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Ulisse e Annibale, ovvero l’altra faccia di noi stess

Nel documento Uomini contro (pagine 37-51)

Vorrei iniziare con una precisazione necessaria sulla parte finale del titolo: là dove definisco Ulisse e Annibale come ‘l’altra faccia di noi stessi’, mi pongo idealmente dal punto di vista di un lettore romano. In questa prospettiva, l’eroe omerico, ideatore dell’inganno che avrebbe provocato la caduta di Troia (‘antenata’ di Roma), e il condottiero carta- ginese, che a Roma inflisse sconfitte clamorose arrivando a un passo dal conquistarla, possono rappresentare, a vario titolo, le figure forse più adatte ad impostare un discorso sulla percezione del nemico come ‘altro da sé’ e, al tempo stesso, come immagine sinistramente familiare.

Gli autori della letteratura latina (prosatori e poeti, senza distinzione) dipingono di solito ritratti inquietanti dei nemici stranieri e tendono a farne l’antitesi del proprio modello culturale. Di norma, soprattutto quando devono giustificare una sconfitta subita, essi descrivono il nemi- co esterno come un essere infido, perverso, corrotto; e anche tirannico, superbo: cioè nettamente peggiore di loro sotto il profilo squisitamente morale. Il nemico è sleale, utilizza spesso e volentieri l’inganno e il tra- dimento. Eppure alla fine soccombe, viene ‘giustamente’ ed esemplar- mente sconfitto.

D’altra parte, malgrado gli sforzi per marcare la loro alterità, è lecito talora domandarsi se, ed eventualmente fino a che punto, i Romani sia- no davvero convinti di essere così diversi da coloro che ne minacciano la sopravvivenza o che contendono loro la supremazia. La manifestazio- ne, a tratti ostentata, di consapevolezza della propria superiorità non ri- esce infatti a mascherare qualche incrinatura che affiora qua e là, la- sciando intravedere un rovescio della medaglia. La stessa fede in un primato eterno e inossidabile, che si diffonde nella propaganda di epoca augustea (basti pensare all’imperium sine fine che Giove promette a Ve- nere per i discendenti di suo figlio Enea in Verg. Aen. 1.279), non è suf- ficiente ad esorcizzare del tutto l’antico timore che le cose possano cam- biare. I Romani avvertono (e continueranno ad avvertire sempre più) la natura intimamente precaria della grandezza raggiunta; sentono che un

giorno tutto potrebbe finire, così come in passato è accaduto ad altre grandi potenze ormai crollate. Roma sembra, insomma, presagire il de- clino: un declino che non sarà determinato necessariamente da sconfitte subite ad opera di forze esterne preponderanti; un declino la cui causa scatenante potrebbe venire da dentro, prodotto da quei germi di corru- zione che ormai da tempo ne logorano il tessuto sociale.

Ed è proprio questo il punto. Non si tratta soltanto di pessimismo fa- talistico e scaramantico. Nell’arco della loro storia i Romani hanno più volte riconosciuto qualcosa di familiare negli avversari che hanno af- frontato: nei loro volti hanno scorto lineamenti ben noti, e sulla base del- la loro vicenda hanno finito per presagire qualcosa del proprio futuro. Questi nemici, infidi o addirittura crudeli, sanguinari, che alla fine ven- gono vinti, riescono tuttavia a dare corpo alle paure e alle insicurezze dei Romani, che in loro ravvisano caratteri negativi condivisi da membri della loro stessa società. Di qui, anche a seguito del processo di crescita abnorme della superpotenza mondiale, sono poi scaturiti i conflitti più sanguinosi, le ferite più profonde da cui Roma è riuscita a guarire solo a fatica e pagando un carissimo prezzo. La crisi dello stato, ammonisce Sallustio ormai in prossimità dell’ultimo scorcio di un secolo di guerre civili, nasce proprio quando finisce il metus hostilis, la paura dei nemici esterni. Quando non si deve più far fronte comune contro una minaccia mortale che viene dal di fuori, è proprio allora che sorgono nuovi nemi- ci, interni allo stato. La fid ucia dei Romani nella superiorità del proprio sistema di valori e del proprio ‘modello’ non esclude, insomma, la per- cezione che i nemici (quelli del passato, come quelli del presente e del futuro) rappresentino un lato oscuro ‘di sé’, ovvero che le minacce più insidiose possano annidarsi subdolamente dentro le mura della città: as- sumendo ora le sembianze di cittadini eminenti che puntano a guadagna- re consenso anteponendo le ambizioni personali al bene della comunità, ora quelle di sbandati privi di scrupoli e senza più nulla da perdere.

