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LA MUSICA LEGGERA PER ADORNO

La musica leggera per Adorno

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aspetto. La volgarità, in questo senso consiste nell’identificazione con l’avvilimento, dal quale la coscienza prigioniera, vittima di esso, non riesce ad uscire; e se la cosiddetta arte inferiore del passato ha provve- duto, più o meno volontariamente, a tale avvilimento, se essa è sempre stata a disposizione di individui avviliti, oggi si può organizzare e am- ministrare l’avvilimento stesso, impadronendosi dell’identificazione con esso e pianificandola. Questa è per Adorno l’ignominia della mu- sica leggera, e non quello che viene rimproverato ai suoi diversi settori da frasi fatte come “mancanza di spiritualità” o addirittura “sensualità sfrenata” (Adorno, 1966, p. 50).

Come può la musica leggera essere banale o addirittura volgare? Perché per il filosofo “la musica è profezia. Nei suoi stili e nella sua organizzazione economica, è in anticipo sul resto della società, perché esplora, in un dato codice, tutto il campo del possibile più in fretta di quanto possa farlo la realtà materiale. Fa ascoltare il mondo nuovo che, a poco a poco, diventerà visibile, s’imporrà, regolerà l’ordine delle cose; non è solo l’immagine delle cose, ma il superamento del quoti- diano, e l’annuncio del proprio avvenire” (Attalì, 1978, p. 18).

2.2.1. La standardizzazione della musica leggera

Adorno sostiene, anche in forza del suo crudo semplicismo, che la standardizzazione della musica leggera non va interpretata tanto da un punto di vista interno-musicale, quanto più da un punto di vista socio- logico. Essa mira a reazioni convenzionali e il successo che incontra, specie la violenta avversione dei suoi seguaci per tutto ciò che potreb- be essere diverso, conferma che l’operazione è riuscita; infatti, l’ascolto della musica leggera non è manipolato tanto dagli interessati che la producono e la diffondono, ma quasi da essa stessa, dalla sua natura immanente.

L’omologazione musicale stabilisce nella sua vittima un sistema di riflessi condizionati. Nella musica degna di questo nome, nessun sin- golo dettaglio, neanche il più semplice, può essere sostituito; nella canzonetta gli schemi sono, invece, talmente separati dal decorso con- creto della musica, che al posto di ogni elemento ne può stare qualsiasi altro. Anche gli aspetti più complessi, che sono a volte necessari per rifuggire da una noia che allontanerebbe gli ascoltatori a loro volta ri- fugiatisi nella musica leggera per combattere la noia, non hanno signi- ficanza autonoma, ma sono in funzione di ornamento o di paravento

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dietro al quale sta in agguato il sempre uguale (Adorno, 2002, p. 36). La musica leggera, che proclama come sua unica norma la necessità di distendere gli ascoltatori dopo il faticoso processo lavorativo, non esi- ge, e quasi neppure tollera, spontaneità e concentrazione dell’ascolto (Adorno, 1990, p. 80).

2.2.2. Il modo di produzione della musica leggera intesa come pro-

dotto di massa e la produzione di massa industriale

Non si deve però paragonare in maniera troppo letterale il modo di produzione della musica leggera, intesa come prodotto di massa, al- la produzione di massa industriale. Le forme di diffusione sono molto razionalizzate, e così pure la pubblicità che reclamizza, specie nel si- stema radiofonico americano, precisi interessi industriali; ma questo, tutto sommato, si riferisce sostanzialmente alla sfera della circolazione, non a quella della produzione. È vero che nell’universo della produ- zione musicale vi sono elementi che richiamano la divisione industriale del lavoro, quali la parcellizzazione delle fasi creative, la ripetizione se- riale o la suddivisione dei produttori in quelli che hanno la cosiddetta “idea” iniziale, quelli che formulano la canzonetta, gli autori del testo e gli arrangiatori, ma il procedimento rimane, per così dire, artigianale. La funzione della non contemporaneità, propria delle canzonette, la funzione del punire la scaltrezza con un modo di produzione goffo e maldestro, semidilettantesco, è comprensibile in base al fatto che la musica leggera deve pungolare l’attenzione dell’ascoltatore, deve diffe- renziarsi da altre canzonette se vuole essere vendibile e riuscire a rag- giungere l’ascoltatore; d’altra parte non può uscire dall’abituale se non vuole respingere l’ascoltatore, deve restare poco appariscente e non andar oltre quel linguaggio musicale che sembra naturale all’ascoltatore medio cui si rivolge la produzione. La difficoltà che de- ve affrontare il produttore di musica leggera è di appianare quella con- traddizione, di scrivere qualcosa che sia incisivo e banale insieme e, soprattutto, ben noto.

