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L’art. 12 del d. lgs. n. 7 del 2016 disciplina espressamente un ulteriore aspetto centrale, quello del diritto intertemporale, dunque il problema di quale sia la legge applicabile alle condotte ricadute nel fenomeno della successione delle leggi nel tempo.

In primo luogo la norma specifica la portata retroattiva della riforma, derogando all’art. 11 disp. prel. c.c., in quanto “le disposizioni relative alle sanzioni pecuniarie civili del presente decreto si applicano anche ai fatti commessi anteriormente alla data di entrata in vigore dello stesso”. Tuttavia, sono sancite due deroghe in ossequio ai principi desunti dall’art. 2, c. 2 e 4 c.p., quello della non irrogabilità della pena quando il fatto non costituisce più reato e dell’applicazione della legge più favorevole al reo, nei casi in cui il procedimento penale sia stato definito con sentenza o con decreto irrevocabili. In siffatte due ipotesi, infatti, il giudice dell’esecuzione è chiamato a revocare la sentenza o il decreto dichiarando che “il fatto non è previsto dalla legge come reato”, per poi

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Gattari, P., Le nuove sanzioni civili ex d. lgs. n. 7/2016: alcuni profili critici di una strana scelta

adottare i provvedimenti conseguenti. Al pari sancisce l’art. 2, c. 2 c.p., che dopo aver affermato la non punibilità per un fatto non costituente più reato aggiunge “e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”.

L’art. 12 si presenta speculare, inoltre, al disposto dell’art. 8 del d. lgs. n. 8 del 2016 in materia di depenalizzazione perseguita mediante l’introduzione di sanzioni amministrative. La precedente condanna penale, di cui cessano gli effetti, diviene giuridicamente irrilevante per qualsiasi altro fine. A questo punto, non è possibile però irrogare la sanzione civile, come non sarebbe stata neppure irrogabile la sanzione amministrativa se il fatto per cui fosse intervenuta la condanna definitiva fosse stato depenalizzato in illecito amministrativo in ossequio al principio di irretroattività delle sanzioni amministrative disposto dall’art. 1 della l. n. 689 del 1981.

Tuttavia la parte civile regolarmente costituita in giudizio può ancora pretendere l’obbligazione risarcitoria nei confronti del condannato nonostante sia venuta meno la condanna penale.

Quando, viceversa, il procedimento penale non risulta concluso ma è ancora pendente al momento dell’entrata in vigore del presente decreto, l’art. 2, c. 2 c.p. impone di dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, utilizzando a tal fine il provvedimento adeguato rispetto alla fase in cui si trova il procedimento, quali il decreto di archiviazione prima dell’esercizio dell’azione penale richiesto dal PM al GIP competente, la sentenza di proscioglimento emessa d’ufficio perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato ex art. 129 c.p.p. o le più specifiche sentenze di non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p. all’esito dell’udienza preliminare o di quelle assolutorie ex art. 530 c.p.p. all’esito del dibattimento.

Se poi, erroneamente, un privato presenta querela o denuncia dei fatti depenalizzati in illeciti civili volendo provocare l’avvio del procedimento penale, gli atti devono essere immediatamente trasmessi al PM che li iscrive nel registro dei fatti non costituenti reati,

il modello 45, per procedere poi all’esercizio del cosiddetto “potere di cestinazione”150

o di archiviazione diretta di cui si è accennato nel precedente capitolo.

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A questo punto la relazione di accessorietà che lega la pretesa civile nel processo penale all’accoglimento dell’azione esercitata dal PM con una condanna del giudice, che ne costituisce infatti il presupposto, obbliga la parte civile a ripetere la domanda risarcitoria in sede civile. Tuttavia, come già rilevato, mentre in ambito amministrativo viene disposta la trasmissione degli atti all’autorità amministrativa competente (salvo che il reato risulti prescritto o estinto per altra causa), in ambito civile è il privato che deve farsi carico della nuova instaurazione del processo deducendo la sua domanda risarcitoria, non essendovi un’autorità pubblica civile titolare di siffatta iniziativa cui logicamente trasmettere gli atti.

Quando poi è stata pronunciata la sentenza di condanna penale, tuttavia essa non risulta ancora definitiva, è il giudice dell’impugnazione penale a dover dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato. La condanna penale cade, ma a questo punto emerge il problema di definire la sorte delle statuizioni civili già disposte dal giudice di primo grado, il quale può aver accolto o meno la domanda risarcitoria della parte civile sempre in maniera non ancora definitiva. Tale questione è stata protagonista di numerose pronunce giurisprudenziali, tra loro fortemente contrastanti.

La prima posizione adottata dalla giurisprudenza di merito151 e dalla sezione V della

Cassazione penale, sebbene in maniera non costante,152 è stata quella di imporre al

giudice dell’impugnazione penale la revoca non solo della condanna penale ma anche delle statuizioni civili.

