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I disastri della guerra sulla Colonna Traiana

Nel documento Uomini contro (pagine 51-67)

La Colonna Traiana (fig. 1) è uno dei monumenti più famosi di Roma antica1, anche perché è sempre stata visibile, da quando fu eretta (nel 113 d.C.) fino ad oggi, ed è pressoché intatta.

Sorgeva nel cortile delle due biblioteche – una greca e una latina – che stavano davanti alla basilica e al foro di Traiano, e aveva diverse funzioni. Ricordava – come dice l’iscrizione sulla base – l’altezza della collina che era stata sbancata per la costruzione del Foro, era destinata ad accogliere le ceneri dell’imperatore dopo la sua morte, e soprattutto, grazie al fregio a spirale che si avvolge, dal basso verso l’alto, su tutto il fusto della colonna per circa 200 metri, descriveva le due guerre daci- che, condotte personalmente da Traiano nel 101-102 e nel 105-107 con- tro i popoli della Dacia (l’odierna Romania).

I Daci ogni tanto creavano problemi sul confine danubiano dell’impe- ro, ma la loro colpa più grande era quella di essere in una posizione chia- ve per il controllo del Mar Nero e di possedere ricchissimi giacimenti di oro e di ferro.

Già Domiziano aveva pensato di annettersi la Dacia; ma dopo quattro anni di guerra, dall’85 all’88, pressato da altre urgenze, si era acconten- tato di firmare una pace che formalmente faceva di quel paese un protet- torato romano, ma in realtà lasciava mano libera al re Decebalo, il qua- le per di più avrebbe ricevuto aiuti economici da Roma. A Traiano la cosa sembrò intollerabile, perciò decise di farla finita e riprese da dove Domiziano aveva lasciato.

I rilievi della Colonna raccontano le sue due campagne (101-102 e 105-106) in ordine cronologico, attenendosi quasi certamente ai Com- 1 La bibliografia è vastissima. Tra gli studi più rilevanti segnaliamo C. Cicho- rius, Die Reliefs der Traianssäule, I-III, Berlin 1896-1900; K. Lehmann- Hartleben, Die Trajanssäule. Ein römisches Kunstwerk zu Beginn der Spätan-

tike, Berlin-Leipzig 1926; F. Coarelli, La Colonna Traiana, Roma 1999; S.

Settis, A. La Regina, G. Agosti, V. Farinella, La Colonna Traiana, Torino 1988.

mentarii de bello dacico, che Traiano stesso aveva scritto sul modello di

quelli di Cesare, e che sicuramente si potevano leggere nella adiacente biblioteca latina. Purtroppo non ne resta che un frammento di poche pa- role (citato dal grammatico tardo-antico Prisciano), sicché, la colonna è per noi un documento storico insostituibile.

Però è anche un’opera d’arte di carattere celebrativo: una sorta di tra- duzione nel marmo di quelle pitture trionfali che tradizionalmente i ge- nerali romani vittoriosi facevano eseguire per farle sfilare in occasione, appunto, del proprio trionfo. Quindi è sostanzialmente un’opera di pro- paganda, che esaltava la potenza di Roma e documentava l’inevitabile sottomissione di un popolo barbaro, attuata con altrettanto inevitabile spietatezza.

E tuttavia l’ignoto artista che ha ideato il fregio – Bianchi Bandinelli lo chiama il Maestro delle imprese di Traiano2, ed è solo un’ipotesi che possa trattarsi di Apollodoro di Damasco, che fu l’architetto del foro di Traiano – ha fatto delle scelte abbastanza inusitate.

Mai prima di allora il nemico era stato rappresentato con tanta digni- tà, perfino con rispetto e simpatia (nel significato etimologico di sympa-

theia, ovvero ‘con-passione’). Si resta dubbiosi – scrive Bianchi Bandi-

nelli – se in questa simpatia si debba riconoscere «un tratto superiore della equanimità di giudizio voluta da Traiano o non piuttosto l’espres- sione di sentimenti personali dell’artista, che come provinciale conosce- va direttamente la miseria della soggezione a Roma».3

L’esercito romano appare nella Colonna come una formidabile mac- china da guerra davanti a cui i Daci non possono che soccombere. E in- fatti li vediamo uccisi e calpestati; ma nel viso di quelli ancora in vita non si legge tanto la paura, quanto lo sgomento. I Daci sanno bene che in questa guerra si stanno giocando tutto, e sanno quello che c’è da aspettarsi in caso di sconfitta.

