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Orientalism (1978) di Edward Said (1935-2003) si configura come la teorizzazione

critica sulla rappresentazione dell‟„altro‟ che più ha influenzato la critica post-coloniale, costituendosi come uno dei suoi testi fondanti. Tale testo pose infatti le basi per la nascita di quella corrente critica che, a causa dell‟impiego da parte di Said del concetto di „discorso‟ foucaultiano, è unanimemente definita „colonial discourse‟. Tale definizione, che è spesso considerata sinonimica di „Orientalismo‟, poiché si focalizza anch‟essa sulla descrizione delle pratiche che hanno reso il sistema coloniale un apparato tanto complesso e in grado di esercitare un‟influenza tanto considerevole sui tre quarti della popolazione mondiale, identifica dunque un filone critico specificatamente incentrato sulla considerazione ed esplicitazione delle pratiche di rappresentazione dei colonizzati da parte dei colonizzatori, che vede proprio in Edward Said e Homi Bhabha i suoi più illustri rappresentanti.

In questa sezione ci concentreremo pertanto sulla teorizzazione della creazione e descrizione dell‟oriente da parte dell‟occidente così come essa è stata tracciata da Said in

125

Ania Loomba sottolinea ad esempio che le disparità socio-economiche che vennero create dal fenomeno coloniale sono tutt‟ora all‟opera nell‟economia globalizzata: “[T]he iniquities of colonial rule still structure wages and opportunities for migrants from once-colonised countries or communities, the racial stereotypes that we identified earlier still circulate, and contemporary global imbalances are built upon those inequities that were consolidated during the colonial era” (cfr. Loomba A., Colonialism/Postcolonialism, cit., p. 129).

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Orientalism e nel testo che è considerato dallo stesso Said come la sua estensione e

precisazione, ovvero Culture and Imperialism (1993).

Said ritiene che sin dall‟antichità esista un‟ideologia ben precisa riguardo l‟oriente, che viene portata avanti dall‟occidente in termini non oggettivi. L‟orientalismo non va perciò inteso come figlio o prodotto del colonialismo, perché è in realtà il primo a costituire una delle basi per il secondo. Said sottolinea più volte che l‟orientalismo non ha, di per sé, causato il colonialismo, ma afferma anche che il complesso apparato ideologico e di rappresentazione dell‟oriente da parte dell‟Europa sia stata una delle spinte più importanti dell‟esperienza coloniale:

[T]o say simply that Orientalism was a rationalization of colonial rule is to ignore the extent to which colonial rule was justified in advance by Orientalism, rather than after the fact126.

Said offre due definizioni principali di Orientalismo. La prima consiste nella cognizione secondo cui l‟Orientalismo sarebbe “a way of coming to terms with the Orient that is based on the Orient‟s special place in European Western experience”127

. La seconda, invece, si riferisce alla possibilità di considerare l‟Orientalismo come “a Western style for dominating, restructuring, and having authority over the Orient”128

.

Secondo la prima definizione, l‟Orientalismo rappresenta dunque la necessità da parte dell‟occidente di giungere ad una comprensione dell‟oriente, necessità che dipende dalla consapevolezza che l‟oriente rivesta un “ruolo speciale” nell‟esperienza occidentale. Secondo Said l‟oriente ha infatti sempre rappresentato il vicino, a volte scomodo, dell‟occidente, oltre che la fonte delle sue colonie più ricche ed importanti (ad esempio l‟India). Ciò ha implicato che esso si configurasse anche come una delle più ricorrenti immagini dell‟„altro‟ e che ciò potesse accadere proprio grazie a quel processo di opposizione che JanMohamed definirebbe “Manicheo”: “[T]he Orient has helped to define Europe (or the West) as its contrasting image, idea, personality, experience”129

. L‟oriente ha perciò rappresentato la pietra di paragone che ha permesso all‟occidente di darsi una definizione. Si noti che la teorizzazione di Said sembra differire qui da quella di JanMohamed per un fattore di prospettiva: mentre Said ritiene che sia stato l‟oriente a costituire la pietra di paragone per l‟occidente, JanMohamed afferma che sia stato

126

Cfr. Said E. W., Orientalism, cit., p. 39; corsivo aggiunto.