Forte di questa consapevolezza, e nell’intento di scongiurare il ripe- tersi di simili traumi, la cultura romana tematizza il problema controver- so dell’identità del nemico, soprattutto all’indomani di gravi periodi di crisi: dopo i conflitti che portano alla fine della repubblica e all’avvento del principato, ma anche – pochi decenni più tardi – dopo la drammati- ca conclusione della dinastia Giulio-Claudia e l’ascesa al potere degli imperatori Flavi. Come antidoto di lungo periodo, la letteratura più im- pegnata sotto il profilo politico-ideologico elabora strategie inclusive tese ad appropriarsi anche dei nemici e dei loro tratti caratteristici, ivi compresi quelli più potenzialmente pericolosi ed eversivi: l’obiettivo

M. Fucecchi - Paradigmi del ‘nemico’ 39 sembra quello di ‘comprenderli’, delimitarli, e così neutralizzarli, dimo- strando che quegli stessi nemici rappresentano altrettanti capitoli chiusi, ostacoli superati e assimilati. A varie riprese, a partire dall’età augustea, la poesia epica e la prosa della storiografia portano avanti un tentativo di graduale metabolizzazione di incubi atavici, che nascono dalla difficol- tà di stabilire chi sono i nemici, dalla necessità di individuarli fuori e, so- prattutto, dentro i confini. Non a caso l’incubo ancestrale dei Romani è la guerra fratricida, che risale alle origini stesse della città e continua a manifestarsi in varie forme, insieme con altri incubi, come quello della servitù a un tiranno dispotico, che disprezza le istituzioni e la tradizione ‘civile’.

Di questo articolato processo culturale un grande classico come l’E-

neide costituisce una testimonianza ‘fondativa’: e, proprio per questo,

essenziale per capire le evoluzioni future. Il poema virgiliano offre una prima condensazione simbolica, che forse – almeno per il momento – ri- flette ancora il proposito istintivo di allontanare, di ‘rimuovere’ questi incubi ossessivi, più che la capacità di digerirli, di assorbirli.

Due immagini – una proveniente dal passato del protagonista Enea, l’altra che invece svela il futuro lontano, cioè il ‘presente’, il tempo dell’enunciazione poetica (l’età di Augusto) – costituiscono altrettante metafore che esprimono questa tensione, fissando al contempo gli estre- mi cronologici dell’opera. Nel libro II, Enea racconta come, la notte del- la caduta di Troia, lui e un manipolo di compagni si fossero ‘travestiti’ da Greci per ingannare i nemici, finendo però malauguratamente sotto il tiro dei concittadini che dall’alto dei bastioni della città non potevano ri- conoscerli1. Nel libro VIII poi, mentre già infuria la guerra (che a poste- riori possiamo definire ‘fratricida’) fra Troiani e Latini, la rappresenta- zione della futura battaglia di Azio, al centro dello scudo di Enea (675 ss.), è l’esempio eloquente di come una lotta per il potere tra due gene- rali romani (Ottaviano e Antonio) possa essere interpretata come guerra contro un nemico straniero (un bellum externum). La vittoria di Roma sull’Egitto di Cleopatra e le sue mostruose divinità è una vittoria dell’oc- cidente sull’oriente. Essa prelude alla pacificazione interna miracolosa, determinata dall’avvento di Augusto, un evento che la grande profezia di Giove del libro I aveva condensato in un’altra immagine-simbolo: 1 Verg. Aen. 2.410-12 hic primum ex alto delubri culmine telis / nostrorum obru-

imur oriturque miserrima caedes / armorum facie et Graiarum errore iubarum

(«Qui innanzitutto, dall’alto tetto del tempio, travolti / siamo dai dardi dei no- stri, e ne nasce amarissima strage / per l’aspetto delle armi e l’inganno dei gre- ci cimieri», trad. di A. Fo).