I Daci sono anche molto sfortunati. Non soccombono solo ai Romani ma anche agli elementi. Uno squadrone di cavalieri che per sfuggire al nemico cerca di passare il Danubio viene travolto dalla corrente. Si ve- dono spuntare dai flutti le gambe senza vita di un annegato, e altri stan- no facendo la stessa fine sotto gli occhi di un compagno che fa il gesto tipico della disperazione, portando la destra alla fronte (fig. 2).

2 R. Bianchi Bandinelli, Un problema di Arte Romana: Il “Maestro delle impre-

se di Traiano”, «Le Arti» 1, 1938-1939, pp. 325-334 (ripubblicato in Id., Sto- ricità dell’arte classica, Firenze 1943 e 1950, Bari 1973).

3 R. Bianchi Bandinelli, Roma. L’arte romana nel centro del potere, Milano 1969, p. 242.

G. Pucci - Chi è il barbaro? 53 Guai ai vinti è un detto che vale per tutte le epoche. E i Daci vanno in- contro a tanti guai. Villaggi bruciati (fig. 3), donne vecchi e bambini de- portati (fig. 4). Solo una donna sembra avere un trattamento migliore (fig. 5). Probabilmente è una principessa o una dama di rango, che vie- ne addirittura salutata da Traiano in persona, mentre si imbarca col fi- gliolo non sappiamo per dove. Magari va a Roma come ostaggio, sorte non piacevole, ma certo migliore di quella che tocca a quanti devono re- stare e patire fino in fondo gli orrori della guerra.

In una scena di massacro (fig. 6) vediamo un Dace in ginocchio, rap- presentato nella nota formula di pathos (la stessa del Laocoonte), ma il particolare più macabro è il corpicino di un bambino morto che sembra cadere dal carro. Le mutilazioni sono quelle accidentali del marmo del rilievo, ma vengono ugualmente in mente i corpi mutilati de i Disastri

della Guerra di Goya (fig.7).

I Daci, per la loro irriducibile alterità, sono destinati alla sconfitta. Nella scena iniziale del film Il Gladiatore di Ridley Scott, quando i bar- bari stanno per lanciare il loro ultimo, disperato e inutile attacco, un uf- ficiale romano dice con tono sprezzante: «Un popolo dovrebbe capire quando è sconfitto». I Daci lo capirono troppi tardi, e a loro spese.

In alcune scene li vediamo in ginocchio davanti al nuovo padrone. Molti però non si arresero, preferendo la morte volontaria alla perdita della libertà. E non si può non essere d’accordo con Bianchi Bandinelli quando dice che «artisticamente proprio le raffigurazioni della resisten- za dacica sono fra gli episodi più validamente espressi».4

Uno dei più toccanti è quello del suicidio di massa (fig. 8). In una città assediata un nobile (si riconosce come tale dal copricapo che indossa, il

pileus) mesce da un vaso il veleno ai suoi compagni, che protendono le

braccia per riceverlo. Una replica di quanto era accaduto quarant’anni pri- ma a Masada, in Giudea: anche lì, quando i Romani entrarono finalmente in città, non vi trovarono che cadaveri. Ci sono poi i Daci che si uccidono con le proprie mani o che si fanno uccidere dai propri compagni (fig. 9).

Lo stesso re Decebalo si tagliò la gola quando, persa ogni speranza di salvezza, stava per essere catturato dai Romani. La scena – che rappre- senta il punto culminante della guerra – è forse la più nota di tutta la co- lonna (fig. 10), e fu replicata anche in una metopa del Trofeo di Adamklis- si, eretto dai Romani nella stessa Dacia5.

4 Ibidem.

5 M. Speidel, The suicide of Decebalus and the Tropaeum of Adamklissi, «Revue

Nella cultura romana il suicidio era letto in due modi opposti: se a commetterlo era un cittadino, specie se di status elevato, era considera- to un atto nobile, degno di rispetto. Quando invece a suicidarsi era un criminale o comunque un personaggio negativo, era visto come un atto di codardia. Se poi a commettere suicidio era un barbaro, prevaleva un’ulteriore chiave di lettura, quella del furor.

