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I L DOCUMENTO NOTARILE NEL TERRITORIO DEL PRINCIPATO VESCOVILE TRENTINO NEL TARDO MEDIOEVO B REVI NOTE

Nel documento Studi di storia trentina (pagine 51-65)

Fra secolo XII e XIII la geografia culturale e documentaria del- l’area trentina e tirolese – che sotto il profilo che qui interessa pos- siamo identificare con il bacino dell’Adige e dell’Inn e con gli epi- scopati di Trento e Bressanone, comprendendo tuttavia anche la porzione cisalpina dell’episcopato di Coira, coincidente con buona parte della val Venosta – si presenta particolarmente complessa. Qui passa infatti il confine fra l’area del documento notarile di tra- dizione italiana e le forme documentarie di tradizione tedesca; ed è un confine che proprio a partire da questa congiuntura cronologica può essere seguito nelle sue complesse e cangianti trasformazioni. Infatti è dal XII secolo che in tutta Europa, e in particolare in Italia e nelle zone circonvicine, la documentazione cresce esponenzial- mente dal punto di vista quantitativo: Hagen Keller ha definito questo processo – ben noto agli storici e ai diplomatisti, e ricondu- cibile al generale progresso dell’alfabetizzazione e in generale al dinamismo di una società in crescita, come Schriftlikheit (‘scrittu- razione’, ‘diffusione della scrittura’ per usi pratici). E di conse- guenza, proprio su questo periodo si imperniano tutte le ricerche degli specialisti dell’evoluzione documentaria nei diversi territori alpini, che da sempre sono, per vocazione e definizione, zone di contatto e di interferenza fra culture diverse. A titolo di esempio, ricorderò le ricerche di Reinhard Härtel sul caso, particolarmente complesso, dell’estrema porzione orientale delle Alpi, ove si incro- ciano e si sovrappongono le tradizioni culturali (e documentarie) latina, tedesca e slava; e per il territorio che qui interessa una esemplare ricerca di Obermair e Bitschau sulla documentazione del monastero di San Michele all’Adige nella seconda metà del XII se- colo. In queste brevi note, ci occupiamo ovviamente solo della espansione e della contrazione del documento notarile su uno dei tratti di questo confine, appunto quello trentino – uno sguardo ‘da sud’, quindi – e delle modalità secondo le quali si definisce l’asset- to documentario del territorio del principato vescovile di Trento.

Da due versanti il documento notarile di tradizione italiana può penetrare nella ‘zona di contatto’ sopra menzionata. Come ha mo- strato il Clavadetscher, la diffusione nella val Monastero e nella porzione orientale del territorio diocesano di Coira del documento notarile di provenienza comasca, già saldamente affermato a Po- schiavo e nella parte meridionale dei Grigioni, è nel Duecento lenta e differenziata dal punto di vista della diffusione sociale, ma ben riconoscibile. In val Monastero nobili e monasteri usano la carta sigillata, mentre la popolazione non nobile usa correntemente nel Duecento e nel Trecento il documento notarile. Non mancano co- munque documenti ibridi, con carte sigillate che hanno la sottoscri- zione notarile e documenti notarili per stile e formulario, ma privi di signum tabellionatus. Anche l’alta e media val Venosta costitui- scono un territorio tipicamente di transizione, con differenziazioni tra uso del documento sigillato e uso del documento notarile che seguono, nel corso del Trecento, gerarchie sociali. A Glorenza – centro commerciale, tipica piazza di incontro – agli inizi del Tre- cento operano sia notai provenienti dal territorio veneto, sia notai provenienti da Bormio.

Tornerò poi brevemente su quest’area, ma ho preferito ricordare subito le caratteristiche – così come emergono dalle puntuali ricer- che dello studioso grigionese – delle tipologie documentarie ivi at- testate perché ciò permette, per confronto, di apprezzare meglio le caratteristiche della evoluzione documentaria nell’altra zona di pe- netrazione dinamica, quella della valle dell’Adige. Dalla valle del Piave infatti non si manifesta infatti almeno in questa fase nessun dinamismo verso l’area del documento tedesco, dato che i principa- li enti produttori e conservatori di documentazione – gli episcopati di Belluno e Feltre – gravitano verso la pianura veneta. Per evidenti ragioni suggerite dalla geografia diocesana, infatti, il ruolo svolto dal polo documentario costituito dall’episcopio trentino è, nella diffusione del documento notarile verso nord, molto più incisivo.

