Romane 12.11.1-4) riferisce che durante l’assedio romano di

Veio, nel 398 a.C., un centurione si avvicina ad un veiente, suo «cono- scente da tempo», che è di guardia sulle mura: con lui si scambia «i con- sueti abbracci» e poi lo compiange per la sciagura che incombe su di lui. Nel caso specifico, il comportamento del Romano è ingannevole e anzi ha proprio lo scopo di catturare il veiente, ma ciò non toglie che episodi di colloqui amichevoli tra soldati di parti opposte dovessero evidente- mente avvenire. Anzi, Plutarco, probabilmente riferendosi proprio al caso appena citato, sembra considerare i rapporti di familiarità, che al- meno in casi di assedi di lunga durata si instaurano tra nemici, un feno- meno abbastanza normale9. Capitava che dalla relazione che si stabiliva

5 Cfr. M. Moggi, I proxenoi e la guerra nel V secolo a.C., in E. Frézouls, A. Jac- quemin (éds.), Les relations internationales. Actes du Colloque de Strasbourg,

15-17 juin 1993, Paris 1995, pp. 143-159.

6 Per tale possibilità, cfr. il caso citato da Tucidide 3.70.1. 7 Cfr. Andocide, Sulla pace 3, e Plutarco, Cimone 18.1.

8 Cfr. Tucidide 7.60-63 (dove si legge che però gli accordi, poiché erano stati presi senza una decisione delle rispettive poleis, non vennero poi rispettati). 9 Cfr. Plutarco, Camillo 4.1: «poiché durante un assedio che a causa della lun-

ghezza del tempo comporta molti incontri e conversazioni con i nemici, accad-

tra le sentinelle dei due eserciti in guerra nascesse l’idea di una possibi- le pace e che da lì essa si diffondesse anche nei rispettivi campi. Plutar- co ci informa che un fenomeno di questo genere si verificò durante l’as- sedio di Roma da parte dei Galli: entrambe le parti si trovavano ormai in cattive condizioni e presto

«ci furono discorsi di accordo, dapprima attraverso gli avamposti che erano in contatto reciproco (διὰ τῶν προφυλάκων ... ἀλλήλοις ἐντυγχανόντων); poi, come sembrò opportuno ai capi, venendo a collo- quio il tribuno dei Romani Sulpicio con Brenno, fu concordato che i Roma- ni pagassero mille libbre d’oro e che i Galli, dopo averle ricevute, si ritiras- sero subito dalla città e dalla regione» (Camillo 28.4).

Ad offrire l’esempio migliore di dialogo tra nemici sono le guerre civi- li, quelle di cui, come dice Omero (Il. 9.63), può godere appunto solo uno «privo di parenti, di leggi, di focolare». Spesso infatti in esse, a un certo punto, i due fronti dialogano tra loro proprio riconoscendosi parti della stessa famiglia. È ben noto l’episodio ateniese del 403 a.C., durante una tregua per lo scambio dei morti che segue alla sconfitta di coloro che lot- tano dalla parte dei Trenta tiranni. Secondo le parole dello storico Seno- fonte, «molti, avvicinandosi gli uni agli altri, dialogavano» e alla fine in- tervenne anche l’araldo Cleocrito che si rivolse all’altra parte insistendo sulla comune appartenenza e sul legame reciproco, in un discorso pieno di espressioni come «con voi», «insieme» e «non solo voi ma anche noi» che sottolineavano ancor più l’assurdità della violenza tra le due parti:

«cittadini, perché ci cacciate via? Perché volete ucciderci? Noi infatti non vi abbiamo mai fatto alcun male, anzi abbiamo partecipato con voi ai culti più venerabili, ai sacrifici e alle feste più belle, e siamo stati insieme nei cori, insieme a scuola, insieme nel servizio militare (συγχορευταὶ καὶ συμφοιτηταὶ ... καὶ συστρατιῶται), e con voi abbiamo corso molti perico- li, in terra e in mare, per la comune salvezza e libertà di entrambe le parti. In nome degli dei aviti, dei nostri padri e delle nostre madri, della parentela

e affinità e della nostra eteria, poiché in molti partecipiamo reciprocamen-

te di tutti questi vincoli, per rispetto di dei e uomini smettete di sbagliare nei confronti della patria, e non obbedite agli empissimi Trenta [...]. Sappiate bene che anche tra quelli morti adesso per opera nostra ce ne sono molti per i quali non solo voi ma anche noi versiamo lacrime»10.

assediati]». A questi egli racconta dello straripamento prodigioso del lago Al- bano; poi però lo fa uscire con un inganno e lo cattura.

