Gli spirituals, i canti del lavoro e il blues
CAPITOLO 2 GLI SPIRITUALS , I CANTI DI LAVORO E IL BLUES
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2.2. Il work-song
Lo schiavo, costretto a lavorare dall’alba al tramonto, cantava per sopportare meglio la fatica, per coordinare i movimenti, per dire ai compagni cose che il sorvegliante non potesse comprendere perché espresse per mezzo di un codice “segreto”, attraverso una musica ini- zialmente poco conosciuta. Nei campi, ma anche sul Mississippi, il work-song, il “canto di lavoro”, ebbe una diffusione non certo margi- nale e un’importanza fondamentale tra le musiche che contribuirono a inventare il jazz: il suo utilizzo va valutato per l’importanza che esso assumeva per gli uomini che erano costretti a coordinare perfettamen- te i loro movimenti, dai posatori di traversine per i binari, ai rematori. Uno dei canti esemplificante come pochi altri, è quello che ancora alla fine del 1800 si poteva ascoltare sulle rive del Mississippi:
I’m gwine to Alabamy Ooooh!....
For to see my mammy Ooooh!...
She went from old Virginny Ooooh!...
And I’m her pickaninny Aaaah!...
She libes onTombigbee Ooooh!...
I wish I had her wid me Aaaah!...
Io me ne vado in Alabama Ooooh!....
Per trovare la mamma Ooooh!...
È partita dalla vecchia Virginia Ooooh!...
E io sono il suo tesoro Aaaah!...
Vive nel Tombigbee Ooooh!...
E vorrei che fosse con me Aaaah!...
In questo canto, è compito del solista, e generalmente del coordi- natore dei movimenti, la parte parlata, mentre tocca agli altri, con il loro intercalare, il commento fatto di una sola sillaba che, “strisciata” durante l’espletamento dello sforzo collettivo, serve al coordinamento dello sforzo stesso (Roncaglia, 1979, pp. 9-16).
2.3. Un modo di comunicare
Il canto di lavoro ebbe larghissima diffusione nelle zone rurali, so- prattutto del Sud: esso costituì, di fatto, l’unico modo di comunicare
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fra i lavoratori sparsi nelle immense distese delle piantagioni. Cotone, ma anche tabacco, fornivano, in quei tempi, la più grossa fetta del reddito agricolo del sud degli Stati Uniti e non ne sarebbe stata ipotiz- zabile la produzione senza l’apporto di milioni di braccia, di fatto, non pagate o, comunque pagate a un costo che era soltanto quello dell’acquisto e del mantenimento ai limiti della sopravvivenza.
Nel work-song la voce assunse un’importanza che in nessun’altra forma musicale nera aveva avuto sino ad allora: e così, come l’inimitabile (e, per un europeo, incomprensibile) variazione dei ritmi percussivi in Africa aveva costituito per secoli un mezzo per trasmette- re notizie, nello stesso modo le altrettanto intraducibili inflessioni fo- niche inserite nel work-song rappresentarono, per esecutori ed ascolta- tori, qualcosa di nuovo e inimitabile e, congiuntamente, un altro dei piloni sui quali, nel tempo, avrebbe avuto saldo appoggio l’edificio jazzistico.
La figura del “capo” , del “capitano” ispirò negli anni non pochi work-song: egli rappresentava il padrone, il potere, la prepotenza ed era nello stesso tempo la figura più vicina sulla quale riversare odio e rancore o alla quale chiedere, invano, un poco di comprensione (Ron- caglia, 1978, p. 42).
2.3.1. Il work-song e le leggende
I work-song raccontavano anche storie che davano origine a balla- te come quella del leggendario John Henry, un minatore che un gior- no, avendo appreso che i padroni avrebbero messo in funzione una scavatrice meccanica, decise di sfidare con la sola forza dei suoi mu- scoli il “mostro sbuffante”, combattendo, sino alla morte avvenuta con il piccone tra le mani, per contendere alla macchina il primato che egli si vedeva insidiato.Tuttavia, va tenuto anche conto del fatto che non mancarono canti attraverso i quali i lavoratori esprimevano la volontà di non combattere un tal tipo di battaglia (Roncaglia, 1979, p. 20-23). Insomma, lo schiavo non accettava più la sua situazione e per non su- birla cercava nella “fuga” la soluzione del problema perché, oltre ad essere sfruttato inumanamente, egli era anche succube della crudeltà razzista che veniva messa in atto in tutto il Sud.
