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Il dibattito politico: le contestazioni al progetto e le proposte alternative

Dopo aver analizzato la struttura ed il contenuto dei vari accordi di partenariato economico è necessario prendere in considerazione anche le numerose critiche piovute dall’opinione pubblica. Innanzitutto, gli APE sono stati ripetutamente accusati di essere un progetto eurocentrico. Sin dalle prime indicazioni fornite dal Libro Verde del 1996 è stata infatti l’UE a regolare i rapporti con gli Stati ACP, imponendo una sua visione esclusiva

342 Accordo di partenariato economico tra gli Stati del CARIFORUM, da una parte, e la Comunità europea e i

suoi membri, dall’altra, in GUUE L 289, 30 ottobre 2008, Preambolo, capoverso 15.

343 Ivi, Allegato IV A.

344 European Commission, The CARIFORUM-EU Economic Partnership Agreement (EPA). A new partnership

for trade and development, April 2012.

https://eeas.europa.eu/sites/eeas/files/implementing_epa_april_12.pdf .

95 della crescita economica. Anche nella segmentazione delle regioni commerciali l’Unione ha dimostrato la sua piena titolarità nel controllo del processo decisionale, suddividendo i vari Paesi senza dare alcuna importanza alle necessità individuali: come visto in precedenza, ciò ha portato alla conclusione di accordi di liberalizzazione ad hoc e in alcuni casi al trasferimento di Stati da un gruppo ad un altro. L’accento posto sulla promozione dell’integrazione regionale tradisce una visione puramente eurocentrica del mondo che trascura le difficoltà degli ACP: nonostante l’articolo 37, paragrafo 5 dell’Accordo di Cotonou affermasse che gli APE avrebbero dovuto essere avviati solamente «con i Paesi che si considerano pronti a compiere tale passo, al livello che essi ritengono adeguato e conformemente alle procedure concordate dal gruppo di Stati ACP», l’UE ha spinto le varie regioni a presentare delle proposte di liberalizzazione che richiedevano ai vari attori di aver prima concordato una tariffa esterna comune346.

Ma le critiche principali agli APE sono state mosse su due fronti: da una parte i Paesi ACP, che hanno avanzato delle perplessità per quanto riguardava l’applicazione del GATT agli accordi di partenariato economico; dall’altra l’opinione pubblica e numerose ONG, che hanno accusato il progetto APE di non portare quello sviluppo economico e quella riduzione della povertà che l’Unione aveva promesso, dando vita alla c.d. STOP EPA Campaign. L’importanza di queste organizzazioni non governative all’interno dello scenario comunitario era emersa già con la firma dell’Accordo di Cotonou, il quale aveva inaugurato la collaborazione tra UE e attori non statali nella politica di assistenza rivolta ai Paesi ACP. In un documento del 2000, la Commissione aveva riconosciuto l’apporto delle ONG nella definizione delle politiche, nella gestione dei progetti e nell’integrazione europea, sostenendo che il loro contributo «aiuta a far accettare l’Unione europea presso l’opinione pubblica»347. Le contestazioni agli APE si sono intensificate nei primi anni 2000 ed hanno raggiunto il culmine alla fine del 2004, quando alcune ONG legate ai network europei Confédération Européenne des ONG d’urgence et de développement (CONCORD) ed European Solidarity Towards Equal Participation of People (EUROSTEP) hanno lanciato la STOP EPA Campaign.

Nel novembre dello stesso anno, un gruppo di ONG impegnate nel fronte anti-APE ha pubblicato un documento dal titolo Six Reasons to Oppose EPAs in their Current Form. Nel

346 M. Meyn, Economic Partnership Agreements: A “historic step” towards a “partnership equals”?, Overseas

Development Institute, Londra, marzo 2008, p. 4.