127 Ivi, p. 1. 128 Ivi, p. 3. 129 Ivi, p. 2.

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l‟occidente a costituire il metro di misura per il mondo colonizzato. Le coppie binarie che si vengono così a comporre sono pertanto l‟una l‟opposto dell‟altra: Oriente/Occidente VS Occidente/Oriente (Mondo Colonizzato). Tuttavia, lo scarto fra le due prospettive di partenza è in realtà legato alla considerazione della capacità di scelta del primo elemento dell‟opposizione binaria, ovvero della sua capacità o incapacità di esercitare la propria influenza e il proprio dominio sul secondo. Mentre Said afferma che l‟occidente, dopo aver constato la sua opposizione con l‟oriente (opposizione che l‟occidente stesso aveva in gran parte contribuito a creare), ha potuto scegliere di dare di se stesso una definizione che sottolineasse tale opposizione, JanMohamed non ritiene che l‟occidente abbia rappresentato il metro di misura tramite cui il mondo colonizzato ha potuto consciamente

definire se stesso quanto piuttosto che il mondo colonizzato abbia dovuto subire la

definizione che di quest‟ultimo l‟occidente ha voluto costruire.

Questo punto della teorizzazione sull‟Orientalismo è in realtà nevralgico, poiché Said ritiene che la necessità di darsi una definizione che l‟occidente da sempre sentiva abbia raggiunto l‟apice durante l‟epoca coloniale, tanto da portare i colonizzatori a costruire una ben delineata auto-rappresentazione positiva, che, proprio attraverso l‟esasperazione delle differenze fra „noi‟ e „loro‟, fosse in grado di assolvere due compiti di fondamentale importanza: rappresentare i colonizzati come l‟„altro‟ e i colonizzatori come il „sé‟.Il medesimo concetto è sottolineato anche da Robert Young, il quale sottolinea che la nozione di „identità inglese‟, da sempre caratterizzata da una certa instabilità, si sia in realtà delineata in tutti i suoi aspetti solo durante il diciannovesimo secolo, ovvero quando divenne necessario stabilire cosa significasse „essere inglesi‟ in maniera tale da poter imporre gli aspetti e le pratiche della „Englishness‟ nel resto dell‟impero. Detto altrimenti, secondo Young il centro ha in gran parte compreso cosa significasse „identità inglese‟, e si è definito di conseguenza, a causa della fase imperiale del colonialismo, ovvero quando risultò necessario „insegnare‟ alla periferia come comportarsi130

.

130

Cfr. Young R. J. C., Colonial Desire: Hybridity in Theory, Culture, and Race, cit., pp. 2-3. Tale aspetto dell‟esperienza coloniale è approfondito da Kathryn Tidrick nell‟interessante Empire and the English

Character. Partendo dal presupposto che il colonialismo e l‟ideologia che supportò l‟impero britannico

ebbero degli effetti anche sulla classe dominante, Tidrick analizza l‟importanza assegnata durante la fase imperiale alla costruzione dell‟„English character‟, ovvero alla delineazione di tutta quella serie di comportamenti e buone pratiche che potessero essere definite tipicamente inglesi e, di conseguenza, potessero ispirare un‟obbedienza nei colonizzati che fosse dovuta più allo spirito di emulazione che al dovere o al timore – in questo l‟argomento di Tidrick trova un punto di convergenza con il concetto di consenso gramsciano che verrà illustrato nel corso del paragrafo (cfr. Tidrick K., Empire and the English Character, London, I. B. Tauris & Co Ltd, 1992).

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La necessità di distinguersi dagli orientali, che si accompagnò inevitabilmente ad una indiscussa certezza sulla superiorità occidentale e sull‟inferiorità orientale, è testimoniata da Said attraverso un esempio emblematico: durante il diciannovesimo secolo divenne pratica comune nell‟impero britannico richiamare gli amministratori inglesi che avessero degli incarichi sui suoli coloniali una volta raggiunta l‟età di cinquantacinque anni, di modo che nessun orientale avesse la possibilità di osservare un occidentale invecchiare e nessun occidentale fosse costretto ad esporsi non più nel fiore degli anni di fronte ai rappresentanti di una razza evidentemente inferiore131. Una simile prassi esemplifica chiaramente non solo la capacità di costruzione ideologica dell‟oriente da parte dell‟occidente, che implicava che al ricco catalogo di etero-rappresentazioni negative dell‟oriente corrispondesse un altrettanto nutrito elenco di auto-rappresentazioni positive dell‟occidente, ma anche la capacità di tale impalcatura ideologica di tradursi in istituzioni e pratiche reali.

La prima definizione di Orientalismo è dunque legata alla seconda, che lo identifica con uno “stile”, una maniera che l‟occidente ha adoperato per poter ristrutturare e, così facendo, dominare l‟oriente.