Nel 1852, la Corte Suprema della Carolina del Sud aveva senten- ziato:
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insolenza: può trattarsi di uno sguardo, dell’accennare di un dito, del rifiuto o del ritardo a mettersi da parte all’avvicinarsi di un bianco. Ciascuno di questi atti costituisce una violazione delle leggi sulla proprietà, e se fosse tollerato distruggerebbe quel principio della subordinazione sulla quale si regge il no- stro sistema sociale” .
C’è da specificare che una sola delle “insolenze” rammentate dal giudice Nash era sufficiente per lo scatenarsi della violenza più bruta, delle torture e addirittura del linciaggio (Roncaglia, 1979, pp. 24-30).
2.3.2. La protesta imponente
Assieme al work-song, si diffusero anche dei canti di protesta che raccontavano le condizioni di vita dei neri che abitavano soprattutto in Georgia, dove erano costretti ad accettare i soprusi dei bianchi. Essi, infatti, davano la caccia ai neri come se fossero degli animali e, questi canti, molto essenziali nella loro descrittività, esprimevano proprio la voglia di fuga dei dominati. Tale fuga era ovviamente accompagnata da dubbi, da continui ripensamenti e dalla paura di essere scoperti. Tuttavia, centinaia di migliaia di schiavi riuscirono a scappare grazie anche al contributo di non pochi bianchi “abolizionisti” del Sud e del Nord. A tal proposito, viene da chiedersi se le condizioni dei “servi” bianchi fossero davvero diverse e quale fosse il motivo per cui nessuno ne parlasse mai. La. risposta si trova nelle parole scritte da Leo Huberman (cfr., 1977) riportate da Roncaglia.
“Più in basso ancora stavano i servi; alcuni avevano la fortuna di trovare padroni decenti, ma dal gran numero di annunci riguardanti “servi fuggia- schi” che apparivano sui giornali si è indotti a credere che i servi a vincolo conducessero una vita assai dura. Il padrone poteva frustarli quando voleva, dar loro le vesti più cenciose e il cibo più infame, e decidere se potevano o no sposarsi e finché erano al suo servizio non erano nulla più che schiavi. Certi servi, addirittura, venivano marchiati dai padroni e se fuggivano venivano co- stretti a servire, dopo il periodo del vincolo, cinque giorni in più per ogni giorno di durata della fuga e, in aggiunta, venivano sottoposti alla fustigazio- ne. Allo scadere del contratto, poi, ricevevano un vestito, un po’ di mais ed alcuni attrezzi e, molti dei loro discendenti, anche in tempi più moderni, era- no sulle colline del sud-ovest dove conducevano una vita miserrima, di pover- tà ed ignoranza, salvandosi a stento, dal morire di fame. Vivono di ciò che rie-
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scono a coltivare, cacciare o rubare e sono quelli che vengono chiamati hillbil- lies, “ bianchi poveri” (Roncaglia, 1979, pp. 31-34).
Tutto questo ha dato vita a quel tipico modo di cantare dell’Ovest e del Sud-Ovest, chiamato appunto hillbilly, che sarebbe stato una del- le palafitte, insiemeal work-song, sulle quali sarebbe stata costruita la musica nordamericana.
Con il passare del tempo, comunque, il work-song è divenuto un vero e proprio fatto sociale in America: tracce di esso, così com’era alle origini, si possono ritrovare soltanto in alcune isole, soprattutto rurali, del Sud e del midwest statunitensi, laddove esistono ancora uomini di pelle bianca o nera che lavorano insieme. Per il resto, esso contribuì, con alcune delle sue essenziali caratteristiche, alla nascita del jazz (Roncaglia, 1979, pp. 35-37).
2.4. Il blues
Oltre allo spiritual e al work-song, esiste ancora un’altra forma musicale nata nell’America del Nord, che costituisce la base indispen- sabile per comprendere perché e come il jazz nacque e si sviluppò, si tratta del Blues. Un termine che definisce una musica irripetibile, co- stituita da afflati sociali ed innovazioni musicali, con le radici affondate contemporaneamente nella vicenda nordamericana e nelle origini afri- cane di milioni di uomini costretti a vivere in situazioni fortemente di- sagiate. Una parola che definisce, per antonomasia, una musica fon- damentalmente nera, fatta dai neri per i neri; anche se identificata da un nome che non era arrivato dall’Africa, ma dall’Europa, e che fu poi portato nel Nuovo Mondo.