«Remo con il fratello Romolo (proprio loro) insieme daranno ai cittadi- ni le leggi e il diritto» (1.292-3 Remo cum fratre Quirinus / iura dabunt). Su questi presupposti il poema di Virgilio costruisce già un modello di leadership che si sforza di superare le lacerazioni, conciliando i diver- si elementi in una sintesi superiore che segna uno scatto in avanti rispet- to al passato. Enea non è solo un lontano progenitore dei Romani: è già uno di loro. Esponente di una ricca e fiorente civiltà orientale, egli si è sempre distinto per devozione ai parenti e alla patria, per religiosità e amore di giustizia; quindi ha saputo far fronte alle avversità e adesso, una volta raggiunta la mèta stabilita dal destino, la sua figura ricapitola (cioè anticipa) in modo esemplare i valori basilari del mos. La scelta di farne un archetipo di condottiero e capo politico presuppone, da parte del poeta, una presa di posizione ben definita all’interno di una tradizio- ne dove risuonano voci discordanti, sia sul ruolo effettivo di Enea come precursore della Roma futura2, sia sulla lealtà manifestata a suo tempo dallo stesso Enea verso la madrepatria: ancora alla fine del II a.C., infat- ti, c’era chi (come Quinto Lutazio Catulo) dava credito alla versione se- condo cui Enea avrebbe ‘venduto’ Troia ai Greci per inimicizia verso Paride3. Tracce di queste voci affiorano qua e là nel testo di Virgilio: non pregiudicano l’esemplarità del personaggio di Enea; risuonano piuttosto come interferenze, disturbi di trasmissione.

Senza contare poi la tradizione secondo cui lo stesso Enea avrebbe fondato la stirpe romana insieme al suo nemico peggiore, Ulisse: una tra- dizione risalente all’età dei re (VII-VI a.C.) e anch’essa opportunamente marginalizzata in età augustea4. Il protagonista dell’Odissea è dunque da annoverare tra le vittime più illustri dell’irresistibile ascesa dell’eroe tro- iano: forse perché di quest’ultimo era stato l’antagonista principale.

1. Ulisse

Passiamo ora a vedere come, nel racconto di Enea a Didone, proprio la figura di Ulisse sia ancora costantemente (a tratti ossessivamente) 2 Un ruolo che altre voci, come per es. (l’arcade) Polibio, tendevano ad attribui-

re piuttosto al re arcade Evandro (Dion. Hal. Ant. Rom. 1.32.1-2).

3 Dion. Hal. Ant. Rom. 1.48.3, che cita come fonte uno scritto di Menecrate di

Xanto (III-II a.C.); cfr. Origo gentis Rom. 9.2; S. Casali, Facta impia (Virgil,

Aeneid 4.596-9), «Class. Quart.» 49, 1999, pp. 203-11.

4 Dion. Hal. Ant. Rom.1.72.2; mentre altre fonti parlano di Latino e Agrio, figli

M. Fucecchi - Paradigmi del ‘nemico’ 41 presente: in quanto nemico del passato, più ancora che come modello di esule o di narratore interno autobiografico.

Poco prima, contemplando le pitture del tempio di Giunone a Carta- gine, Enea ha visto sfilare sotto i suoi occhi alcune immagini dolorose della guerra di Troia. E ne ha riconosciuto i protagonisti: Priamo, ma an- che Achille, Diomede, gli Atridi. Ulisse invece no, apparentemente non l’ha visto. Eppure è lui, Ulisse, il primo nemico che l’eroe subito dopo menziona – con la propria voce – quando, all’inizio del racconto, dice che la tragedia di Troia farebbe piangere chiunque, perfino un soldato del durus Ulisse (che davanti alla città distrutta non ha certo versato la- crime, anzi!)5. Fin da subito l’eroe greco diventa così un termine di pa- ragone implicito su cui – per antitesi (morale e culturale) molto più che per analogia di peripezie e vicissitudini – Enea costruisce la propria im- magine pubblica di capo di una collettività. Nel libro II dell’Eneide Ulis- se è l’avversario ‘impietoso e funesto’ (durus e dirus) che ha dato la svolta all’assedio, il nemico capace di approfittare della solidarietà uma- na e della stanchezza degli avversari dopo dieci anni di guerra; è l’orche- stratore dell’inganno del cavallo, l’abile manovratore di pedine decisi- ve: come il misterioso Sinone.