2.2.3. L’aspetto individualistico nel procedimento produttivo

Per Adorno è molto importante l’aspetto individualistico tenuto presente nel procedimento produttivo dell’industria culturale, che cor- risponde anche al bisogno di celare all’ascoltatore la standardizzazione

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predominante: l’ascoltatore deve sempre avere la sensazione di essere trattato come se il prodotto di massa fosse rivolto proprio a lui (Ador- no, 2002, p. 38).

Il mezzo per raggiungere questo scopo, che è uno degli ingredienti fondamentali della musica leggera, è la “pseudo-individualizzazione” (che nel prodotto culturale di massa ricorda l’aureola della spontanei- tà) del compratore, grazie alla quale egli crede di scegliere liberamen- te, secondo i suoi bisogni. Il punto estremo di tale pseudo- individualizzazione è costituito dalle improvvisazioni del jazz commer- ciale, nutrimento della pubblicistica jazzistica; esse mettono in luce appositamente l’invenzione del momento, ma in realtà sono vincolate, entro lo schema metrico e armonico, in limiti talmente ristretti che po- trebbero, a loro volta, essere ridotte ad un minimo di forme fonda- mentali. In effetti, non è escluso che la massima parte di ciò che, al di fuori delle cerchie più ristrette degli esperti di jazz, viene presentato come improvvisazione, sia in realtà già stato provato precedentemente. La pseudo-individualizzazione si estende non solo all’improvvisazione, ma a tutto il settore, specialmente agli stimoli armonici e timbrici, ben pianificati dalla musica leggera, che seguono la regola di risvegliare la parvenza dell’immediato e dello specifico, dietro al quale, però, c’è so- lo la routine dell’arangiamento (Adorno, 2002, p. 39). Adorno quindi riprende il discorso insussistente sul jazz commerciale, introducendovi anche una nuova componente, rappresentata dall’improvvisazione, ac- cusando i musicisti di improvvisare in maniera non spontanea e per pubblicità. Improvvisazione, invece, significa proprio distaccarsi e al- lontanarsi completamente da quella che lo stesso francofortese defini- sce “routine dell’armonizzatore e dell’arrangiatore”; improvvisare si- gnifica creare coinvolgimento, stupore e sintonia con il proprio pub- blico, facendolo sentire parte attiva e non alienata, come invece ritene- va Adorno.

2.3. Il jazz come parte della musica leggera

Per il filosofo francofortese la stragrande quantità di tutto ciò che passa sotto il nome di jazz presso la coscienza pubblica va attribuito alla pseudo-individualizzazione. Il jazz, anche nelle sue forme più raf- finate, fa parte della musica leggera, insediandosi come un bene sacro ed empio insieme; nell’ambito della musica leggera, il jazz ha certa-