The blues devils, infatti, era un’espressione usata nell’Inghilterra elisabettiana per descrivere un particolare stato d’animo, triste e ma- linconico, ed era stato lo stesso presidente statunitense Thomas Jeffer- son, un virginiano nato nel 1743 a Shadwell, ad usarla con tale signifi- cato. Poi impararono (come molte altre cose dai bianchi) ad usarlo an- che i neri virginiani, abbreviandolo, com’è costume per tutti i termini popolari, in blues (Roncaglia, 1979, pp. 40-41).
Valutare, però, solo gli aspetti musicali del blues costituirebbe una limitazione dell’esame del fenomeno perché si tratta di una musica for- temente radicata nel contesto nordamericano; sarebbe veramente limi-
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tativo attribuire al blues esclusivamente la funzione di antenato rozzo e primitivo del jazz.
2. 4.1. Il blues quale musica di popolo
Il blues è anzitutto una musica di popolo più che popolare, stret- tamente e organicamente radicata nell’humus delle masse proletarie e schiavizzate dei neri, fossero essi collocati in un contesto cittadino o rurale. É musica del lavoratore delle piantagioni e del girovago, è mu- sica del carcerato e del lavoratore coatto, ed è anche musica del lavora- tore del ghetto cittadino e del cantastorie. Il blues, quindi, va inteso come un canto “lamentoso”? Sotto certi aspetti esteriori parrebbe es- serlo; essenzialmente invece, è un racconto fatto a chi vive la tragedia della vita, attraverso un linguaggio semplice, descrivendo situazioni esistenziali comuni e comunque perfettamente comprese perché pro- prie del bluesman (o della blueswoman) e dell’ascoltatore/partecipe.
Sviluppatosi nelle piantagioni di cotone del profondo sud, il blues si diffuse abbastanza rapidamente in tutti gli Stati Uniti; certo è che la coltivazione del cotone per la nuova nazione nordamericana ebbe, so- prattutto nel 1800, un’importanza non secondaria se è vero che, dal 1790 al 1860, la sua produzione era passata da quasi due milioni a ven- tidue milioni di libbre, rappresentando all’incirca il cinquanta per cen- to delle esportazioni degli Stati Uniti. La popolazione di schiavi arrivò a contare mezzo milione di unità in Virginia, quattrocentomila nella Carolina del Sud, quasi mezzo milione in Georgia, più di trecentomila in Louisiana e più di quattrocentomila, per ciascuno stato del Missis- sippi e dell’Alabama (Roncaglia, 1979, p. 49).
Le legislazioni imponevano condizioni ghettizzanti per lo schiavo: in quasi tutti gli stati del Sud, infatti, la legge vietava qualsiasi conces- sione che tendesse ad insegnare allo schiavo a leggere o a scrivere; la situazione, tuttavia, non era migliore per i lavoratori rurali di pelle bianca, frustrati per il fatto che i piantatori preferissero prendere a servizio degli schiavi, giudicandoli lavoratori più capaci ed efficienti. In più, i bianchi ricchi non provavano alcuna vergogna per le sofferen- ze inflitte: “la schiavitù è la condizione naturale e normale del lavora- tore, sia bianco che nero. L’alternativa è solo fra una società come la nostra, nel Sud, e una qualche fanatica, licenziosa, sacrilega forma di socialismo”. Questo è ciò che avrebbe affermato George Fitzhugh (Roncaglia, 1979, p. 51), colui che sarebbe stato definito “l’ideologo”
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del Sud. Eppure, la comparsa del blues classico fu il chiaro indicatore di una nuova coscienza e consapevolezza che i neri avevano acquisito in merito alla loro condizione. Sostenere che il blues contenesse, so- prattutto alle origini, caratteristiche di lotta, come si può dire dello spiritual, o di rivolta, come per il work-song, sarebbe una forzatura concettuale. L’amore tradito, l’abbandono del tetto coniugale, l’amarezza della donna o dell’uomo abbandonati, l’autocondanna per l’ubriachezza cronica sono soventi presenti nel blues, insieme all’accorato, anche se sempre dignitoso, lamento nei confronti delle calamità naturali.
