Splendore prima del buio
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che ne fecero parte non erano legati soltanto da reciproca stima, ma anche e soprattutto da una notevole comunanza di gusti e di idee. Si erano trovati insieme molto spesso a discutere di musica e ad ascoltare dischi nell’abitazione di Gil Evans, un modesto stanzone nell’interrato di una casa nella 55a Strada di New York, e avevano constatato di condividere le opinioni dell’arrangiatore canadese, che voleva cimen- tarsi in qualcosa di nuovo riallacciandosi però alle esperienze che ave- va potuto fare con l’orchestra di Claude Thornhill, per cui aveva scrit- to diverse partiture. Anche se si era congedato dal suo leader proprio per divergenze di carattere musicale, Evans pensava che il suono che questi aveva trovato per la sua formazione meritasse di essere ripreso e rielaborato da un complesso di jazz. Quel sound era caratterizzato dall’uso dei corni francesi (a cui fu poi aggiunto un basso tuba) che condizionavano, per la loro limitata estensione, il modo d’impiego de- gli altri strumenti.
La loro musica piacque molto agli habitués dei locali di Broadway (in particolar modo ai clienti del Royal Roost), ma era troppo raffinata per poter essere “venduta” a un pubblico più vasto, e così, dopo quin- dici giorni di esibizioni, il complesso dovette sciogliersi. Ma coloro che avevano partecipato all’impresa non se ne dimenticarono, e furono lie- ti di rispondere all’appello di Miles Davis quando questi, alcuni mesi dopo, li riconvocò per registrare, in tre riprese, dodici pezzi rappresen- tativi dello stile del gruppo; quei pezzi, incisi negli studi della Capitol, furono eseguiti da tre formazioni lievemente differenti, in cui, oltre a Davis, Mulligan, Konitz e Lewis e a batteristi di valore come Max Roach e Kenny Clarke, si possono ascoltare un corno francese e un basso tuba, indispensabili per rievocare quel morbido, opaco, suono dell’orchestra di Thornhill, che aveva costituito il punto di partenza degli esperimenti del gruppo. Oltre a quel suono però, c’era anche l’animazione jazzistica dovuta all’apporto dei solisti, della quale Gil Evans aveva sentito la mancanza nella formazione del suo ex leader; gli assoli non erano tuttavia impetuosi, incisivi: al contrario erano leggeri, pacati, cool, e si inserivano in una trama sonora ricca di preziosità (Po- lillo, 1997, p. 229).
Non ci furono altre notevoli invenzioni nella breve stagione del cool jazz, la quale raggiunse il suo culmine intorno al 1949 e si conclu- se due o tre anni dopo. Il prelibato jazz di Davis lasciò il segno, tanto da essere subito imitato in America e in Europa. Ad ogni modo, non si può dire che gli arrangiatori che ad esso si ispirarono abbiano saputo
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mantenersi all’altezza dello standard stabilito nelle sedute per la Capi- tol: la maggior parte di essi fece della musica tanto pretenziosa quanto meccanica e fredda, che fu consumata in gran quantità fino a essere presto dimenticata.
Questo fu il destino del jazz che prese il via a Los Angeles, nei primi anni ’50, grazie a Shorty Rogers, trombettista e arrangiatore on- nipresente, che trasformò la grande città californiana in un attivissimo centro jazzistico. La California era sempre stata una provincia di fron- tiera nel mondo del jazz, anche se aveva ospitato, fin dagli anni prece- denti la prima guerra mondiale, dei musicisti arrivati da New Orleans. La fiamma del jazz moderno, che era stata accesa a Hollywood da Gil- lespie e Parker, era tenuta in vita praticamente in un solo locale, in Ca- lifornia, il Lighthouse, ad Hermosa Beach, pochi chilometri a Sud di Los Angeles; lo dirigeva Howard Rumsey, un ex bassista di Kenton (Polillo, 1997, p. 230).