Diverse sono state le argomentazioni a sostegno di tale tesi: in primiis, l’argomento letterale che richiama l’assenza di una norma transitoria o derogatoria che disponga diversamente, prevista al contrario dall’art. 9, c. 3 del d. lgs. n. 8 del 2016 in materia di illeciti amministrativi, il quale attribuisce espressamente al giudice dell’impugnazione il potere di decidere dei soli capi della sentenza che concernono gli interessi civili. Risulta necessaria, infatti, un’espressa disposizione normativa che deroghi alla disciplina

151

Corte d’Appello di L’Aquila, 14 dicembre 2017, n. 2600.

152 Cass. pen., Sez. V, 5 dicembre 2017, n. 8735; Cass. pen., Sez. V, 12 ottobre 2016, n. 50056; Cass.

pen., Sez. V, 9 marzo 2016, n. 14044; Cass. pen., Sez. V, 7 marzo 2016, n. 32135; Cass. pen., Sez. V, 2 marzo 2016, n. 18478.

generale di cui all’art 538 c.p.p., secondo cui il giudice penale può decidere anche sulla

responsabilità civile solamente quando pronuncia la sentenza di condanna153. Non

risulta al contrario ammissibile un’applicazione analogica in materia di illeciti civili dell’art. 9, in quanto non si rinviene l’eadem ratio presupposta: infatti, mentre in ambito amministrativo è l’autorità amministrativa ad essere titolare del potere d’irrogazione delle sanzioni, tale da giustificare la scelta più garantista di riservare la pronuncia sulle statuizioni civili già decise dall’autorità giurisdizionale penale ad un giudice, che non poteva essere altro se non quello dell’impugnazione penale, in ambito civile ciò non appare necessario in quanto è già preposto all’irrogazione della sanzione un giudice, quello civile, adatto a pronunciarsi anche sulle statuizioni civili.

La regola in commento rappresenta peraltro una norma eccezionale per le quali è esclusa l’applicabilità dell’analogia. Ulteriore disposizione, ad esempio, espressamente derogatoria dell’art. 538 c.p.p. menzionato è rappresentata dall’art. 578 c.p.p., che ammette il giudice dell’impugnazione penale a pronunciarsi anche sugli effetti civili nei soli casi di declaratoria di estinzione del reato per amnistia o prescrizione.

Inoltre, è stato affermato che la soluzione contraria impedirebbe l’esercizio dell’azione davanti al giudice civile competente per il risarcimento del danno, così escludendo la possibilità dell’irrogazione delle sanzioni civili, non pronunciabili dal giudice penale, in

contrasto con la ratio sottesa al d. lgs. n. 7 del 2016154.

Infine, bisogna sottolineare che la conservazione delle statuizioni civili pronunciate in primo grado e non revocate dal giudice di appello pregiudicherebbe l’appellante ponendo nel nulla la sua impugnazione relativa ai capi civili della sentenza, pertanto si dovrebbe quantomeno ammettere il giudice dell’impugnazione alla revoca delle statuizioni quando non ne rinvenga sussistenti i presupposti.

153 Ufficio del Massimario, Rel. n. III/01/2016, Gli interventi di depenalizzazione e di abolitio criminis del

2016: una prima lettura, op. cit.; Cass. pen., Sez. V, 1 aprile 2016, n. 16147; Cass. pen., Sez. V, 19

febbraio 2016, n. 15634; nello stesso senso anche gran parte della dottrina, ad esempio v. Teresi, M., La

sanzione civile tra danni punitivi e misure coercitive, op. cit., p. 1029.

154

Cass. pen., Sez. V, 14 aprile 2016, n. 40259; in tal senso v. anche Bove, M., Un nuovo caso di

La soluzione contrapposta riserva, contrariamente, al giudice dell’impugnazione il dovere di decidere sulla stessa ai soli effetti delle disposizioni e capi della sentenza che concernono gli interessi civili, dal momento che quelli pronunciati nel giudizio di

merito dovrebbero altrimenti sopravvivere piuttosto che essere in ogni caso revocati155.

Siffatta posizione risponde all’esigenza di non costringere la parte eventuale a trasferire la sua pretesa in sede civile e a farsi carico di una nuova azione, con il connesso pericolo della prescrizione dell’illecito ed i rilevanti costi processuali sottesi.

Peraltro, vengono provocati importanti effetti deflattivi per il sistema della giustizia, aderendo dunque ad una lettura costituzionalmente orientata fondata sul principio della ragionevole durata del processo. Essa si fonda anche sull’interpretazione letterale dell’art. 2, c. 2 c.p., in base al quale l’abolitio criminis successiva alla condanna determina la cessazione dell’esecuzione e dei soli effetti penali, mentre non sono menzionati quelli civili.

Ancora, i sostenitori di tale tesi ritengono applicabile il disposto dell’art. 9 del d. lgs. n. 8 del 2016 anche alle sanzioni civili, presupponendolo riferito a tutte le ipotesi di depenalizzazione.

Infine viene invocato l’argomento fondato sulla regola della successione delle leggi nel tempo di cui all’art. 11 delle preleggi, in virtù del quale queste non dispongono che per l’avvenire, dovendo pertanto rimanere ferme le statuizioni civili pronunciate durante la vigenza della legge precedente, in mancanza di un’espressa deroga contraria.