347 Commissione europea, La Commissione e le organizzazioni non governative: rafforzare il partenariato,

96 testo venivano elencati sei aspetti, definiti “miti”, che l’Unione europea stava propugnando con i nuovi accordi ma che secondo queste organizzazioni venivano puntualmente disattesi348. Innanzitutto, che gli APE avrebbero promosso lo sviluppo: le ONG sostenevano che l’apertura dei mercati non sarebbe dovuta avvenire secondo i vincoli del GATT ma attraverso una partnership paritaria e che senza le giuste attenzioni avrebbe potuto diventare dannosa per questi Paesi. In secondo luogo, che il sistema commerciale multilaterale fosse il segno distintivo della politica esterna dell’UE: convinte che la conclusione di accordi di liberalizzazione multilaterali tutelasse maggiormente gli Stati ACP, le ONG affermavano che questa multilateralità stesse venendo meno nei negoziati APE a causa della dipendenza commerciale di questi Paesi dall’Unione europea. Un altro mito sosteneva che i governi degli Stati ACP volevano gli APE: mentre secondo la Commissione il fatto che questi Paesi avessero accettato di aprire i negoziati nel 2003 costituisse un’implicita manifestazione della loro volontà di aderire al progetto, a sostegno della loro tesi contraria le ONG riportavano le dichiarazioni del Presidente del Botswana e del governo mauriziano, i quali si dicevano preoccupati per la strada che stavano imboccando i negoziati APE. Il quarto punto verteva sulla convinzione che gli accordi fossero necessari per la compatibilità con la normativa dell’OMC: in merito a questo tema, le ONG sostenevano la proposta avanzata dai Paesi ACP, ovvero una riforma dell’articolo XXIV del GATT che creasse un trattamento speciale e differenziato (SDT349) per tutti i PVS o che modificasse la Enabling Clause. Ancora, che i costi finanziari dei nuovi accordi avrebbero potuto essere superati: mentre l’UE sosteneva che per i Paesi ACP i vantaggi derivanti dalla liberalizzazione sarebbero stati superiori alla perdita di reddito tariffario iniziale, le ONG avanzarono numerosi studi che dimostravano come la diminuzione delle entrate tariffarie avrebbe invece avuto un forte impatto sui servizi e sul welfare di questi attori, in modo diverso tra Stato e Stato. Infine, l’ultimo punto sostenuto dall’UE era che gli APE avrebbero promosso l’integrazione regionale: su questo aspetto, già affrontato nel paragrafo precedente e duramente contestato sia dalla società civile che dagli Stati ACP, le ONG riconoscevano i vantaggi che questa avrebbe potuto apportare, tuttavia avanzavano forti dubbi sul fatto che gli APE avessero potuto effettivamente propugnarla, a causa soprattutto della scarsa diversificazione del commercio intraregionale tra i Paesi facenti parte dello stesso gruppo.

348 Six Reasons to Oppose EPAs in their Current Form, November 2004. http://www.hubrural.org/IMG/pdf/epa_joint_paper_eng.pdf .

97 Questo articolo ha rappresentato la base di partenza per la discussione dell’opinione pubblica sugli APE, contribuendo a mettere in moto una sensibilizzazione generale sul tema. Il momento clou della STOP EPA Campaign è stato raggiunto alla fine del 2007: il 27 settembre milioni di persone guidate da ONG e attivisti hanno sfilato per le città di Europa, Africa, Caraibi e Pacifico in occasione di quello che è stato definito lo STOP EPA Day, una giornata di mobilitazione con la quale si chiedeva all’UE di rivedere il progetto senza forzare gli ACP alla firma degli APE. Gli Stati europei si sono dimostrati molto attivi su questo fronte anche gli anni seguenti, promuovendo una nuova giornata di mobilitazione anche nel 2009 dopo che alcuni Paesi ACP avevano deciso di firmare un Interim EPA. Tuttavia, tirando le somme bisogna constatare che questa campagna, che mirava a bloccare i negoziati e proporre delle alternative al progetto, non ottenne i risultati sperati. Il fallimento dell’iniziativa fu una conseguenza della scarsa preparazione degli ACP: se questi ultimi si fossero dimostrati più disponibili ad intavolare discussioni con le ONG e a farsi aiutare probabilmente il movimento di protesta avrebbe potuto ottenere un maggior successo.

Tra gli attori più energici emersi in quel periodo è sicuramente degna di citazione la Oxford Committee for Famine Relief (OXFAM), una confederazione internazionale di ONG impegnata nella lotta alla povertà globale, che nell’aprile 2005 ha pubblicato un articolo intitolato Making trade work for development in 2005. What the EU should do. Le richieste avanzate riprendevano quanto detto nel documento, citato nel paragrafo precedente, stilato dalle due istituzioni britanniche DFID e DTI: in particolare, OXFAM chiedeva all’Unione di lasciare un maggiore spazio di manovra agli Stati ACP, senza imporre loro una liberalizzazione forzata tramite la condizionalità dell’aiuto o la mancanza di alternative valide350. In un secondo documento, pubblicato nell’aprile 2008, OXFAM affermava che la scadenza del 2007 imposta dall’UE per la firma degli accordi era stata una potente strategia contrattuale: in questo modo infatti, a causa del timore di un declassamento nel sistema SPG+, molti Stati ACP erano stati indotti a prendere in considerazione la firma dell’APE come unica possibilità351. Nonostante l’integrazione regionale fosse uno degli obiettivi dichiarati dei nuovi accordi, l’Unione veniva accusata di aver fallito nel proprio intento e di aver prodotto una vera e propria “disintegrazione regionale”, portando alla frammentazione dei vari blocchi negoziali e alla conclusione di APE diversi tra loro in ogni regione352.