Quest’ultimo, vero alter ego di Ulisse, riesce a conquistare la fiducia di Priamo proprio presentandosi come nemico e vittima di Ulisse: uno stratagemma che ricorda il modo in cui l’Itacese aveva già ingannato un compagno, Filottete, o addirittura – secondo una rara tradizione alessan- drina – lo stesso Priamo. La presenza di Ulisse incombe sul racconto dell’Ilioupersis: addirittura gli fa da cornice, come vedremo. Di lui Enea non sa fare a meno di parlare; anzi, lo nomina subito (quasi en passant) per prenderne le distanze, per dichiararsi diverso. Enea intende cioè ‘re- sistere’ a un’assimilazione naturale (e riduttiva), provando a scardinare – quasi impercettibilmente – una ragione fondamentale di tale affinità: la capacità di soffrire. Vero eroe del dolore è solo lui, Enea; mentre Ulis- se è durus, cioè insensibile al dolore. Prima di abbandonare Troia, Enea ricorda di essere tornato precipitosamente indietro a cercare la moglie perduta (2.749 ss.): era stata un’occasione per rivedere i luoghi della tra- gedia recentissima, e per riviverne il dolore da dentro, un’ultima volta. E l’ultima immagine di un essere umano in carne ed ossa che si era pre- sentata ai suoi occhi (prima di vedersi apparire davanti il fantasma di Creusa), era stata quella funesta e trionfante di Ulisse, mentre custodiva 5 Verg. Aen. 2.6-8 «Chi mai, ridicendo questo – Mirmídone o Dòlope, o del duro

il bottino di guerra insieme al vecchio Fenice (Aen. 2.762 s. custodes

lecti Phoenix et dirus Ulixes / praedam adservabant): è la stessa imma-

gine che Enea porta ancora impressa nella sua mente, un’immagine em- blematica, l’ultima, di una città e di un volto che l’eroe non rivedrà più. Nel libro III, invece, Enea narratore ritaglia ad Ulisse un ruolo meno direttamente ‘antagonistico’. Non fosse altro perché anche il viaggio dell’eroe troiano verso l’Italia si configura come un ritorno a casa, un

nostos: Dardano, il fondatore della stirpe troiana, partì dall’Italia; e l’I-

talia è l’antiqua mater cui si riferiscono Apollo a Delo (3.94 ss.), quin- di, a Creta, i Penati (3.167 hae nobis propriae sedes, hinc Dardanus or-

tus, «queste le sedi a noi proprie, qui ebbe origine Dàrdano»); la mèta

che molto tempo prima avevano indicato Cassandra (3.185) e l’ombra di Creusa (2.781 s. terram Hesperiam venies etc.). Ulisse è, insomma, an- che una specie di ‘apripista’ di Enea, che dell’Itacese segue in parte la rotta, senza però incrociarlo nelle sue peregrinazioni. Di questo paralle- lismo (comunque parziale) Enea prende coscienza in occasione dell’in- contro con un altro greco, Achemenide, compagno (e anche lui, in qual- che modo, alter ego) di Ulisse, abbandonato nella regione dell’Etna abitata dai Ciclopi. Qui, secondo alcuni interpreti, la rivelazione della dura sorte del re di Itaca susciterebbe nell’animo di Enea qualcosa di si- mile alla solidarietà nei confronti del grande nemico. Quando – ormai lontano dai ciclopi (forse troppo lontano per commiserare Ulisse) – de- finisce Achemenide compagno dell’infelice Ulisse (3.691 comes infeli-

cis Ulixi), Enea sembra tuttavia voler riecheggiare soltanto la formula

con cui Achemenide stesso gli si era presentato (3.613). La ‘volontà di differenziarsi’ sembra prevalere ancora, malgrado tutto. Enea ci tiene ad apparire diverso da Ulisse: in primis perché lui, Enea, milita sotto le in- segne della fides, quindi perché – mentre Ulisse è destinato a tornare al suo passato di re di Itaca – a lui il destino riserva la fondazione di un epos del futuro, l’epos di Roma.

Se, tuttavia, fra la notte della caduta di Troia e l’incontro con Ache- menide è cambiato qualcosa nel modo in cui Enea guarda a Ulisse, ciò non sembra dipendere (sol)tanto dal fatto che egli ha constatato l’affini- tà tra il proprio destino e quello del nemico di un tempo. A cambiare è soprattutto il rapporto tra Enea e il proprio passato (di cui anche Ulisse è parte). Come Ulisse ha abbandonato Achemenide, così Enea ha relega- to a sua volta Ulisse in una dimensione lontana: la stessa di cui fanno parte le Arpie, i Ciclopi, Circe, ma anche Eleno e Andromaca, la cui vi- ta-morte è ancorata soltanto al ricordo di Troia e di chi non c’è più. La promessa del futuro, che si esplicita durante il viaggio verso occidente,

M. Fucecchi - Paradigmi del ‘nemico’ 43 permette ad Enea di lasciare progressivamente il mondo iliadico per en- trare in un universo dove Ulisse è soltanto ricordo (cioè passato, mito, letteratura) e sempre meno realtà tangibile e concreta: l’eroe omerico non si vede più, e perfino il ciclope Polifemo sembra relativamente lon- tano da Enea & co., mentre Circe addirittura è solo canto, pura sensazio- ne uditiva. Più che vera sympatheia, allora, la constatazione della meta- morfosi del vincitore impietoso di un tempo in un vinto, in un esule che semina dietro di sé i compagni (compagni che tocca ad altri portare in salvo), sembra un modo per chiudere i conti col passato, per assorbirlo dentro di sé, nel proprio destino.