Per meglio illustrare questa seconda accezione del termine Said considera importante la nozione di discorso impiegata da Michel Foucault (1926-1984) in importanti testi quali The Archaeology of Knowledge (1969) e Discipline and Punish: The Birth of the

Prison (1975).

Il concetto di discorso si intreccia nel pensiero di Foucault con un tipo di indagine che egli stesso definisce „archeologica‟. Il punto focale di tale tipologia di analisi è la necessità di indagare criticamente, in seguito ad un processo di liberazione dalle nozioni e cognizioni acquisite e da sempre date per scontate, istituzioni quali lo stato, la chiesa, piuttosto che la clinica o la prigione, a partire proprio da una ricostruzione archeologica della loro stessa nascita che porti alla comprensione di quali fossero le loro reali finalità e ad una considerazione della loro effettiva concretizzazione132. Egli ritiene infatti che la nascita e lo sviluppo di una folta schiera di istituzioni socio-politiche sia legata alla capacità del discorso di esercitare un‟influenza notevole sull‟andamento della vita sociale e politica.

131

Cfr. Said E. W., Orientalism, cit., p. 42.

132

Cfr. Foucault M., L‟Archéologie du Savoir, Paris, Editions Gallimard; trad. ingl., The Archaeology of

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Foucault parte dalla cognizione che il discorso sia composto di unità minime definite “affermazioni”. Il discorso si configura dunque come una serie di affermazioni attraverso cui è possibile conoscere il mondo. Tuttavia, esso rappresenta anche il mezzo attraverso cui i gruppi dominanti sono in grado di costituire delle impalcature di conoscenze, discipline e valori – dei veri e propri „sistemi di verità‟ – che essi impongono ai gruppi dominati. Il linguaggio è pertanto una nozione cardine della teorizzazione foucaultiana di discorso, poiché è la lingua lo strumento attraverso cui i concetti che compongono i „sistemi di verità‟ vengono tradotti in affermazioni e, dunque, in discorsi. Le formazioni discorsive si configurano pertanto come sistemi di organizzazione societaria i quali, poiché vengono costituiti in funzione delle necessità dei gruppi dominanti, vanno intesi anche come forme di controllo sociale. I discorsi possiedono infatti la capacità di creare dei soggetti (intesi come „agenti asserviti‟ al discorso piuttosto che come „agenti attivi‟ del discorso), che dipendono dalle regole dei sistemi di valori, conoscenze e discipline che costituiscono i discorsi stessi.

L‟intera opera foucaultiana è in realtà costituita da una serie di analisi dettagliate sulla nascita e sulla funzione di regolamentazione e controllo di varie istituzioni. Egli aveva ad esempio analizzato la loro capacità esclusivista, intesa come abilità di stabilire cosa è socialmente desiderabile e cosa non lo è e, pertanto, di tradursi in istituzioni che siano in grado di separare il „socialmente normativo‟ dal „socialmente deviato‟ e di

escludere quest‟ultimo, in una serie di opere sulla nascita e controllo sociale della

pazzia133. In opere quali Discipline and Punish: The Birth of the Prison e The History of

Sexuality: an Introduction (1978)134 egli lega tale capacità esclusivista al concetto di discorso dimostrando in che modo tanto l‟ambito della legalità quanto quello della sessualità siano stati letteralmente costruiti e regolati attraverso delle formazioni discorsive di stato – in Discipline and Punish egli lega addirittura la cementificazione del concetto di

133

Cfr. Foucault M., Folie et déraison. Histoire de la folie à l'âge classique, Paris, Librairie Plon; trad. ingl,

Madness and Civilization: A History of Insanity in the Age of Reason, London, Routledge, 2001. Foucault

M., Naissance de la clinique: une archéologie du regard medical, Paris, PUF; trad. ingl., The Birth of the

Clinic: An Aerchaeology of Medical Perception, New York, Vintage, 1994. Foucault M., Les Mots et les Choses. Une archéologie des sciences humaines, Paris, Editions Gallimard; trad. ingl., The Order of Things: An archaeology of the Human Sciences, London, Routledge, 2001. In tali testi egli analizza in che maniera la

follia sia stata considerata in modi differenti, e a volte addirittura opposti, nelle diverse epoche – cosicché il rinascimento riconobbe nella follia quasi una forma di ragione propria mentre nel XVII secolo la follia divenne il simbolo per eccellenza della devianza. La reclusione dei sofferenti mentali, epitomi dell‟„altro‟, divenne pertanto in quest‟epoca la pratica prediletta di confinamento ed esclusione della diversità, la quale, a propria volta, garantiva la sopravvivenza della sola „norma‟.

