stanno usando coloro che prima erano gli africani, che poi sono diven- tati i negri, come forza lavoro schiava, quando dunque dalle descrizio- ni degli scopritori già si era passati, in Portogallo, ad una letteratura razzista motivata dal bisogno di giustificare la violenza e il dominio. Bisognerebbe perciò verificare quanto della letteratura razzista porto- ghese sia confluita in quella inglese.
La forza contaminante dell’ideologia razzista mostra d’aver rag- giunto il culmine quando le singole idee che essa produce sono fatte proprie da coloro che ne sono oggetto e vittime. A tal proposito Jim Crow afferma: “Ogni negro pensa a sé come figlio di un bianco, come ogni asino pensa a sé come al figlio di un cavallo di razza” (Cane, 1978, p. 112). Questo proverbio, tipico delle isole Barbados, così come altri, veniva formulato dagli schiavi già negli anni della schiavitù. La cultura succube, infatti, non è mai in grado di discriminare nella cultu- ra dominante i dati utili da quelli nocivi: senza uno sforzo politico che miri alla rivendicazione della diversità, le masse dominate copiano il sistema di valori dei dominatori, nel migliore dei casi rendendone una parodia. Nei paesi anglosassoni, negli anni della formazione dell’impero, l’impatto di razze diverse con l’orgoglio di un potere che le sottometteva tutte, fece sì che i segni di esse diventassero un distin- tivo, a cui si collegava una significazione decisiva. Il razzismo fu il ri- sultato di strane e improbabili comparazioni di popoli diversi. La forte componente razzista che si avverte nel grande impero inglese ha un al- tro suo segno specifico nel numero delle categorie razziali che la co- scienza di razza britannica istituì. Anche gli indiani d’oriente, che vive- vano in un territorio peraltro patria del sistema di caste più terribile mai esistito, vennero presto chiamati negri, mostrando così il prevalere di un sistema bicategoriale, birazziale (tutto questo avviene mentre in Brasile si era già costituito un sistema multirazziale); tali sistemi soddi- sfano esigenze di casta e sono quindi legati in primo luogo ad un’organizzazione aristocratica che gradua i ruoli in cui gli individui si pongono, mentre i sistemi birazziali sono legati ad un’antinomia che contrappone un gruppo a tutti gli altri (Cane, 1978, p. 116).
Questa dualità appartiene ad una nuova epoca culturale, appartie- ne alla modernità industriale globale. La società liberale avanzata e l’assetto di mercato non prevedono infatti una teorica immobilità della posizione sociale degli individui, e chiedono innanzitutto di credere nel valore e nella possibilità di un’alta mobilità verticale e orizzontale. Quando un gruppo, individuato come “gli altri”, i negri, i portoricani,
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viene isolato e per esso non valgono le regole e l’ideologia del sistema, ecco che, per costoro, questo si trasforma in un sistema di caste. L’idea della mobilità verticale, intervenendo in un sistema di caste, se non è rifiutata da esso, è capace di trasformarlo in un sistema di classi, che può andare in contrasto con il sistema di caste o anche coesistere con esso. I rapporti sociali instauratisi in Brasile e negli Stati Uniti mostra- no tutte due le inversioni (Cane, 1978, p. 118). Infatti, è innegabile che l’esclusione dei neri negli Stati Uniti sia il risultato di una difesa delle classi esistenti, mentre anche nella sproporzione tra la presenza dei bianchi nella società e al suo vertice e nella concentrazione dei neri al basso della piramide sociale, il Brasile sembra più leggibile come una società di classi (anche se quella sproporzione segnala al suo vertice l’origine feudale).
Questa dinamica tra integrazione e separazione ha un’interessante teorizzazione nell’ipotesi di Levi Strauss (cfr., 1984) sulla diversifica-
zione interna, per cui i temi diversificanti svolgerebbero un ruolo fun-
zionale e sarebbero mezzi in sé abbastanza indifferenti, ma disponibili nella storia dei diversi raggruppamenti. Il razzismo, allora, inteso come mezzo di diversificazione interna avrebbe soprattutto il difetto della sua meccanicità predestinante e sarebbe soltanto un cattivo strumento. La rigidità del mezzo stesso imporrebbe allora la messa in moto di altri meccanismi, cioè di strumenti di ascesa che costituiscono quel simboli- smo che funziona sostanzialmente come anestetizzante sociale, mo- strando verso il basso la razionalità dello stato di cose e, contempora- neamente, non incidendo sulle convinzioni dei ceti alti, in quanto ad essi presenta i nuovi adepti, arrivati dal basso, come individui eccezio- nali, insinuando in tal modo l’idea che essi siano diversi dagli altri.