É necessario tenere presente il fatto che, per la prima volta nella storia della musica afro-americana, in stretta congiunzione con la voce umana, nel blues comparve la chitarra. Uno strumento simile al più tradizionale banjo, ma molto più ricco di possibilità esecutive ed espressive, che consentì escursioni tonali analoghe a quella della musi- ca monodica primitiva, e anche una sorta di dialogo antifonale, le cui caratteristiche possono essere ritrovate nel dialogo fra il “capo” e il “gruppo”, compartecipi e coesecutori delle musiche primitive africane. Di tale aspetto si deve valutare il significato profondo tenendo conto del fatto che il dialogo nel blues si trasforma in una sorta di “parlare con se stessi” da parte dei bluesmen creatori nello stesso mo- mento dell’esecuzione vocale e dell’accompagnamento. Un “momento creativo” che veniva esaltato proprio dalla presenza di chi ascoltava, rendendo ancor più efficace l’ispirazione del cantore e sospingendolo alla ricerca, man mano che l’esecuzione si snodava, di nuove e sempre più sofisticate forme musicali espressive, tali da creare un clima parte- cipativo e comunicativo. Il blues, infatti, pur discendendo in linea di- retta dall’holler rurale e, assieme, dallo spiritual, dalla ballad, e dal canto religioso, richiese sin dall’inizio un supporto strumentale per l’esecuzione vocale che la chitarra, ancora meglio del pianoforte pote- va offrire (Roncaglia, 1979, pp. 54-57).
Nel “colloquio” voce/strumento, insomma, venne realizzata una sorta di “antifona” fra l’esperienza personale del nero e il mondo nel quale era stato costretto a inserirsi e nel quale, ancora, doveva trovare una collocazione che gli consentisse di sopravvivere sia a livello biolo- gico sia culturale.
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2.4.2. La “scala blues”
Un altro aspetto musicale del blues, inoltre, è quello relativo alla cosiddetta “scala blues”; l’incontro, in sostanza, fra la scala musicale europea (basata sui sette gradi della scala diatonica temperata) e quella africana (o meglio, afroccidentale) fondata sulla scala pentatonica. La concezione tipicamente africana dette vita, nel blues, a una scala musi- cale assolutamente atipica (secondo i canoni europei), creando due no- te che solo nel blues hanno diritto di cittadinanza, caratterizzandolo e rendendolo unico nella storia della musica. I neri prima, e i bianchi poi, le hanno fatte proprie, inventando un modo di far musica che non si limitava a proporre un fatto artistico perché non era disgiunto dalla necessità di “raccontare”. LeRoi Jones, infatti, rileva come nella cultu- ra africana sia ancora impensabile tentare di separare musica, canto, danza, prodotti artigianali, vita dell’uomo e culto degli dei, in quanto ogni espressione è “vita”, cioè “bellezza” (Roncaglia, 1979, p. 60-65).
La “bellezza” nella cultura europea venne ricercata nell’accura- tezza formale, nella perfezione, nella finalità, come acutamente scriverà Jones, di “coltivare lo spirito”. Niente perfezione formale, invece, nelle musiche africane prima e afro-americane poi, nessun possibile parago- ne con il modo di cantare europeo: le due culture sono profondamente diverse, le forme musicali tendono a fini addirittura divergenti e, per- ciò, non è possibile (neppure a livello tecnico-musicale) utilizzare i pa- rametri europei per valutare qualcosa che, pur avendo solidi agganci con questa musica, è nato e si è sviluppato su un humus dalle caratteri- stiche sociali ben differenti, ovvero quello rurale o quello cittadino, poi composto da un proletariato represso e sfruttato (Roncaglia, 1979, p. 66).
2.4.3. Il blues e il disco
Attraverso lo studio delle testimonianze si può ipotizzare che il blues sia apparso verso gli ultimi decenni del 1800; ma sarà solo con l’emergere sul mercato discografico dei race records e con l’incisione di
Crazy Blues da parte di Mamie Smith, che il blues inizierà ad essere
conosciuto in America e poi in tutto il mondo.
Il fonografo inventato da Thomas Alva Edison nel 1877 aveva as- sunto un’importanza, nei primi anni del secolo, certamente impensata dal suo creatore; milioni di esemplari avevano invaso le case degli ame-
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ricani: perché non sfruttare, allora, anche il mercato dei neri? Con il disco di Mamie Smith, una blues singer nata nel 1890 a Cincinnati, nell’Ohio, e leader di una formazione nella quale militarono, fra l’altro, agli inizi della loro carriera, musicisti come Coleman Hawkins e Bub- ber Miley, la lunghissima catena dei race records ebbe inizio.