134

Cfr. Foucault M., Surveiller et punir: Naissance de la Prison, Paris, Editions Gallimard; trad. ingl.,

Discipline and Punish: The Birth of the Prison, New York, Vintage, 1979. Foucault M., La volonté de savoir,

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„normalità‟ all‟istituzione delle ecole normales, così definite nel tentativo di istituzionalizzare la normalità e, per esclusione, rimuovere la devianza135.

Said applica tale definizione di discorso alla sua concettualizzazione dell‟Orientalismo, sostenendo che nei secoli è stato costruito un vero e proprio „discorso sull‟oriente‟, una tradizione sistematica da parte dell‟occidente attraverso cui “[the] European culture was able to manage – even produce – the Orient politically, sociologically, militarily, ideologically, scientifically and imaginatively […]”136

.Seguendo questa linea di pensiero Said arriva infatti a sottolineare che, in un certo qual modo, l‟oriente stesso sia una creazione dell‟occidente. Ampliando infatti la teoria di Vico, secondo cui gli uomini costruiscono da sé la propria storia e che la loro conoscenza deriva dalle loro stesse azioni, e applicandola alla geografia137 egli sostiene infatti:

The Orient is not an inner fact of nature. It is not merely there, just as the Occident itself is not just there either. […] both geographical and cultural entities such […] as “Orient” and “Occident” are man-made138

.

Sottolineando che tanto l‟oriente quanto l‟occidente siano in realtà artifici umani piuttosto che strutture oggettive, Said evidenzia nuovamente la capacità del discorso sull‟oriente non solo di rappresentare quest‟ultimo ma addirittura di creare un‟impalcatura concettuale tale da dare vita sia al polo orientale sia, per opposizione “sociologica”, “militare”, “ideologica”, “scientifica” e “immaginativa”, al polo occidentale.

In realtà, l‟oriente è stato non solo creato ma anche “orientalizzato” dall‟occidente, che lo ha incapsulato in una categoria derivante da un‟osservazione intrinsecamente eurocentrica e da una conoscenza “occidentale”, quindi imprecisa e insufficiente, dell‟oriente, che gli ha tuttavia garantito la possibilità di dominarlo.Trovando un ulteriore punto di incontro con l‟opera di Foucault e, in particolare, con la sua teorizzazione del

pouvoir-savoir, Said ritiene infatti che la conoscenza sia funzionale al dominio e che,

135

Cfr. Foucault M., Discipline and Punish: The Birth of the Prison, cit., p. 184.

136

Ivi, p. 3.

137

Il dato geografico rappresenta un ulteriore concetto di primaria importanza della teoria di Said, il quale ritiene sia impossibile comprendere un determinato territorio e le sue implicazioni politiche e sociali senza prendere nella dovuta considerazione le relative questioni geografiche. Esso rappresenta inoltre un secondo punto di convergenza con la teoria di Foucault, il quale, in The Archaeology of Knowledge in maniera particolare, paragona la conoscenza ad un‟operazione di natura geografica: essa si configura come un‟operazione di scavo che conduce verso un territorio visto non solo come dato esclusivamente spaziale ma anche e soprattutto come nozione di tipo socio-giuridico-politico (cfr. Foucault M., The Archaeology of

Knowledge, cit., 2002).

138

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pertanto, avere (oppure, nel caso del discorso sull‟oriente, asserire di avere) conoscenza di un oggetto equivalga ad avere l‟autorità per dominarlo139. Proprio per tale ragione l‟Orientalismo si configura come un‟acquisizione sistematica di informazioni e materiali sull‟oriente, che vengono poi diffusi in occidente come facenti parte di una conoscenza specializzata e, dunque, accurata140. Tale conoscenza è stata acquisita nel corso dei secoli attraverso viaggi, esplorazioni, esperienze più o meno in situ e, successivamente, è stata riportata per iscritto in testi più o meno specialistici, che possono andare dal resoconto di viaggio, alla relazione scientifica, al romanzo.Secondo Said è proprio alla capacità di tali testi di creare e mantenere in vita il discorso sull‟oriente che è necessario imputare una parte considerevole della forza di creazione e rappresentazione dell‟oriente da parte dell‟occidente:

“[…] such texts can create not only knowledge but also the very reality they appear to describe. In time knowledge and reality produce a tradition, or what Michel Foucault calls a discourse, whose material presence or weight, not the originality of a given author, is really responsible for the texts produced out of it. This kind of text is composed out of those pre-existing units of information deposited by Flaubert in the catalogue of idées reçues”141.