Il momento della nascita ufficiale del nuovo jazz della Costa Occi- dentale può essere fissato in un giorno dell’estate del 1950, quando l’impresario Gene Norman (allora il più attivo, nel campo del jazz, nell’area di Los Angeles) organizzò una seduta di registrazione, riu- nendo attorno a Shorty Rogers alcuni membri dell’orchestra di Ken- ton. Benché più di un osservatore della scena jazzistica abbia identifi- cato il cosiddetto West Coast jazz nello stile dell’arrangiatore Shorty Rogers, ci sembra poco probabile che il nuovo jazz californiano avreb- be assunto l’importanza che ebbe se ad esso non avesse dato, all’inizio, un contributo decisivo Gerry Mulligan, che si trovò a suonare, nell’estate del 1952 in un locale di Los Angeles, The Haig, in un quar- tetto senza pianoforte costituito su invito di Dick Bock, un intrapren- dente giovanotto che si occupava della pubblicità del locale. Quel quartetto entusiasmò anche Bock al punto da indurlo a varare un’etichetta discografica, la Pacific Jazz, e a incidere per essa i primi dischi con il neonato complesso.
Quando il primo 78 giri del quartetto fu pubblicato, i cultori del jazz presero atto dell’avvento di un nuovo protagonista e di un inedito, seducente suono; quella musica aveva un profumo peculiare ed era co- struita con una economia decisamente spartana di mezzi. L’asprigna dolcezza del sassofono baritono di Mulligan si sposava perfettamente con la voce, pastosa e carezzevole, della tromba di Chet Baker, che suonava al suo fianco; la musicalità e la nitidezza delle linee melodiche, il puntualissimo gioco di insieme, il contrappunto e il funzionale so-
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stegno dei ritmi, propulsivo quanto discreto, erano altrettanti tratti di- stintivi di quel jazz rilassato e robusto allo stesso tempo, che si diffe- renziava già nettamente dal cool jazz, dal quale peraltro derivava (Po- lillo, 1978, p. 194).
Gli uomini della Costa Occidentale riuscirono a restare per qual- che anno al centro della scena del jazz; la loro musica non era eccitante e divertente come quella che i sacerdoti dello swing avevano imposto al mondo quindici anni prima, ma, pur essendo più sofisticata e niente affatto ballabile, riusciva perfettamente “digeribile” anche per l’uomo della strada; dopotutto era una musica bianca e la gente lo avvertiva, pur non rendendosene conto pienamente.
In pochi mesi, la crisi che aveva afflitto il mondo del jazz per qual- che anno poté considerarsi superata; per i musicisti bianchi quanto meno, perché i neri, salvo rare eccezioni, continuarono a passarsela piuttosto male. Gran parte di coloro che rimasero a Los Angeles si la- sciarono sempre più assorbire dall’anonimo, ma molto remunerativo lavoro di studio: erano tutti strumentisti capaci, che sapevano leggere a prima vista le parti più difficili, ed erano in grado di cavarsi d’impaccio in ogni situazione, sia negli studi d’incisione della Case di dischi, sia in quelli annessi agli stabilimenti cinematografici.
Negli anni ’60, il panorama era ormai profondamente mutato in California; ad animarlo, c’era una nuova leva di musicisti, parecchi dei quali neri: anche i migliori fra loro non riuscirono, però, a far parlare di sé. I riflettori erano ancora una volta puntati su New York, e del re- sto anche i nuovi californiani, di origine o di elezione, aspettavano l’imboccata dai neri dell’Est, che suonavano un jazz più “caldo” e più “duro”: la perfetta antitesi di quello che era stato definito cool e che era stato poi ripreso e imbellettato a Los Angeles. A seguire la direzio- ne indicata dagli uomini del cool jazz non rimase che John Lewis con il suo Modern Jazz Quartet, che continuerà per molti anni a fare della musica solenne, quieta e “rispettabile”, per la delizia del pubblico dei conservatori e delle società concertistiche del vecchio continente (Po- lillo, 1997, p. 233).
6.3. L’hard bop
É molto difficile dare un giudizio complessivo e sintetico degli an- ni ’50 negli Stati Uniti. Fu un periodo di transizione, ricco di ogni sor-
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ta di contraddizioni, che cominciò all’insegna della guerra di Corea e della caccia alle streghe promossa dal senatore Joseph McCarthy e che si concluse con le prime rivolte dei neri degli stati meridionali, ancora incerti sulla loro identità e sul loro ruolo nella vita americana.