Dal punto di vista storiografico, restano un perno insostituibile per la storia del notariato trentino e tirolese gli studi del Voltelini, vecchi ormai di un secolo ma tuttora validissimi. L’edizione negli

Acta tirolensia dei due cartulari di Oberto da Piacenza e di Iacopo Haas o Hazus, rispettivamente del 1235 e 1237, fu una delle prime edizioni di imbreviature in assoluto, in tutta Europa. Non era usua- le che uno studioso dedicasse a quell’epoca (1899) tempo ed ener-

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gia a questo tipo di documentazione, in una congiuntura nella quale la diplomatica largamente privilegiava le fonti classiche, come i diplomi imperiali; ma Voltelini era mosso da interessi diversi, piut- tosto di storia della cultura giuridica e di storia delle istituzioni. Al lungo saggio introduttivo allora steso dal grande storico tirolese si aggiunsero poi, nei decenni successivi, le successive indagini di Heuberger e di Huter, che come è noto completò l’edizione nel 1949, pubblicando le carte di altri notai, come Zaccheo da Trento e Iacopo Tugehenn, relative alla seconda metà del Duecento. La ri- flessione su queste fonti è stata, si può dire, ininterrotta; a questi studi (e a quelli di altri ancora, come lo Ammann, che hanno ana- lizzato la documentazione sotto prospettive speciali, di storia eco- nomica nella fattispecie), va aggiunto anche il saggio, a mio avviso ingiustamente sottovalutato, di Filippo Grispini, edito a Spoleto nel 1966. Certo, è un saggio nel quale è evidente un punto di vista ‘ita- liano’, ma è lontano mille miglia dall’impostazione nazionalistica, rivendicativa, segnata pesantemente dai contrasti etnici, delle ricer- che dedicate negli stessi anni da Ferruccio Bravi al ‘notariato atesi- no’. Grispini sottolinea con maggiore energia il diverso livello di preparazione culturale e la differente sensibilità di Oberto da Pia- cenza rispetto a Iacopo Haas per ciò che concerne il diritto romano e le consuetudini tedesche. Sono diversità influenzate da una plura- lità di fattori, prima di tutto forse la diversa natura degli atti rogati: in Oberto prevalgono atti provenienti da pubbliche autorità, e so- prattutto atti di carattere processuale, in Iacopo prevale invece, percentualmente, la documentazione di carattere privato. Di conse- guenza Iacopo appare meno familiarizzato con il diritto romano o meno incline a servirsene, e adotta un formulario meno raffinato, mentre Oberto usa un latino abbastanza buono; ed è Oberto che sente necessario trascrivere nella sua imbreviatura, in modo da averla sempre sottomano, una specie di promemoria sul modo

exemplandi litteras sigillatas.

Dunque è possibile e opportuno operare distinzioni piuttosto si- gnificative anche fra notai che operano negli stessi anni nello stes- so ambiente. Manca in loro uno standard predefinito, una koinè culturale che li accomuni – e tanto più che accomuni un ceto largo e omogeneo di notai come si può convenire che sia assodato, alla stessa altezza cronologica, nelle città comunali italiane. D’altra parte, va anche detto che dare un giudizio preciso sulle caratteristi-

che del documento notarile trentino (e di conseguenza sui modelli che attraverso lo ‘snodo’ costituito dall’ambiente vescovile trentino si proiettano verso Bolzano, centro dell’operato dei notai sopra menzionati) resta difficile. È difficile perché a complemento delle solide ricerche sopra citate ancora mancano studi specifici essen- ziali (ad esempio, un elenco completo dei notai trentini attivi nella seconda metà del XII secolo e nei primi decenni del secolo succes- sivo).

Tuttavia è certa la scarsità numerica e la debolezza di poli di produzione e di conservazione della documentazione di fine XII - inizi XIII secolo diversi dalle istituzioni ecclesiastiche di Trento- città: oltre all’episcopio sono soltanto il capitolo della cattedrale e – e in misura molto minore – il monastero di San Lorenzo, ben pre- sto subalterno sotto ogni profilo all’episcopio, che possono ‘espor- tare’ il documento notarile, nel Duecento, verso la regione tirolese (e innanzitutto e prevalentemente nei centri urbani o semiurbani del Tirolo meridionale). Le istituzioni extra-urbane sono molto de- boli. Si è citato sopra il caso della collegiata agostiniana di San Michele all’Adige, poco a nord di Trento ma in area linguistica- mente e culturalmente tedesca (e legata istituzionalmente ai conti di Appiano): un caso interessantissimo nel quale sono compresenti e si contaminano, nella seconda metà del secolo XII, notitie tradi-