Non meno importante, per il blues, fu la presenza nel mondo mu- sicale americano di William Christopher Handy che, nativo dell’Ala- bama, era stato, benché nero, abbastanza fortunato da poter studiare al Kentucky Musical College e aver diretto, già nel 1896, la troupe dei Mahara’s Minstrels (Roncaglia, 1978, pp. 48-52). Handy aveva compo- sto nel 1911, a Memphis, un blues particolarissimo, che rivela quanto questa musica abbia profonde connessioni con la quotidianità. Il titolo del brano è Mister Crump. Commissionato da un candidato alla carica di sindaco a Memphis, il blues di Handy, ripreso dal popolo, ridicoliz- zava però le promesse moralizzatrici di Mr. Crump, anche perché il fatto che ci fossero nella città bettole, bische o case di prostituzione, non scandalizzava nessuno in un mondo nel quale si era sempre co- stretti ad arrangiarsi. Mr. Crump, fra l’altro, con pochissime variazioni, sarebbe poi divenuto, sempre grazie alla penna di Handy, Memphis
Blues, un altro titolo che la storia del jazz annovera fra i grandi capola-
vori, che però non diede ricchezza e fama immediate al loro composi- tore; agiatezza e successo, infatti, gli vennero poi, soprattutto grazie al celeberrimo St. Louis Blues (Roncaglia, 1978, p. 53-55).
2.4.4. Il pianismo blues
Il Blues è la base senza la quale il jazz non avrebbe potuto prendere vita, senza la quale i grandi del passato, da King Oliver a Jelly Roll Mor- ton, da Kid Ory a Jimmy Noone, non avrebbero potuto esprimere la grandezza della loro musica. Nello sviluppo del Blues il pianoforte ebbe una funzione fondamentale; in misura e in situazioni profondamente di- verse, rappresentò il mezzo che consentì la nascita di un tipo diverso di blues, del fast western blues che, anziché diffondersi per sentieri polverosi o strade assolate, per piantagioni sterminate o villaggi di baracche fati- scenti, ebbe dimora fissa nei locali di svago, nei barrel-house (letteralmente significa “casa del barile”), nei bordelli non certo lussuosi che, ai margini degli accampamenti in cui vivevano i taglialegna e i boscaioli, costituivano l’unico luogo in cui passare alcuni momenti di svago dopo la lunga e dura giornata lavorativa (Roncaglia, 1978, p. 56).
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Suonato da strimpellatori in genere non professionisti e figlio della musica fatta dalle coppie di chitarristi, che prima di essi avevano pro- posto un blues strumentale “diverso” (anche se chiaramente derivato) da quello vocale delle origini, nel blues pianistico dei barrel-house le due chitarre svolgevano infatti la doppia e distinta funzione di suppor- to della melodia (con adeguati abbellimenti più o meno espliciti a se- conda dell’abilità solistica dell’esecutore) e di sostegno ritmico armo- nico (più che di controcanto, come avveniva invece quando la chitarra era imbracciata da un cantante blues).
La musica derivante da questo tipo di esecuzione, però, presentava profonde diversità dal blues che l’aveva originata: la melanconica tri- stezza, l’indolenza apparente del blues, nel barrel-house cedettero il passo ad un tipo di eccitazione ritmica ruvida, scarna, rozzamente viri- le, il cui contrasto con la corposità quasi femminea del blues emergeva sin dalle prime battute. D’altronde, l’ambiente in cui nacque non era la piantagione o il villaggio agricolo: il locale, turbolento, fumoso e pieno di frastuono, costringeva i musicisti, per farsi sentire, a sfruttare al massimo la resa sonora dei loro strumenti, a percuoterli con vigore e a urlare il loro canto, quando e finché venne usato; perché, a un certo punto, il compito di esprimere le emozioni fu affidato ai soli strumenti (Roncaglia, 1978, pp. 57-59).
Un giorno in uno dei locali fu consegnato, dall’est, un vecchio e mal ridotto pianoforte verticale. Un piano impossibile da accordare, con la meccanica sull’orlo del collasso, pieno di bruciacchiature di si- garo e decorato da mille tondini lasciati da bicchieri di birra o di whi- sky; un musicista, il cui nome resta ignoto, si gettò sui suoi tasti sbrec- ciati e ingialliti, per iniziare a martellarli con forza, trasferendo sui tasti le musiche che sino ad allora avevano potuto essere eseguite soltanto