Qualcosa cominciò a cambiare durante i sonnolenti “Fifties”, e non deve far meraviglia che i primi ad avvertire, sia pure in maniera confusa che il mondo stava evolvendo furono alcuni artisti. Si potreb- be cominciare con il menzionare Jackson Pollock, la cui straordinaria avventura nel campo della pittura gestuale si era già conclusa nel 1956, e si potrebbe anche ricordare qualche attore cinematografico di tipo nuovo, come James Dean e Marlon Brando, più irrequieti e sensibili dei loro “fratelli Maggiori” (De Stefano, 1990, p. 102).
Verso la metà degli anni ’50, il mondo del jazz era diviso in due schieramenti configurati in modo abbastanza chiaro: da un lato erano i bianchi, sofisticati, “musicali”, non di rado snervati e calligrafici, e qualche volta solenni, intellettualistici, ancora in parte legati all’estetica del cool jazz; chi fra questi si spingeva più avanti vagheggiava una mu- sica ambiziosa, concertistica, prevalentemente scritta, a cui fu dato il nome di third stream music perché voleva rappresentare una “terza corrente” in cui confluissero e si confondessero in vario modo, il jazz e la musica di tradizione colta. Dall’altro lato, invece, erano i neri, che ritrovarono se stessi e la forza di riprendere il cammino, in un jazz lar- gamente improvvisato, aggressivo, bruciante, e molto semplice, fonda- to sul blues. Questa musica forte finì per prevalere nel giro di tre o quattro anni, distraendo l’attenzione dei critici e degli amatori del jazz “bianco” (Hodeir, 1958, p. 230).
Ci furono, però, musicisti bianchi che fecero parlare molto di sé per ciò che fecero assieme a dei colleghi di colore; uno di questi fu il trombonista Kai Winding, che per iniziativa di Ozzie Cadena, dirigen- te della casa discografica Savoy, costituì insieme a J. J. Johnson un quintetto, swingante, musicale e tecnicamente senza alcuna pecca, che contribuì ad elevare sensibilmente il livello dell’impiego del trombone, uno strumento che attraversò allora il suo periodo più fortunato (Ho- deir, 1958, p. 232).
Ben diverse furono le imprese di coloro che si “buttarono” sul blues, soprattutto di quelli che si rifecero al rhythm and blues, che giu- sto in quegli anni uscì dal ghetto nero in cui aveva sempre vissuto, per diventare un prodotto di largo consumo sotto il nuovo nome di rock and roll. Lo aveva battezzato così Alan Freed, un intraprendente disc
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jokey che si era accorto che il rhythm and blues nero riusciva gradito anche al pubblico giovanile bianco, e ne era diventato l’instancabile, e non certo disinteressato, propagandista (Mauro, 1993, p. 188). I risul- tati del martellante battage fatto attraverso la radio, prima da Cleve- land e poi da New York, furono molto più vistosi di quanto lui o altri avessero potuto immaginare: tra il 1955 e il 1956 il rock and roll di- venne l’oggetto di un fanatico culto collettivo non dissimile da quello che vent’anni prima aveva innalzato agli altari le grandi orchestre swing. Il rock and roll non si identificava sempre col rhythm and blues, i prodotti più fortunati potevano considerarsi degli ibridi fra quella musica e ciò che nel gergo degli addetti ai lavori passava sotto il nome di country and western o hillibilly, la musica bianca delle cam- pagne del West. Al mondo del country and western (lontanissimo da quello del jazz) erano appartenuti ai loro esordi, due personaggi che ebbero un ruolo determinante nella prima affermazione del rock and roll: Bill Haley, mediocre chitarrista cantante e leader di un dozzinale complessino, ed Elvis Presley, un cantante giovanissimo che aveva ascoltato attentamente i più esagitati tra i blues shouters neri e faceva del suo meglio per imitarli.