10 Senofonte, Elleniche 2.4.19-22. Lì, nota N. Loraux, La città divisa. L’oblio nella memoria di Atene, Vicenza 2006, p. 304, «basta che gli Ateniesi si ricor-

A. Cozzo - Dialogare tra nemici 101 Il caso ateniese è menzionato esemplarmente anche da Cicerone quando, dopo l’uccisione di Cesare, prega che cesariani e anticesariani evitino le accuse reciproche e anzi, appunto come fecero gli Ateniesi, di- mentichino il passato: «consegnatelo all’oblio e, riconoscendovi (γνωρίσαντες) adesso gli uni gli altri, poiché siete della stessa stirpe e cittadini parenti (ὁμόφυλοι καὶ πολῖται συγγενεῖς), siate concordi» (Dione Cassio 44.32.5).

Nel mondo romano, come dice lo storico Dionigi di Alicarnasso fa- cendo allusione anche agli esempi greci negativi, un fatto «splendidissi- mo al di sopra di ogni altra ammirevole impresa» fu che, già nel primo contrasto tra patrizi e plebei dopo la cacciata dei re, le due parti non cer- carono di distruggersi a vicenda,

«ma risolvettero le loro liti con la persuasione e il ragionamento, dialo-

gando come i fratelli fanno con i fratelli o i figli fanno con i genitori in una

famiglia assennata, intorno alle questioni di equità e giustizia, e non si per- misero mai di compiere qualche azione irrimediabile o empia gli uni nei confronti degli altri, come fecero invece durante la guerra civile i Corciresi, gli Argivi, i Milesii e tutta la Sicilia e molte altre città» (Antichità Romane 7.66.5).

E nel 90 a.C., quando le forze di Mario e quelle del marso Pompedio Silone che combatteva per il diritto di cittadinanza romana si fronteggia- rono, presso il lago del Fucino, gli eserciti si disposero così vicini che, come scrive Diodoro (37.15),

«il triste aspetto della guerra mutò in disposizione alla pace, perché, giun-

ti a riconoscersi alla vista (εἰς ἐπίγνωσιν γὰρ ὄψεως ἐλθόντες), i soldati di

entrambe le parti riconoscevano molti ospiti propri, non pochi li ricordavano come propri commilitoni (συστρατιώτας), identificavano molti familiari e parenti (οἰκείους καὶ συγγενεῖς) che la legge che permetteva matrimoni mi- sti aveva fatto sì che avessero comunanza di una tale amicizia»:

in breve, a causa di tale compartecipazione di affetti (συμπαθείας), tutti cominciano a chiamarsi per nome e si esortano a non uccidersi re- ciprocamente giungendo a deporre le armi e ad abbracciarsi; allora an- che i comandanti si avvicinano, si mettono a dialogare (διελέχθησαν ἀλλήλοις) come parenti (συγγενικῶς),

dino di essere fratelli, e la stasis potrà cedere il posto alla riconciliazione». Per l’espressione «entrambi noi» ancora in contesto di trattative di pace, ma a li- vello interpoleico, cfr. Tucidide 4.20.1.

«ed essendoci stati molti discorsi fra i comandanti sulla pace e sul diritto di cittadinanza desiderato e essendosi entrambi gli eserciti riempiti di gioia e di belle speranze, tutta l’adunanza cambiò disposizione, da schieramento bellico a festa collettiva e, su invito alla pace da parte dei capi con parole adeguate, tutti si astennero con piacere dall’eccidio reciproco»11.

Altre modalità di dialogo sono possibili, e alcune assomigliano in qualche misura a quella, trovata nel racconto erodoteo, degli Sciti nei confronti delle Amazzoni la cui possibilità di essere attuata nella realtà concreta forse, a causa del riferimento al popolo di donne che per noi ri- entra nel mito, troppo frettolosamente abbiamo sottovalutato.

Nel 43 a.C., durante la guerra in Macedonia, Bruto evitò l’imboscata tesagli da Gaio Antonio, fratello di Marco, e gliene tese una a sua volta; però, quando gli avversari erano ormai in trappola, mise ripetutamente in atto un comportamento non solo non aggressivo ma addirittura ami- chevole riuscendo così a conquistarli in modo più efficace di come avrebbe potuto fare con le armi:

«non fece nulla di male a quelli che erano stati bloccati, anzi ordinò al suo esercito di salutare gli avversari; e, benché quelli non ricambiassero il saluto né accettassero l’invito, lasciò che uscissero indenni dall’agguato. Poi, fatto un giro per altre vie, li fermò di nuovo tra i dirupi e ancora una vol- ta non li attaccò, ma li salutò. Essi allora, lo ammirarono in quanto rispar- miava dei concittadini ed era degno della fama che aveva per la sua sapien- za e mitezza, e ricambiarono il saluto e passarono a lui»12.

11 Sempre in ambiente romano, rimanda forse allo stesso fenomeno il seguente

Nel documento Uomini contro (pagine 95-107)