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mente i suoi meriti, in quanto in confronto all’idiozia della musica leg- gera derivata dall’operetta post Strauss, ha messo a punto una capacità tecnica, una presenza di spirito, una concentrazione altrimenti elimina- te dalla musica leggera, e anche una certa capacità di differenziazione ritmica e timbrica. Ma, per Adorno, il jazz è da osservare criticamente perché crede di potersi porre come moderno, magari come avanguar- dia. Invece, tutte le forme reattive delle epoca passate, che sono pene- trate nel jazz, vengono solo riprodotte allo stesso modo, in devota ap- provazione. Inoltre, rimane perfettamente valida per il jazz la defini- zione che ne ha dato uno dei suoi più autorevoli conoscitori americani, Winthrop Sargeant, per il quale esso è una trovata acustico-sportiva per riunire cittadini comuni. In particolare, nel suo libro “Jazz, Hot, and Hybrid” Sargeant sostiene che il jazz accentua una regolarità con- formisteggiante, facendo affondare la coscienza individuale in una specie di autoipnosi di massa. Dal punto di vista sociale, la volontà in- dividuale viene assoggettata e i singoli che vi prendono parte non sol- tanto sono uguali, ma virtualmente indistinguibili tra loro (Sargeant, 1995). In questo senso la funzione sociale del jazz coincide con la pro- pria storia, che è la storia di un’eresia recepita dalla cultura di massa; certo nel jazz è nascosto il potenziale di un’evasione dalla cultura per coloro che non vi sono stati ammessi o che si sono autoesclusi. Ma il jazz è stato sempre irretito dall’industria culturale e pertanto dal con- formismo sociale e musicale; alcune famose denominazioni che ne in- dicano le diverse fasi come swing, bebop, cool jazz sono anche slogan pubblicitari e segni del processo d’assorbimento. É errore di troppa ingenuità per Adorno ritenere che i criteri della produzione musicale autonoma valgano per la musica leggera e le sue varianti più o meno elevate, se si continua a interpretarla secondo la sua interna costituzio- ne compositiva o anche psicologica. L’idea della preponderanza del carattere di merce su ogni possibile carattere estetico, spiange Adorno a considerare ogni singola canzonetta la réclame di se stessa, l’esaltazione del suo titolo, come avviene nelle musiche stampate di canzoni americane dove le parole del titolo vengono per lo più eviden- ziate sotto le note con caratteri maiuscoli. Tutta la musica leggera po- trebbe ben difficilmente avere la diffusione e l’efficacia che ha, senza quello che in America si chiama plugging (rendere popolare con pub- blicità inesistente); le canzoni prescelte per diventare best sellers ven- gono martellate nella testa degli ascoltatori, finché questi devono rico- noscerle e quindi, secondo il calcolo esatto degli psicologi della pub-

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blicità musicale, amarle. Ma nonostante tutte le previsioni non bisogna guardare con indifferenza al materiale usato per le canzoni; perché una di queste diventi un successo deve rispondere ad un minimo di esigen- ze: deve, ad esempio, possedere elementi del tipo dell’idea, del tema, divenuti in una proporzione realistica con l’abituale. Lo studio di que- ste strutture, condotto sia con analisi musicali di canzoni, sia con in- chieste nel pubblico, dovrebbe rappresentare secondo Adorno un’interessante campo d’azione per una sociologia musicale degna di questo nome (Adorno, 1960, p. 77).

La visione “critica” di Adorno sul jazz costituisce un esempio, for- se insuperato, di una riflessione incapace di uscire dai limiti di un idea- lismo preconcetto. È abbastanza singolare, inoltre, il fatto che il nucleo centrale della visione di Adorno, in merito al declino e alla dissoluzio- ne dell’estetica occidentale ad opera dell’elemento negro, corruttore e degradante, proprio del jazz, fosse stato precedentemente proposto dallo stesso filosofo su una rivista musicale nazista: nel 1934 Adorno aveva scritto su “Die Musik”, alcuni articoli in cui approvava il divieto di far “Neger jazz”, considerato un “cattivo prodotto di artigianato”, distruggeva l’operetta di un compositore ebreo e, infine, tesseva le lodi di un coro maschile che cantava le poesie di Baldur von Schirach, il noto capo della gioventù hitleriana. Come riporta anche l’articolo di Paola Sorge, pubblicato su La Repubblica il 29 luglio 2009, il depri- mente tentativo di ingraziarsi il partito nazista fu scoperto solo nel 1963, grazie ad uno studente che pubblicò sul giornale studentesco “Diskus” una lettera aperta in cui chiedeva ad Adorno i motivi che lo avessero spinto a scrivere per una rivista dichiaratamente antisemita, il filosofo francofortese derubricò quella collaborazione come atto di mera “stupidità”, e confidò nella clemenza dei lettori.

 

 

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