Trascurando qualche pur significativo precedente, si può afferma- re che il pezzo che fece esplodere la nuova follia collettiva fu Rock
around the clock, ricalcato su un brano di rhythm and blues, inciso su
disco da Bill Haley nel 1954; esso fu poi inserito nella colonna sonora di un film importante, Blackboard jungle (Il seme della violenza), ed ebbe l’effetto dirompente di una bomba, tanto che attorno ad esso fu realizzato in fretta e furia un film dallo stesso titolo, in cui figurava an- che Haley. Nonostante la sciatteria del soggetto, della sceneggiatura e la povertà dei mezzi impiegati, quel filmetto suscitò indescrivibili entu- siasmi; durante le proiezioni, i ragazzi si mettevano a ballare nelle cor- sie dei cinematografi, proprio come avevano fatto quelli che avevano vent’anni quando Benny Goodman si presentò davanti a loro al Para- mount; qualcuno doveva essere addirittura portato fuori dalla sala in barella, in stato di agitazione. Evidentemente quella musica era quanto ci voleva per mandare invisibilio i giovanissimi e per riportarli nelle sa- le da ballo (Mauro, 1993).
Il r’n’r contribuì ad aprire una breccia nella barriera eretta fra le razze: i ragazzi bianchi e quelli neri si mescolavano con disinvoltura, come non si era mai visto fare in passato, per ascoltare gomito a gomi- to la stessa musica, e i loro beniamini potevano essere indifferentemen-
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te dell’uno o dell’altro colore. Accanto ai bianchi che avevano dato il via alla nuova moda erano infatti venuti a collocarsi subito alcuni can- tanti e strumentisti neri, che fino a quel momento avevano inciso di- schi soltanto per le cosiddette “indies”, le case discografiche indipen- denti che per anni erano state le uniche dispensatrici di rhythm and blues (Mauro, 1997, p. 201). Inoltre, gli uomini del r’n’r’ (i bianchi come i neri) si trovarono pienamente d’accordo su di un punto: fare spettacolo eccitando il pubblico con espedienti di facile effetto. Si tro- varono d’accordo anche nell’adottare un beat diverso da quello tipico del jazz, perché fondato quasi esclusivamente sulla violenta scansione di terzine; che fosse venuto il momento di accogliere la musica degli afro-americani, sia pure nelle sue forme più semplici, fu confermato dal grande successo popolare della cantante Mahalia Jackson, che, scritturata dalla Columbia nel 1954, rese presto familiari al mondo in- tero i gospel songs, i canti del Vangelo.
Non si trattava, neppure in questo caso di una novità; i gospel
songs, proprio nella forma resa popolare dalla Jackson, erano ben co-
nosciuti da più di 20 anni; solo che erano rimasti confinati, ancor più del rhythm and blues, nelle comunità nere d’America: i loro antenati altro non erano che gli spiritual, i jubilees, i sermoni dei predicatori e più in generale gli inni che avevano cominciato a risuonare nelle chiese del Sud fin dagli anni della schiavitù; ma i vecchi inni erano differenti: erano nati prima del blues e quindi molto prima del jazz, e per lungo tempo non ne furono minimamente influenzati. I gospel songs invece nacquero proprio dall’ibridazione degli inni religiosi con il blues e il jazz, tentata per la prima volta da Thomas A. Dorsey, un musicista ne- ro arrivato da Atlanta a Chicago, dove si era fermato nei primi anni ’20, con lo pseudonimo di Georgia Tom (Sterpa, 1959, p. 142).
Il rock and roll, così, si avvicinò sempre di più alla musica gospel, con cui fini per fondersi in quella che, in anni più recenti, è stata chiamata soul music, di cui Ray Charles, James Brown e Aretha Frank- lin sono i più amati esponenti. Soul music non tanto perché “musica dell’anima”, e cioè spirituale, ma di una spiritualità squisitamente nera, a cui non è estranea una componente di eccitazione, che si manifesta in un comportamento euforico, giubilante, in cui commozione e alle- gria sono egualmente intense e si confondono, perché, appunto, musi- ca “nera”, riservata dunque a coloro che hanno imparato a chiamarsi soul brothers e soul sisters, i fratelli e le sorelle dell’ “anima”, accomu- nati nel destino dal colore della pelle e per questo solidali, anche e so-
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prattutto nella lotta, nella resistenza all’uomo bianco, “the Man”, co- me si erano abituati a chiamarlo fin dai tempi in cui dovevano obbe- dirgli, nelle campagne del Sud (Jones, 1994, p. 157).