Il barbaro, in pratica, era assimilato a un animale selvaggio, feroce verso gli altri e in ultimo verso se stesso6. Per Cicerone la immanitas germanica e celtica conduceva alla follia e alla distruzione. Anche il ce- lebre Galata Ludovisi del gruppo marmoreo oggi al Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps di Roma, uccide la moglie e infine sé stes- so in un atto di rabies e furor, ma è innegabile che quel gesto ha una sua tragica grandezza. Così è anche per Decebalo. Benché il suo suicidio potesse essere letto dagli osservatori contemporanei come un atto di barbarico furore, resta il fatto che il gesto lo consegna a una dimensio- ne epica7.

Se a tutto questo aggiungiamo altri episodi, come quello in cui i Daci mettono essi stessi a fuoco la loro capitale Sarmizegetusa pur di non consegnarla al nemico, ne ricaviamo complessivamente un’immagine di fierezza e dignità che esula dallo stereotipo del barbaro8.

E questo spiega perché i Romeni sono sempre stati così affezionati alla Colonna, sotto qualunque regime. È il monumento della loro scon- fitta ma è anche la loro epopea nazionale: complessivamente ci fanno una gran bella figura.

Per contro, se guardiamo con attenzione ad alcuni dettagli del com- plesso racconto della Colonna, non possiamo non essere sorpresi da alcu- ne scene in cui sono proprio i soldati romani a compiere delle atrocità im- pressionanti. Uccidere, saccheggiare, incendiare sono atti connaturati a ogni guerra, e non sono certo quelli a stupirci. Ci stupiscono però scene come quella in cui due cavalieri fanno a Traiano un omaggio un po’ par- ticolare: due teste di Daci mozzate (fig. 11). È un immagine sconcertan-

6 Vedi E. La Rocca, Ferocia barbarica. La rappresentazione dei vinti tra Medio

Oriente e Roma, «Jahrbuch des Deutschen Archäologischen Instituts» 109,

1994, pp. 1-40.

7 Il tema divenne così popolare che fu utilizzato come decorazione dei servizi da tavola in ceramica. Cfr. M. Labrousse, Les potiers de la Graufesenque et la

gloire de Trajan, « Apulum» 19, 1981, pp. 57 63.

8 Su questo aspetto vd. A. Mandruzzato, Dalla parte degli infedeli. I Daci, De-

cebalo e la Colonna Traiana, «Hormos. Ricerche di Storia Antica» n.s. 2,

G. Pucci - Chi è il barbaro? 55 te, che ce ne ricorda purtroppo altre della cronaca di questi anni. E non è isolata sulla Colonna. In un’altra scena si vede un soldato romano che tie- ne coi denti una testa appena tagliata (fig. 12), mentre il corpo decapitato è visibile a terra. E non è finita. Un Romano durante l’assalto a un forti- no dace decapita un nemico e ne abbranca la testa. E ancora, dei soldati lavorano tranquillamente a delle opere di difesa davanti a delle teste moz- zate infilzate su delle picche (fig. 13). Teste tagliate ci sono non solo sul- la Colonna ma anche nel trofeo di Adamklissi e nel cosiddetto Grande Fregio traianeo che originariamente stava nel foro di Traiano e che poi fu sezionato e inserito nell’arco di Costantino (fig. 14).

Si stenta a credere che i Romani, alfieri di civiltà, si siano comporta- ti in modo così barbaro. E infatti quasi tutti gli studiosi della Colonna Traiana respingono a priori l’idea che a compiere quei gesti siano stati dei soldati Romani. Secondo loro non possono essere stati che degli au- siliari, vale a dire dei barbari arruolati nell’esercito romano. I Romani tutt’al più avrebbero tollerato questa prassi. Si è citato in appoggio a questa tesi un aneddoto riportato da Lord Slim nelle sue Memorie. Du- rante la seconda guerra mondiale, in Birmania un giorno un reparto dei temibili Gurkha gli portò tutto fiero una cesta piena di teste tagliate, e poi gli offrì per pranzo un grosso pesce che era in fondo alla stessa ces- ta9. Però, a parte il fatto che non si può essere sicuri che sulla Colonna si tratti in tutti i casi di ausiliari, sappiamo per certo che a tagliare la testa più importante di tutte, quella del re Decebalo, fu un cittadino romano, che si chiamava Tiberio Claudio Massimo.