Il simbolismo sembra un fenomeno molto meno importante in Brasile, dove il contrasto di razza si fa labile nella multigraduazione della gente di colore. L’amore delle donne viene scisso nel folklore bianco dal matrimonio: “Bianca per sposare, mulatta per fottere, negra per lavorare”. Questa “massima” di Handelmann non corrisponde ai contenuti espressi dal folklore nero, nei cui racconti si trovano spesso ragazze che danno appuntamenti ai giovani schiavi, mentre i mariti so- no lontani. Al disprezzo dei bianchi per cui i negri non si sposano, ma si accoppiano, fa riscontro l’accettazione dei mito della superiorità ses- suale nera (Cane, 1978, p. 124).
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1.3. L’acculutazione
Se il razzismo come ideologia e come pratica agisce quale vettore che tende a mantenere separati i gruppi razziali, coinvolti in un’identica dimensione spazio temporale, molti altri fattori agiscono invece in senso opposto. In particolare, è possibile intervenire volonta- riamente con iniziative atte a ridurre il pregiudizio: ciò che si può fare agisce o limitando il pregiudizio razziale nella psicologia delle persone coinvolte, o modificando la situazione in cui il pregiudizio si alimenta (Cane, 1978, p. 125).
In primo luogo sembra rilevante la perdita delle specificità cultura- li dei neri d’America e la costituzione di modi di agire e modi di pen- sare inter-etnici. La mescolanza non è sempre assoluta, cioè non inve- ste egualmente gli aspetti generali e tutti gli aspetti particolari delle culture nere in America. L’africano del Congo non condivideva (Cane, 1978, p. 126) con il Senegalese la visione del soprannaturale; ed anche i popoli vicini non avevano comuni tradizioni religiose. Tuttavia, in quella nuova terra straniera, che fu Haiti, gli elementi comuni delle lo- ro credenze religiose vennero accentuati; col tempo emerse un nuovo sistema religioso composito chiamato Vudu.
Secondo Bastide (cfr., 1970, 1971) la santaria, i candombles e i Vu-
du possono però risultare volta per volta legati prevalentemente a una
diversa religione africana. Non essendo fissato, il rito si celebra diver- samente a seconda della “nazione” africana in cui ha luogo. La base etnica si è dissolta, ma i portati culturali rimangono e prevalgono in maniera del tutto casuale, senza un collegamento tra la preponderanza di elementi di una cultura e una più diffusa presenza dell’etnia che originariamente la espresse (Cane, 1978, p. 127). Anche nella pratica musicale si possono riscontrare alcune differenze, determinate certa- mente dai luoghi di provenienza degli schiavi; se si parla degli stru- menti musicali si osserva che, al di fuori dei tamburi, presenti ovunque in Africa, altri strumenti, che in questo continente ebbero diffusione geograficamente limitata, appaiono in poche zone dell’America carai- bica e meridionale.
Comunque, la prima e più rilevante spinta all’integrazione cultura- le tra gli schiavi e i padroni avvenne sul piano religioso; la musica in Africa è ancella del rito e insieme ad esso ne costituisce l’ossatura. La presenza e la funzione della musica nel rito vengono riconfermate ovunque nell’America Nera, laddove prevalgono nella vita religiosa i
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segni della cultura africana, ma anche dove sembrano spiccare i segni della cultura europea; è interessante anzi, osservare come questa fun- zione africana penetri nei riti del cristianesimo riformato dell’America settentrionale, modificandone sostanzialmente la fenomenologia, e come ciò accada attraverso un lento processo che sottolinea il carattere essenziale della funzione musicale nell’atto religioso.
Anche se la musica è presente, con notevoli raccolte di inni, nella chiesa protestante, c’è una grande differenza tra un’assemblea di per- sone ritte in piedi, immobili che cantano un inno e un’assemblea che nella stessa situazione ne canta il ritmo, creandolo col percuotere dei piedi e il battere delle mani. Quel che rimane di africano nella chiesa nera degli Stati Uniti, oltre all’immanenza del divino (che però non è retaggio culturale esclusivamente africano), si manifesta nell’atteggia- mento e nella concezione della musica.
Sebbene abbia tanta importanza, la musica resta in funzione di qualcosa di diverso; nella musica religiosa del folklore nero, ma anche nella musica profana, la “molla” da cui essa scaturisce non è in sé, ma nel culto o nella danza. Se il culto non è quello della tradizione, nem- meno la musica è più tale, e al nuovo rito si viene accompagnando un folklore che è costituito da fattori d’origine africana e d’origine euro- pea. In particolare, vi s’immette d’africano il ritmo, l’enfasi espressiva, quello che il folklore africano aveva sviluppato meglio del folklore eu- ropeo, mentre di questo assume le scale e l’armonia (Cfr., Nettl, 1956), ma l’attribuzione è molto discutibile: la forma responsoriale appartie- ne anche alla cultura nera, così come la struttura circolare di canti co- rali che accompagnano il lavoro collettivo anche in Africa (Cane, 1978, p. 131).