Anche nel campo del jazz nero, che il clima stesse mutando, che un nuovo spirito animasse i jazzmen di colore, e che il pubblico desse prova di una diversa disposizione nei confronti della loro musica, si cominciò ad avvertire grazie ai consensi che ottenevano due grandi or- chestre, quella di Count Basie, che iniziò allora la sua trionfale ascesa, superando in popolarità, per qualche anno persino la compagine el- lingtoniana, e quella di Lionel Hampton, che era piuttosto grossolana ma che ebbe nelle sue file, nell’estate 1953, alcuni giovani solisti di va- lore che avrebbero avuto una rilevante influenza sui loro colleghi: i trombettisti Clifford Brown e Art Farmer, il trombonista Quincy Jo- nes, l’altosassofonista Gigi Gryce e qualche altro.
Furono questi complessi e i loro principali solisti i responsabili dell’ennesima riforma della musica jazz, i cui effetti sarebbero stati du- raturi; ma più che di una riforma si dovrebbe parlare di una riscoperta delle fonti, di una rivalutazione dei caratteri fondamentali del jazz: l’improvvisazione, l’impeto ritmico, l’eccitazione e il blues feeling, il senso del blues (tutto questo era stato trascurato dai “californiani”). Il punto di partenza e di riferimento di questa nuova generazione di jazzmen fu il bop, di cui la loro musica può considerarsi una reincar- nazione; ma il nuovo bop era più semplice, più aggressivo, caldo e vi- brante di quello di Parker, di Gillespie e di Powell, e anche meno drammatico (Malson, 1968).
Era, “funky”, “earthy” (terreno, secondo una traduzione letterale) ed era soprattutto robusto e duro; si parlò di neo-bop, di fanky jazz e più spesso di hard bop, bop duro (Mauro, 1997, p. 210).
I musicisti non facevano più differenza fra il modo di comportarsi nei locali jazz, nel lavoro di ogni sera, e il modo di suonare in studio di registrazione; una volta non era così: quando incidevano dischi, i jazzmen sapevano di dover dire tutto nel giro di tre minuti o poco più, quanto durava una facciata di disco a 78 giri, e si sforzavano di dare, in quel breve lasso di tempo, il meglio di sé. Poi, con la diffusione dei long playing, che soppiantarono i dischi a 78 giri nei primi anni ’50, tutto cambiò: i musicisti cominciarono a sentirsi liberi da ogni vincolo. Gli hard boppers furono i primi ad abusare della conquista della liber- tà, ma non furono affatto i soli: con il passare degli anni, le cose, sotto questo punto di vista, “peggiorarono” notevolmente. Seguendo
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l’esempio dei migliori hard boppers, quasi tutti gli uomini del jazz fe- cero del loro meglio per aggiornare il proprio stile (Mauro, 1997, pp. 211-213).
Tante altre cose erano accadute, nel frattempo, nel mondo del jazz dell’Est: nel 1954 era stata varata, dall’impresario George Wein, con l’aiuto di Louis Lorillard, un ricco industriale del tabacco, la prima edizione del Festival di Newport, divenuto col tempo un’istituzione; l’anno successivo era entrato in scena con prepotenza l’organo elettri- co che, sotto le dita di Jimmy Smith, rivelò insospettate risorse che convinsero una lunga schiera di musicisti a dedicarvisi. Anche il flauto cominciò in quegli anni ad essere sempre più usato nel jazz, in cui pre- se il posto dell’ormai obsoleto clarinetto; il pioniere era stato Wayman Carver, nell’orchestra di Chick Webb, ma i suoi veri propagandisti fu- rono Frank Wess, dell’orchestra di Basie, Herbie Mann, Yusef Lateef e qualche altro attivo, come questi, prevalentemente a New York. Si era anche assistito al ritorno di Miles Davis che, dopo aver attraversato momenti difficili negli anni che seguirono l’esperienza cool, si era alli- neato con gli hard boppers dirigendo un eccellente complesso in cui si trovarono fianco a fianco solisti di grandi doti come il pianista bianco Bill Evans, che iniziava allora la sua brillante carriera, Cannonball Ad- derley e il tenorsassofonista John Coltrane, che a poco a poco mise a punto un linguaggio nuovissimo con cui, anni dopo, tutti avrebbero