Anche in questa circostanza Enea sembra, dunque, non rinunciare a esprimere, almeno indirettamente, la coscienza della superiorità del pro- prio modello culturale su quello dell’antico carnefice, di cui lui e la sua patria erano stati vittime. Quando prende a bordo il povero Achemenide, un ‘relitto di Ulisse’, Enea non dà soltanto prova di umanità e gratitudi- ne: il suo è anche un gesto emblematico, che significa appropriazione e volontà di integrazione; un atto inclusivo tipicamente romano e augu- steo (e che diventerà imperiale), l’esatta definizione di una storia che fi- nisce, quella di Troia, e di un’altra che sta per iniziare (o è appena inizia- ta), quella di Roma.

Eppure, nonostante tutto, l’eroe virgiliano non riesce a immaginare quanto, di lì a poco, la sua appropriazione del modello di Ulisse sia de- stinata a risultare ‘integrale’, almeno agli occhi di chi – come Didone – si sentirà da lui tradita e abbandonata: anzi addirittura vinta, sconfitta. Per la regina di Cartagine, distrutta dalla passione e dal dolore, Enea as- sumerà lo stesso volto dell’Ulisse del racconto della caduta di Troia: quello di un distruttore e un saccheggiatore di città (dirus), un nemico inumano e insensibile agli affetti (durus). La fuga da Cartagine (un’altra ‘città in fiamme’) diventa così un proditorio atto di guerra: la causa sca- tenante dell’odio futuro tra Roma e la grande rivale africana. Ancora una volta la densità problematica dell’Eneide sovrasta ogni messaggio facil- mente positivo. Il poema di Virgilio non manca mai di sottolineare il prezzo da pagare, ma non per questo invita a scegliere la rinuncia, o peg- gio istiga a opporsi al dovere, a resistere all’assunzione di responsabili- tà. Piuttosto evidenzia la contraddizione perenne fra destino umano e fe- licità.

Si può forse già tracciare, a questo punto, un primo bilancio. Nei con- fronti di Ulisse l’atteggiamento di Enea narratore riflette un processo graduale di appropriazione simbolica: l’avversario perfido e trionfante diventa anche lui un esule sui mari, ma – a differenza di Enea – egli ri-

mane confinato in una dimensione completamente passata, la stessa di cui fanno parte altri personaggi del mito, provenienti in particolare dal mondo odissiaco e dal ciclo troiano: una dimensione da cui Enea si ‘af- franca’ esplicitamente proprio durante il racconto alla reggia di Didone. Nel momento in cui ha preso con sé Achemenide, questo eroe proiettato nel futuro, già così fedele a un codice di valori (pre-)romano, si è simbo- licamente appropriato anche di un’immagine di Ulisse, il naufrago infe-

lix. E Ulisse, da parte sua, si vede anche così garantire ‘ex ante’ il posto

che la cultura di Roma gli ha riconosciuto dall’inizio (non a caso il pri- mo testo letterario latino è una traduzione dell’Odissea). La vittoria sul nemico è netta e – nel suo modo di includere selettivamente senza re- spingere – non poteva essere più ‘romana’.

Tale procedimento funziona un po’ come l’allusività in letteratura, dove i modelli del passato sono letti, ‘assorbiti’ per la parte che interes- sa, e poi rielaborati, superati: a garantire le innovazioni restano, tuttavia, le affinità, le analogie. Nel caso dei ‘nemici’ cambia solo il verso del processo: fin da subito, il pre-romano Enea marca le differenze tra sé e Ulisse (qualità morali, senso di una missione rivolta al futuro), e le affi- nità che di seguito si manifestano (l’esilio per mare, le molte peripezie) non bastano a colmarle: anzi le fanno risaltare. Di Ulisse, che rimane lontano, Enea si porta dentro solo ciò che – attraverso di lui – confluirà nel modello di leader romano del futuro: nel bene, e un po’ forse anche nel male.

2. Annibale

Enea, si è detto, vuole esplicitamente differenziarsi dal nemico di un tempo, ma alla fine del libro IV del poema di Virgilio, quando lascia

Nel documento Uomini contro (pagine 37-51)