Secondo Bastide (cfr., 1970, 1971), se una manifestazione culturale risulta da una sollecitazione del nuovo ambiente allora si ha un tratto di cultura negra, se invece è un residuo si ha un tratto di cultura africa-
na, se c’è una convergenza di due retaggi analoghi che si fondono
l’uno nell’altro, in questo caso si avrà un tratto di cultura afro-
americana. Quindi, in qualunque modo egli distingua i prodotti cultu-
rali nuovi, originali, dai sincretismi, Bastide trova “noiosa” la polemica sulle sopravvivenze africane e sulle influenze bianche nel folklore nord americano; che i canti neri dell’America centro meridionale siano afri- cani, egli lo dà per scontato sulla base di una consolidata letteratura e conclude la sua riflessione affermando che il Nero ha subito l’influenza dell’ambiente musicale bianco, prendendo solo quello che gli conveni-
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va, e la selezione è stata determinata dalle sue abitudini africane (Cane, 1978, pp. 132-133).
Per quanto riguarda la musica, invece, c’è chi ha sottolineato il ca- rattere soprattutto bianco, occidentale, di essa, negando il carattere negro di tutto fuorché dell’esecuzione vocale. La modesta collezione di africanismi nella musica Nord americana conferma il carattere diviso- rio dell’istituzione schiavistica in questo territorio; contro la vasta let- teratura che in modi differenti ha supportato l’inattendibilità della tesi della continuità, Herskovits (Cfr., 1962) ha sostenuto una tesi più pos- sibilista, affermando che la scienza non ha l’esatta cognizione di quan- to sopravvive delle tradizioni e delle credenze africane nel comporta- mento dei neri contemporanei che vivono negli Stati Uniti e altrove, né degli effetti di queste sopravvivenze, quali calchi o riproduzioni di forme culturali africane, pertanto non è lecito negare la continuità, ma bisogna connettere le modificazioni alla storia ed osservare la costanza nel dinamismo.
1.3.1. Separazione tra nozione di musica afro-americana e nozione di
musica nero-americana
Le differenze fra la musica (e la cultura) afro-americana e la musica (e la cultura) nero-americana, sono particolarmente significative. La Louisiana fu francese, come Haiti, prima di passare con regolare con- tratto sotto l’imperium britannico. Tutto questo ha lentamente cancel- lato il costume tradizionale nero che è diventato un coacervo di carat- teri africani e afro-americani. Le forme culturali nere nella Louisiana francese probabilmente si evolvettero in parallelo con quelle haitiane. Anche in Louisiana forse sarà stato usato il ganbo (un pezzo di bambù con un’estremità aperta e l’altra chiusa dalla membrana naturale, che se percosso emette un suono diverso in rapporto alla lunghezza della canna), con il quale ad Haiti si picchia il suolo, percuotendo a terra la parte chiusa; in Africa invece, queste canne venivano disposte in batte- ria, come nello xilofono (Cane, 1978, pp. 141-144).
Questo uso più ricco della melodia, ma non più povero del ritmo, è sparito negli anni della schiavitù non come segno di adattamento, ma come traccia di impoverimento culturale connesso al nuovo contesto di vita, da cui però emerge anche qualche trasformazione positiva, come quella che porta dall’earth bow africano al mosquito drum, stru-
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mento decisamente simile al washtub che avvia all’uso del contrabbas- so nelle prime jazz band.
L’adattamento degli schiavi africani alle situazioni in cui l’America li poneva, produsse negli anni il folklore nero d’America. Questa fase è quella che LeRoi Jones ha chiamato di “trasformazione della condizio- ne dei neri”, da quella di schiavi africani a quella di schiavi americani (cfr., Jones, 1994).
Il jazz si plasma nelle sue prime manifestazioni tra i figli degli schiavi americani, ormai liberi, ma emarginati, sconfitti, dall’esito della Ricostruzione; un popolo diverso da quello bianco, che non professa il “credo” americano, ma che tuttavia si ritiene realisticamente america- no. Liberato dalla schiavitù, non sa bene come “muoversi” in questa libertà. La lenta emancipazione di tale popolo corrisponde per questo al crescere del suo disagio, ma anche della sua ribellione e delle “im- magini” della sua coscienza.