La comprensione che l‟occidente ha dell‟oriente non si basa perciò su una tanto veementemente asserita conoscenza specialistica, bensì si fonda su una serie di idee “ricevute”, su un catalogo di immagini che l‟occidente ha codificato attraverso i secoli e messo permanentemente per iscritto nei propri testi, divenuti perciò fonte di quella presunta (e quanto meno imperfetta) conoscenza che permetteva ad ogni occidentale di parlare dell‟oriente in determinati termini „ricevuti‟ e di essere compreso senza difficoltà alcuna da ogni altro europeo.Said, infatti, non solo sottolinea che il catalogo di immagini e il vocabolario impiegati dall‟Europa per riferirsi all‟oriente fossero piuttosto limitati142, ma evidenzia anche il fatto che essi rappresentassero un archivio di informazioni unanimemente possedute e la cui validità assai raramente veniva messa in discussione143.

In particolare, il discorso coloniale sull‟oriente si configura come un sistema di affermazioni „ricevute‟ sulle colonie e sui popoli colonizzati che venivano enunciate dai

139 Ivi, p. 32. 140 Ivi, p. 165. 141 Ivi, p. 94. 142 Ivi, p. 60. 143 Ivi, p. 42.

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colonizzatori in virtù della loro posizione di comando e che istituivano i colonizzati come i soggetti asserviti al loro dominio.

Il motivo per cui l‟occidente è stato in grado di instaurare un rapporto di questo genere con l‟oriente risiede nel fatto che, secondo Said, la relazione tra oriente e occidente si configura come un rapporto di egemonia. Egli mutua questo concetto dall‟opera di Antonio Gramsci (1891-1937), che lo ha diffusamente illustrato nei suoi Quaderni del

carcere (1948-51).

Gramsci parte dalla distinzione fra “società civile” (“cioè l‟insieme di organismi volgarmente detti «privati»”, quali la scuola, le associazioni ecc) e “società politica” (ovvero lo Stato con tutti i suoi apparati: esercito, burocrazia e così via) 144. Il compito della prima risiede nella “funzione di «egemonia» che il gruppo dominante esercita in tutta la società”145

, mentre il compito della seconda consiste sostanzialmente nel comando, nel «dominio diretto», che si esprime appunto attraverso le organizzazioni statali e di governo giuridico. La cultura opera ovviamente all‟interno della prima sfera, ma è comunque, secondo Gramsci, «commessa» del gruppo dominante. Gli intellettuali, infatti, “hanno la funzione di organizzare l‟egemonia sociale di un gruppo ed il suo dominio statale”146. Di queste due funzioni, la prima, ovvero l‟egemonia sociale, è connessa al concetto di

consenso spontaneo che viene accordato dalle masse all‟indirizzo impresso alla vita sociale

dal gruppo dominante. Questo, a sua volta, è legato storicamente al concetto di prestigio, che Gramsci definisce come la fiducia “derivante al gruppo dominante dalla sua posizione”147. Ma la cultura non è impegnata soltanto nel consolidamento dell‟egemonia,

bensì deve anche impegnarsi nell‟assicurare il “dominio dello stato”, nel senso che gli intellettuali devono inoltre prendere parte all‟organizzazione dell‟apparato di «coercizione statale» “per quei gruppi che non «consentono» né attivamente né passivamente o per quei momenti di crisi di comando e di direzione in cui il consenso spontaneo subisce una crisi”148

. Il loro ruolo è pertanto di grande importanza anche nei momenti in cui il gruppo dominante comincia a veder venire meno il consenso ad esso precedentemente accordato.

L‟egemonia, pertanto, si fonda sulla capacità del gruppo dominante, sostenuto dall‟apparato culturale e dai suoi rappresentanti, di ottenere il consenso e di essere, pertanto, detentore di “prestigio”. Questa è infatti, nell‟ottica gramsciana, la conditio sine

144

Gramsci A., Quaderni del Carcere (quaderno III), Einaudi, Torino, 1975, p. 1518.

145

Ibid.

146

Gramsci A., Quaderni del Carcere (quaderno I), Einaudi, Torino, 1975, p. 476.

147

Gramsci A., Quaderni del Carcere (quaderno III), cit., p. 1519.

148

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qua non per riuscire a giungere alla conquista e alla salvaguardia del potere.In quest‟ottica

va pertanto compresa la distinzione che Gramsci opera tra “gruppo dominante”, che è in

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