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CAPITOLO 4. INDAGINE QUALITATIVA SULLA RAPPRESENTAZIONE D

4.5 Discussione dei risultati

Dai risultati della ricerca si è cercato di trarre una sorta di fotografia delle caratteristiche psicologiche dei pazienti con scompenso cardiaco presi in carico presso il nostro centro, al fine di approfondire la comprensione dei vissuti che gli stessi portano all’interno del processo di cura e di affrontare con maggiore adeguatezza i temi salienti emersi. In particolare, si è cercato di evidenziare quali temi, tra quelli più riconosciuti dalla letteratura sui fattori psicologici collegati alla malattia cardiaca, ricorrono in maniera significativa nelle presentazioni che i pazienti forniscono di sé in relazione alla malattia.

Per quanto riguarda l’area della “malattia”, sembra emergere, coerentemente con la letteratura sulla rappresentazione della malattia cronica, che i pazienti sperimentano un senso di svantaggio e inferiorità rispetto alla condizione personale (non solo di salute ma anche di stile di vita in generale) precedente l’esacerbarsi dello scompenso. Questo sembra collegato ad un vissuto di apatia, che potrebbe essere precursore di uno stile rinunciatario rispetto alla gestione della malattia. Infatti, con il codice “apatia” co-occorre il tema della morte. Dai racconti dei pazienti emerge il vissuto di invalidità e il desiderio, ripetuto e irrinunciabile, di tornare alle attività alle quali si dedicavano prima della malattia cardiaca.

Il tema della gestione della salute e della malattia è associato anche all’ansia la quale, in alcuni casi, è aumentata dai rapporti familiari probabilmente a seguito del processo di rinegoziazione dei ruoli all’interno della famiglia e dall’impatto dell’ansia degli stessi familiari, caricati di un compito di care-giving che richiede un considerevole utilizzo di risorse personali.

Oltre ad ansia e apatia, i temi della fobia sociale e della rabbia sembrano connotare i discorsi dei pazienti del nostro campione, sia in relazione al tema della salute e della cura e del vissuto di disabilità, sia in riferimento ai rapporti con persone significative. Un discorso a parte merita il tema della fobia sociale, della paura del giudizio altrui, che emerge in maniera considerevole nei pazienti partecipanti allo studio. Questo ci porta a sottolineare quanto sia decisivo instaurare con il paziente un rapporto di fiducia, che non prescinda dal dedicare un momento di ascolto a quelle che sono le istanze, le difficoltà e i dubbi specifici della singola persona, così da evitare che si possano creare eventuali ostacoli all’allenza e all’aderenza terapeutiche.

Per quanto riguarda il tema del “potere”, sembra emergere dai racconti dei pazienti, un diffuso e pervasivo vissuto di sconfitta e di impotenza che rende

difficile e laborioso il processo di accettazione della malattia e di elaborazione del lutto di un’immagine di sé non più congrua alle proprie aspettative, che sembrano non mutare neanche a seguito delle perentorie prescrizioni e raccomandazioni mediche. I nostri risultati evidenziano che non è facile accettare il progressivo venir meno di quanto infondeva un senso di efficacia e di dominio. Per i pazienti intervistati è difficile ridurre drasticamente, dall’oggi al domani, i ritmi spesso frenetici della vita lavorativa, garanzia di un adeguato sostegno economico e accettare il venir meno di un riconoscimento familiare e sociale della loro persona come “motore trainante” .In tal senso, la riorganizzazione del gioco relazionale in famiglia, come negli altri ambiti, si presenta come un compito assai arduo da affrontare. Si potrebbe ipotizzare che alcune difficoltà relative all’elaborazione e all’accettazione della malattia siano dovute al senso di perdita di potere – di sconfitta – riconducibile al concetto di helplessness che in letteratura è stato considerato come significativo ostacolo ad un’ottimale gestione della malattia (Capitolo 2).

Le modalità di adattamento che sembrano emergere dalle interviste dei pazienti del nostro campione possono essere suddivise in tre tipologie distinte.