Lo sappiamo grazie al fortunato ritrovamento, negli anni 70 del seco- lo scorso, del suo monumento funebre10. Nell’iscrizione Massimo ricor- da con orgoglio di aver tagliato personalmente la testa di Decebalo e di averla portata a Traiano che stava in un villaggio vicino, e per questo fu decorato. Nel rilievo soprastante l’iscrizione è immortalata la scena fati- dica: Decebalo si è appena tagliato la gola e sta lasciando cadere il lun- go coltello ricurvo di cui si è servito. Sappiamo che la testa del re fu poi esibita a tutto l’esercito, come si vede sulla colonna, e questo in pratica mise la parola fine a tutta la storia.

9 J.C.N. Coulston, Overcoming the Barbarian. Depictions of Rome’s enemies in Trajanic monumental art, in De Blois et al. (eds.), The Representation and Per- ception of Roman Imperial Power. Proceedings of the Third Workshop of the International Network Impact of Empire (Roman Empire, c. 200 B.C. - A.D. 476), Rome, March 20-23, 2002, Amsterdam 2003, pp. 389–424.

10 M. Speidel, The captor of Decebalus. A new inscription from Philippi, «The

I Daci da parte loro non sembrano avere praticato il taglio delle teste. C’è un’unica scena sulla Colonna che potrebbe farlo pensare. Da dietro le mura di un fortino dacico spuntano alcune teste infisse su delle pic- che. Ma non è detto, perché in tutta la colonna, per motivi facilmente comprensibili, non è rappresentato mai un romano morto. Perciò si è pensato che la scena illustri quello che segue alla presa del villaggio. Nel qual caso sarebbero teste di Daci lasciate lì dai Romani come monito. Si può ricordare in proposito che durante l’assedio di Munda, nel 45 a.C., i cesariani eressero una palizzata di giavellotti con infilzate delle teste ta- gliate di nemici per terrorizzare i pompeiani.

Comunque, a prescindere da questa scena controversa, resta il fatto che i Romani tagliavano le teste, eccome!11

Certo non erano cacciatori di teste come i Celti, che erano famosi per que- sto, ma quando si presentava l’occasione non si tiravano indietro. M. Sergius Silus emise intorno al 100 a.C. una moneta in cui commemora un suo ante- nato, che portava lo stesso nome. E come lo commemora ? Rappresentando- lo come un cavaliere che brandisce la testa tagliata di un nemico. Si badi che si tratta di un Romano di famiglia senatoria, un eroe di guerra che è ricorda- to anche da Plinio (Nat. Hist. 7.104-105), non di un ausiliario barbaro.

Romanissimo era anche Popilio Lenate, il comandante della squadra che assassinò Cicerone (l’esecutore materiale fu il centurione Erennio). Lenate era talmente fiero di aver tagliato la testa dell’oratore (che – pic- colo particolare – in passato l’aveva anche difeso come avvocato), che mise il proprio busto incoronato accanto al macabro trofeo, con tanto di iscrizione in cui si vantava dell’impresa. E la cosa piacque così tanto ad Antonio (il mandante), che diede a Popilio un premio supplementare. E già quello ordinario non doveva essere poco. All’epoca di Silla per una testa di proscritto si ricevevano 12000 denarii, cioè 48.000 sesterzi.

La testa di Gaio Gracco fu portata a Opimio, che pagò il suo peso in oro (e si diceva che colui che l’aveva tagliata prima di consegnargliela l’aveva svuotata e riempita di piombo).

11 L’abbondante documentazione è presentata e discussa da J.-L. Voisin, Les Ro-

mains, chasseurs de têtes, in Du châtiment dans la cité. Supplices corporels et peine de mort dans le monde antique. Actes de la table ronde (Rome, 9-11 no- vembre 1982), Collection de l’École française de Rome 79, Roma 1984, pp. 241-

293. Si vedano anche le puntualizzazioni di J. Poucet, Sur la «chasse aux têtes» dans l’ethnographie et dans la Rome antique. À propos d’un livre de Claude

Sterckx (2005) et d’un article de Jean-Louis Voisin (1984), 1ère et 2ème partie, «Fo-

lia Electronica Classica» 13, 2007 e la più veloce disamina di N. Fields, Head-

G. Pucci - Chi è il barbaro? 57 Dopo la battaglia di Munda, Gneo Pompeo, il figlio di Pompeo Ma- gno, fu stanato dai soldati di Cesare e gli fu tagliata la testa. Naturalmen- te per essere portata a Cesare, che forse questa volta non distolse lo sguardo disgustato, come quando in Egitto gli era stata portata la testa del padre. Un disgusto ipocrita, insinua Lucano nella Farsaglia (9.1042- 1043): trovò più comodo – dice – piangere il genero piuttosto che paga- re per la sua testa.