Molte delle argomentazioni riportate vengono utilizzate per affermare che il giudice penale deve pronunciarsi sulle statuizioni civili non solo quando si tratta del giudice dell’impugnazione dopo che sia intervenuta la sentenza non definitiva di primo grado, ma anche quando è il giudice di primo grado ad essere chiamato a dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, nelle forme sopra ricordate, per intervenuta depenalizzazione durante la pendenza del giudizio di primo grado.

155

Cass. pen., Sez. II, 23 marzo 2016, n. 14529; Cass. pen., Sez. V, 8 marzo 2016, n. 35119; Cass. pen., Sez. V, 3 marzo 2016, n. 24029 e 25062; Cass. pen., Sez. V, 15 febbraio 2016, n. 14041.

La rilevanza del contrasto giurisprudenziale ha spinto recentemente la Sezione V della

Cassazione penale156 a rimettere la questione al vaglio delle Sezioni Unite157, le quali

hanno messo fine al dibattito statuendo che il giudice dell’impugnazione deve revocare anche i capi della sentenza che concernono gli interessi civili, accogliendo la prima tesi esposta, cui si sono uniformate le successive sentenze intervenute recentemente sul tema sopra richiamate.

La Corte ha aggiunto, inoltre, che il giudice dell’esecuzione, viceversa, deve revocare la sola sentenza di condanna o il decreto irrevocabile, mentre deve lasciare ferme le disposizioni e i capi che concernono gli interessi civili, confermando l’esclusione della retroattività delle sanzioni civili nelle due ipotesi menzionate nell’art. 12 del decreto.

La Sezione I penale158 è da poco nuovamente intervenuta sul tema, giudicando che la

revoca delle statuizioni civili contenuta in una sentenza definitiva, al contrario, di assoluzione dell’imputato, piuttosto che di condanna, per intervenuta abrogazione del reato e sua trasformazione in illecito civile, risulta inclusa nella competenza del giudice dell’esecuzione, in quanto esse sarebbero state adottate “in totale assenza di potere giurisdizionale”.

Anche la Consulta, negli stessi anni, aveva mostrato di seguire un orientamento conforme a quello adottato dalle Sezioni Unite nell’ipotesi di assoluzione dell’imputato dovuta alla non imputabilità per vizio totale di mente, sottolineando che “l’inserimento dell’azione civile nel processo penale pone in essere una situazione differente rispetto a quella esercitata dall’esercizio dell’azione civile nel processo civile, in quanto assume carattere accessorio e subordinato rispetto all’azione penale e, pertanto, è destinata a subire le conseguenze e gli adattamenti che conseguono dalla struttura e dalla funzione del processo penale: esigenze di interesse pubblico connesse all’accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi”159.

156 Cass. pen., Sez. V, 9 febbraio 2016, n. 7125.

157 Cass. pen., Sez. Un., 29 settembre 2016, n. 46688.

158

Cass. pen., Sez. I, 13 aprile 2018, n. 21102.

159

Le medesime esigenze della ragionevole durata del processo, ivi richiamate al fine di rendere costituzionalmente legittima la preclusione per il giudice penale della decisione sulle questioni risarcitorie, sono rinvenibili nell’ipotesi di assoluzione perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, in quanto a seguito dell’abolitio criminis non vi è più la causa petendi fondante la pretesa risarcitoria nel giudizio penale, tanto che

viene meno la legittimazione processuale della parte civile160 e si rafforza pertanto la

tesi accolta dalle Sezioni Unite.

Infine, addirittura la Corte EDU161 ha dichiarato insussistente la violazione del diritto di

accesso ai tribunali quando il procedimento penale non si conclude con una decisione di condanna che possa includere anche le statuizioni civili, sempre che siano comunque disponibili rimedi alternativi egualmente efficaci in favore della vittima.

La soluzione che era stata prospettata, al contrario, dalla Commissione Palazzo nella

relazione allegata allo schema di decreto legislativo162 era quella di convertire la

sanzione penale contenuta nella condanna non definitiva e per tale ragione non ancora eseguita nella corrispondente sanzione pecuniaria civile, secondo il ragguaglio disposto dall’art. 135 c.p. La sua entità, in ogni caso, non avrebbe potuto integrare un importo superiore al massimo della pena comminata dal legislatore per il reato depenalizzato, al fine di non violare il divieto di retroattività in pejus di cui all’art. 2, c. 4 c.p. Tale soluzione, che avrebbe avuto il pregio di affrontare un tema lasciato invece in balia degli interpreti e di favorire la deflazione dei processi tanto penali quanto civili, non avrebbe forse garantito pienamente il responsabile, privandolo di un’attuale ed aggiornata valutazione del giudice nella quantificazione discrezionale della sanzione che possa tener conto, infatti, anche delle ragioni che hanno portato alla depenalizzazione, in particolare del minor disvalore connesso a tali illeciti.