350 OXFAM International, Making trade work for development in 2005. What the EU should do, in OXFAM

Briefing Paper 75, May 2005, p. 15.

351 OXFAM International, Partnership or Power Play? How Europe should bring development into its trade

deals with Africa, Caribbean, and Pacific countries, in OXFAM Briefing Paper 110, April 2008, p. 7.

98 Se è vero che a partire dal 2004 tutti i raggruppamenti sono entrati a far parte del negoziato, è altrettanto vero che il dibattito pubblico sempre più acceso e le preoccupazioni in materia di sviluppo hanno fatto sì che la ricerca di vie alternative agli APE non si fermasse. Alla fine le strade percorribili individuate dagli studiosi furono due: da una parte si parlava di Alternative EPAs, ovvero l’adozione di alcuni provvedimenti che miravano a modificare gli accordi esistenti senza negare la loro natura; dall’altra di Alternatives to EPAs, indicando una serie di possibili scenari in netto contrasto con gli accordi proposti dall’UE. È proprio questa la visione che viene data all’interno del documento redatto nel febbraio 2006 dall’European Centre for Development Policy Management (ECDPM), nel tentativo di individuare i possibili scenari delle future relazioni commerciali UE-ACP. Come previsto dall’articolo 36, paragrafo 7 dell’Accordo di Cotonou, l’Unione avrebbe dovuto offrire la possibilità di siglare un accordo alternativo ai Paesi che non erano in grado di concludere un APE. Nonostante tutti gli Stati ACP si fossero effettivamente impegnati nei negoziati, alcuni di loro potrebbero aver deciso di stipulare un APE per seguire i partner del loro gruppo: secondo questa logica, i Paesi in questione avrebbero iniziato le trattative del nuovo accordo per solidarietà verso i corregionali, pur preferendo un’ipotetica soluzione alternativa353. I funzionari europei e i negoziatori ACP vedevano la conclusione degli APE come una priorità a cui dedicare tutti gli sforzi, considerandola l’unica via percorribile; al contrario, il documento sottolineava come molte ONG, su tutte ActionAid, sostenessero che i Paesi ACP avrebbero dovuto avere un alternativa valida all’APE già in fase di negoziazione e non solo in caso di rifiuto dell’accordo proposto dall’UE.

Per quanto riguarda gli Alternative EPAs, si parla di “accordi alternativi” piuttosto che di “alternative agli accordi”: il principio di base è quello di estendere il più possibile la flessibilità per quanto concerne la compatibilità con la normativa OMC, e/o conformare l’attuale quadro APE al fine di migliorare alcuni problemi di sviluppo354. Una prima

possibilità alternativa all’assetto originale degli APE sarebbe stata quella di adottare un’interpretazione flessibile delle norme contenute nell’articolo XXIV del GATT: nonostante la Commissione si fosse dimostrata disponibile a trattare questa opzione, i negoziatori ACP temevano che questa disponibilità mascherasse la volontà dell’UE di

353 S. Bilal e F. Rampa, Alternative (to) EPAs. Possible scenarios for the future ACP trade relations with the

EU, ECDPM – Policy Management Report 11, February 2006, pp. 58-59.

https://ecdpm.org/wp-content/uploads/2013/11/PMR-11-EPAs-Scenarios-For-Future-ACP-EU-Trade- Relations.pdf .