Il grande Cesare, passato alla storia per la sua clemenza, ordinò che quella testa tagliata fosse esposta in pubblico a Hispalis (oggi Siviglia). E sempre Cesare nel 46 a.C. fece mozzare e inchiodare su delle picche la testa di soldati che chiedevano una parte di bottino a suo parere esa- gerata.

Di teste tagliate se ne trovano davvero tante nel corso della storia ro- mana. Tutti abbiamo la reminiscenza scolastica della testa tagliata di Asdrubale gettata nell’accampamento di Annibale. Ma ci sono tanti epi- sodi meno noti, come quello di Macrino che riceve una testa fasciata e crede che sia quella del rivale Avito Bassiano, per poi scoprire con orro- re che invece è quella del suo prefetto del pretorio, Ulpio Giuliano.

Le teste tagliate erano perfino fatte sfilare nelle processioni trionfali. Nel 313, quella di Massenzio fu l’attrazione principale del trionfo di Co- stantino, imperatore cristiano, considerato santo dalla chiesa ortodossa.

Esibire la testa mozzata dello sconfitto era prassi normale. Aveva an- che uno scopo pratico: serviva a scoraggiare gli altri potenziali avversa- ri e a far cessare le ostilità da parte dei seguaci del capo eliminato.

A volte era una sorta di riparazione dovuta a chi aveva ricevuto un torto da parte dell’ucciso. Nella scena finale del Giulio Cesare di Shake- speare, dopo la battaglia di Filippi Antonio e Ottaviano si trovano di fronte al cadavere di Bruto che si è suicidato per non finire nelle mani degli avversari. Antonio dice la famosa frase: «Questo era un uomo», e Ottaviano rincalza: «Trattiamolo secondo la sua virtù, con tutto il rispet- to e i riti della sepoltura». Ma nella realtà Ottaviano ordinò che la testa di Bruto fosse portata a Roma per essere prima esposta sulla tomba di Cesare (come già era avvenuto con la testa di Elvio Cinna, scambiato dalla folla inferocita per Cornelio Cinna, uno dei congiurati), e poi, pre- sumibilmente, buttata dalle Scale Gemonie, come si faceva di solito con la testa dei grandi criminali e traditori12. Se non avvenne così fu solo per- ché durante la traversata dell’Adriatico una tempesta fece cadere la testa 12 Sarebbe interessante sapere come venivano preparate tutte queste teste mozza-

in mare. E sarebbe interessante sapere che ne fu della testa del capitano di quella nave.

A proposito di scale Gemonie, va ricordato che proprio questa fu la fine della testa di Decebalo. Dopo essere stata mostrata a tutti in Dacia, fu spedita a Roma e finì appunto rotolando per quelle scale13.

Si potrebbe continuare a lungo col catalogo delle teste mozzate, ma ormai il punto è chiaro: i civilissimi Romani tagliavano teste, né più né meno, anzi forse più dei barbari. Il che ci porta a riflettere sul fatto che non è sempre facile per noi moderni capire dove sta il confine tra barba- rie e civiltà, tanto meno in un contesto di guerra.

Concludo segnalando un ultimo paradosso. È noto che l’imperatore Marco Aurelio era un seguace della filosofia stoica. In una pagina dei suoi famosi Pensieri con se stesso o A se stesso (10.10) si legge: «Un ra- gno è orgoglioso di aver catturato una mosca; c’è chi è orgoglioso di aver catturato una lepre, chi un’acciuga nella rete, chi dei cinghiali, chi degli orsi, chi dei Sarmati. Ma a ben vedere sono tutti quanti degli assas- sini». È un pensiero edificante. Ma Marco Aurelio l’ha scritto proprio mentre stava massacrando i Sarmati e altre popolazioni germaniche, e di questi che lui stesso definisce assassinii ha lasciato imperitura memoria sulla sua colonna (quella detta Antonina), che in quanto a truculenza su- pera quella di Traiano. In una scena vediamo il saggio imperatore accett- are – filosoficamente, si presume – la solita testa mozzata e in un’altra addirittura i suoi soldati che costringono i barbari – con una crudeltà per la quale non saprei indicare confronti – a decapitare i loro stessi compa-

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