Una prima modalità di risposta è rappresentata dai pazienti che si sforzano di mantenere il controllo sulla situazione e che non accettano la resa e/o si rifiutano di ammetterla (pazienti 2, 7 e 8). Sono i pazienti che si ostinano a voler lavorare, negando in un certo qual modo la compromissione del loro stato di salute; in questi casi la sofferenza è dissimulata e i pazienti insistono durante il colloquio sulla non traumaticità dell’evento arrivando, come nel caso del paziente 2, a mostrare un‘immagine perfetta, quasi idilliaca, della propria vita.

La seconda tipologia di pazienti si distingue invece per un tipo di reazione più vicina al versante ansioso-depressivo, caratterizzata da un senso di paralisi e impotenza di fronte al lento ma inesorabile presentarsi delle difficoltà legate alla malattia e alla vita in generale. Emerge una chiusura depressiva che, tuttavia, viene minimizzata. I pazienti che rientrano in questo quadro (pazienti 4, 5 e 6) presentano una frequenza marcata di quotations che fanno riferimento ai codici “apatia”, “ansia” e “fobia sociale”, mostrando ritiro nelle relazioni, difficoltà a condividere con altre persone il proprio dolore e una generale paura a riprendere le normali attività quotidiane. In particolare, per quanto riguarda il paziente 4 prevale un senso di demoralizzazione, passività e apatia che esita in un’accettazione rassegnata della malattia e dei limiti che questa impone, con scarso spazio per lo sviluppo di un senso di auto-efficacia in relazione alla malattia.

Un ulteriore modalità di adattamento, riscontrabile nei pazienti 1 e 3, si contraddistingue per la frequenza di quotations che fanno riferimento alla dimensione della rabbia. Nonostante il codice “rabbia” sia stato registrato in tutte le interviste, l’elevata frequenza con cui emerge in questi due pazienti permette di connotare le loro reazioni come particolarmente aggressive, intolleranti e indice di estrema irritabilità. All’interno di questo quadro, si è evidenziato il risentimento nei confronti dei familiari accompagnato da un meccanismo di colpevolizzazione degli stessi.

In generale, ci sembra di poter concludere che i pazienti che hanno partecipato a questo studio sono caratterizzati da una considerevole difficoltà a riorganizzare il proprio senso di identità personale a seguito dell’inasprimento delle condizioni di malattia. I discorsi sono appiattiti sulla malattia, che determina il corso delle giornate: il tempo è suddiviso in prima/dopo la malattia e il dopo, ovvero l’oggi, è il tempo scandito esclusivamente dalla gestione della malattia stessa. Laddove i discorsi non sono completamente centrati sulla malattia, le modalità di adattamento si collocano sul versante opposto, in cui negazione, rifiuto e rabbia giocano il ruolo principale, anche in questo caso

lasciando poco spazio per riflettere sulla malattia, su come ritrovare un adeguato senso di coerenza nella rappresentazione di sé in relazione anche agli altri.

In particolare, il tassello che viene a mancare nel quadro dell’identità personale e che sembra non essere sostituibile è quello del lavoro, della professione. Questa mancanza inficia ogni possibilità di trovare nuovi significati e, difficilmente, i rapporti affettivi o la crescita personale e spirituale sembrano poter essere presi in considerazione come fonti di significato e di soddisfazione.

Purtroppo, o per fortuna, la malattia costringe ad una revisione sistemica che porta il paziente a dover trovare nuovi significati nella propria identità, domandansi, tra le altre cose, cosa resta di sé dopo che la malattia ha cambiato le regole del gioco. Quanto emerso dalle nostre indagini mette in evidenza che i pazienti non riescono a trovare una nuova organizzazione al proprio senso di identità ed è per questo che si ritiene importante offrire uno spazio di riflessione che faciliti questa operazione così impegnativa e che aiuti il paziente ad orientarsi nei percorsi e meandri che si sviluppano all’interno di quel complesso labirinto che è la malattia. In questo senso, è difficile pensare che possa essere sufficiente una presa in carico esclusivamente “medica”. Senza un adeguato sostegno alla ristrutturazione del sé, infatti, le prescrizioni rischiano di non avere nessun senso per il malato, rimanendo spesso parole vuote, a volte incomprensibili.