99 arrivare alla conclusione di un accordo completo, definito EPA Frankenstein355. È stato questo timore che ha spinto a ricercare nuove alternative, tra le quali quella di un EPA light, ovvero la divisione dell’accordo in due fasi: la prima avrebbe dovuto perseguire l’apertura dei mercati strettamente necessaria a garantire la conformità con le regole dell’OMC, mentre nella seconda si sarebbero potuti intavolare dei negoziati a lungo termine secondo i tempi e i modi decisi dagli Stati ACP. Tuttavia, anche in questo in caso le posizioni delle Parti erano in netto contrasto: mentre i Paesi ACP chiedevano un accesso duty free e quota free delle loro merci, in modo da diminuire il peso della liberalizzazione, l’UE sosteneva che tale asimmetria avrebbe negato la natura dell’accordo, il quale avrebbe rischiato di non riuscire a perseguire gli obiettivi di sviluppo prefissati. Un terzo scenario prevedeva la creazione di un APE con al suo interno un esplicito trattamento speciale e differenziato: questo avrebbe implicato l’abbassamento della percentuale di liberalizzazione a carico degli Stati ACP tra l’85% e l’80%, o in alternativa l’applicazione di quote diverse da Stato a Stato a seconda delle linee tariffarie adottate. Tuttavia, lo svantaggio per questo approccio era che una maggiore flessibilità dell’accordo avrebbe portato ad un rischio sempre più elevato che un membro dell’OMC potesse contestare l’APE con il meccanismo di risoluzione delle controverse dell’organizzazione. Tra le alternative proposte dalle ONG vi era anche quella di introdurre una sorta di “soglia di sviluppo” vincolante nel programma adottato dai PVS per dare vita ad un’area di libero scambio. Ma un approccio in cui la liberalizzazione venisse subordinata al raggiungimento di determinati obiettivi (o soglie) non era compatibile con le norme dell’OMC sugli ALS. Un quinto scenario prevedeva l’applicazione di un APE soltanto per i Paesi ACP non-PMA, mentre gli ACP meno sviluppati avrebbero continuato a godere dell’iniziativa EBA. Anche questa alternativa non sembrava però risolvere il problema, in quanto avrebbe replicato lo stesso schema dell’APE proposto dall’Unione causando gravi danni all’integrazione regionale. L’opzione più interessante apparve quella avanzata dai Paesi ACP del Pacifico, i quali proposero l’adozione di un APE suddiviso in diverse sezioni tra le quali gli Stati avrebbero potuto scegliere in base al loro livello di sviluppo, rendendo così gli accordi più attraenti. Tuttavia, anche questa strada presentava il problema della sezione dedicata alla liberalizzazione delle merci e dei servizi, la quale avrebbe dovuto in ogni caso rispettare l’articolo XXIV del GATT: nel caso in cui l’OMC l’avesse rifiutata, l’accordo avrebbe perso la sua ratio. Alla fine, nessuna di queste opzioni

100 venne presa in considerazione, per il semplice fatto che tutte le alternative proposte dai Paesi ACP finivano inesorabilmente vittime dell’articolo XXIV.

Passando alle proposte Alternatives to EPAs, questi scenari prevedevano l’abbandono della reciprocità e il mantenimento di un trattamento preferenziale per i Paesi ACP da parte dell’UE356. Una prima opzione avanzata nel documento era quella dell’economista Bernard

Hoekman, secondo la quale ai Paesi ad alto reddito sarebbe stata richiesta una liberalizzazione completa su base preferenziale, mentre i PVS avrebbero livellato gli scambi commerciali a livello multilaterale in base alla tariffa che concedevano al loro partner migliore. In questo modo, secondo il principio MFN, gli Stati ACP avrebbero potuto continuare a godere del regime preferenziale concesso dall’Unione. Il problema di questo scenario era che agiva al di fuori dell’articolo XXIV, violando il principio di reciprocità e risultando incompatibile con il GATT. Una seconda alternativa agli APE avrebbe potuto essere il sistema delle preferenze generalizzate dell’Unione europea, sia classico che migliorato (SPG+). In questo modo, i Paesi ACP non-PMA avrebbero tratto vantaggio dalle disposizioni del SPG per i Paesi in via di sviluppo o dall’accresciuto accesso al mercato, mentre i PMA avrebbero continuato a beneficiare dell’iniziativa EBA. Tuttavia, l’Unione considerava l’SPG come un’opzione secondaria ad un APE, poiché si trattava di un regime unilaterale che copriva solamente i settori delle importazioni e dei contingentamenti. Inoltre, contro questo scenario furono solevate numerose critiche: in primis, le condizioni generali di accesso al mercato che garantiva questo sistema erano meno vantaggiose risetto a quelle offerte da Cotonou; poiché non si trattava di un accordo contrattuale, l’SPG non forniva incentivi agli investitori; il sistema di graduazione inserito nel SPG avrebbe ridotto la sua attrattiva come base a lungo termine per gli accordi UE-ACP; dato che tutti i PVS avrebbero avuto diritto al SPG, ciò avrebbe ridotto di conseguenza l’attrattiva del sistema per il mercato del gruppo ACP; infine, visto che gli schemi del sistema seguivano l’Enabling Clause dell’OMC, essi non avrebbero potuto differenziare tra i vari PVS non-PMA e perciò non avrebbero tenuto conto delle esigenze dei Paesi insulari e senza sbocco sul mare. Una terza, e più complessa, alternativa proposta dai Paesi ACP era l’estensione dell’iniziativa EBA in tre possibili modalità: a tutti i Paesi ACP, meno avanzati e non; al gruppo G90357; a tutti i Paesi in via di sviluppo, ACP e non. Ognuna di queste strade presentava però delle

356 Ivi, p. 86.

357 Si tratta di un gruppo di Paesi in via di sviluppo tra i più poveri e piccoli del mondo, che comprende Stati

provenienti dal gruppo ACP, dall’Unione africana e dal gruppo dei PMA. È emerso dalla Conferenza Ministeriale dell’OMC di Cancun (Messico) del 2003 e ad oggi è il più grande organismo commerciale facente parte dell’OMC, con 64 dei suoi membri facenti parte dell’organizzazione.

101 problematiche: estendere l’EBA a tutti gli ACP avrebbe comportato una discriminazione per i Paesi non-ACP, ripetendo in questo modo il regime discriminatorio che si era venuto a creare con le precedenti Convenzioni di Lomé; offrirlo a tutti i Paesi G90 non sarebbe stato discriminatorio e non avrebbe violato l’articolo XXIV, ma questo gruppo di Stati avrebbe prima dovuto essere riconosciuto dalla normativa dell’OMC; infine, estendere l’iniziativa a tutti i PVS significava sostituire il sistema SPG con le disposizioni dell’EBA, con la conseguente apertura del mercato unionale a grandi e competitivi esportatori, tra i quali Brasile, Cina ed India.

Dall’analisi appena eseguita emerge come, nonostante la grande opposizione agli APE e l’impegno profuso dai Paesi ACP, né la strada degli Alternative EPAs né quella delle Alternatives to EPAs fossero realmente percorribile. Per concludere il paragrafo è interessante prendere in considerazione anche l’analisi eseguita dal politologo svedese Ole Elgstrom, il quale ci presenta il dibattito secondo un punto di vista bianco-nero, con l’Unione europea dipinta come un “angelo” dai sostenitori del progetto APE e come un “demone” dai suoi oppositori. La visione angelica viene suffragata dalle parole del Commissario Mandelson, il quale, come riportato all’interno dell’articolo, presenta gli EPA come degli strumenti per lo sviluppo e la promozione dell’integrazione economica regionale, dai quali l’Unione non cerca di trarre vantaggi commerciali poiché gli scambi con gli Stati ACP rappresentano soltanto un mercato marginale358. Elencando tutti i benefici che il progetto porterà a questi Paesi, Mandelson sostiene che la compatibilità con le regole dell’OMC è considerata un elemento essenziale:

«The European Commission cannot maintain illegally a regime that we jointly promised to bring to an end seven years ago»359.

Difendendo la posizione dell’UE, Mandelson attacca anche i critici del progetto affermando che coloro che accusano gli APE di essere una minaccia per lo sviluppo degli ACP mettono in serio pericolo tutti gli altri Stati che stanno lavorando con l’Unione per una riforma economica. I sostenitori dell’“Unione angelo” presentano dunque un’immagine di partner benevolo, preoccupato per il benessere dei Paesi più poveri e sempre pronto ad aiutare. Al contrario, la maggior parte delle ONG sostengono che dietro questa immagine di facciata l’UE celi un’agenda di liberalizzazione orientata solamente ai propri interessi. I documenti redatti dalla Commissione in questo settore rifletterebbero gli interessi delle istituzioni

358 O. Elgstrom, Images of the EU in EPA negotiations: Angel, demon – or just human?, in European Integration

online Papers, vol. 12, 17 dicembre 2008, p. 3.

102 unionali e non le esigenze degli Stati ACP: secondo Bob Jessop, questo approccio rispecchia gli interessi commerciali offensivi dell’UE e viene definito come «aggressivo e neo-