tionum e documenti di tipo notarile, ma un caso isolato e privo di forza irradiante dal punto di vista documentario. Insomma, la ‘cul- tura’ notarile trentina non avrebbe avuto certo la forza di diffonder- si in Tirolo, come essa si diffuse nel Duecento e Trecento, senza l’incisiva azione di Mainardo II conte di Tirolo, il celebrato fonda- tore della potenza statale tirolese. Questo ruolo è largamente rico- nosciuto dalla storiografia tirolese recente. Con grande duttilità, con ovvio pragmatismo, Mainardo II mantenne aperte ambedue le possibilità documentarie, avvalendosi quasi sempre di atti notarili nei negozi giuridici riguardanti il Tirolo meridionale, mentre nel Tirolo settentrionale, da Bressanone in su, restò prevalentemente in uso il documento sigillato. Riguardo alla documentazione di questi ultimi decenni del Duecento, i segnali sono contraddittori, com- plessi e dunque particolarmente interessanti. Lo stesso testamento di Mainardo II è redatto in forma di strumento notarile; e non man- cano documenti tardoduecenteschi diplomatisticamente ibridi, che

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oltre a recare il segno di tabellionato portano anche il sigillo pen- dente dell’autore.

Non è inutile inoltre ricordare le tracce, modeste ma significati- ve, della diffusione del documento notarile in aree relativamente marginali, come la val Pusteria (che era peraltro – non va dimenti- cato – la via di collegamento con l’area ‘goriziana’). In occasione della recente mostra storica su Mainardo II e sulla civiltà tirolese nel Due e Trecento, in una scheda del catalogo è stata riportata l’at- tenzione su un piccolo Notizbuch proveniente dall’ambiente della cancelleria goriziana e predisposto o posseduto da un notaio attivo in Pusteria nei primi decenni del Trecento, e studiato dallo Schill- mann all’inizio del Novecento. È un testo molto interessante, che riporta in sostanza specimina di lettere di curia, ma che ha anche una piccola sezione di regole notarili dalla quale si evince l’ele- mentarità delle conoscenze del notaio medesimo, che ha bisogno di annotarsi la partizione interna dell’instrumentum vendicionis: «nota quod instrumentum vendicionis sex continet capitula, sunt con- trahentes, rem venditam» ecc. Inoltre, egli annota rudimentalmente le modalità secondo le quali inserire il concetto di fideiussione, e così via. Il notaio appare impacciato nel muoversi in un contesto culturale e giuridico che gli è poco familiare, nonostante che si trat- ti pur sempre di un notaio pubblico, o semipubblico, abituato pro- babilmente a operare in regioni e ambienti diversi.

Veniamo ora a qualche considerazione più specifica sul notaria- to trentino due-trecentesco, in prospettiva interna, di articolazione interna del notariato locale. Ora, se la cancelleria episcopale dei primi decenni del Duecento era stata importante per determinare la forza espansiva del notariato, ai tempi di Federico Wanga e – coi citati notai – al momento della cosiddetta secolarizzazione del principato vescovile sotto il governo dei podestà imperiali (anni Trenta), nella seconda metà del secolo l’indubbio consolidamento del notariato e della cultura giuridica di tradizione romana prescin- de dalla debolezza della cancelleria episcopale, che per periodi non brevi è anzi assente dalla città. Nei primi anni Settanta nel contesto di una controversia relativa a un canonicato della cattedrale di Ve- rona si motiva con la scarsità o meglio l’assenza di esperti di diritto l’impossibilità di svolgere a Trento, secondo quanto aveva stabilito un legato pontificio, un processo che per legitima suspicione non poteva essere celebrato a Verona. Un quarto di secolo più tardi nel

1296 una sentenza è data dal giudice Calepino in base al consilium

sapientis, sentito il parere «tocius collegii iudicum et sapientum civitatis Tridenti» composto di 7 giudici, fra i quali figura un Fran- cesco da Bologna; ed è interessante osservare che si tratta di giudi- ci quasi tutti coinvolti nel governo del territorio trentino-tirolese, allora formalmente e sostanzialmente in mano a Mainardo II. D’ac- cordo, si tratta di giudici e non di notai, ma è chiaro che il fenome- no è globale: è in atto un processo di diffusione della cultura giuri- dica proveniente dalle città padane, che si intuisce (o per meglio dire, si può ipotizzare) abbastanza intenso. Piuttosto che divenire più strette e più intense, modificandosi nelle caratteristiche intrin- seche, le relazioni fra Trento e le città venete (che c’erano sempre state) in questa congiuntura sembrano crescere quantitativamente, coinvolgendo un numero maggiore di persone e uno spettro più ampio di idee e di realtà. E in particolare, come quasi sempre acca- de nella storia culturale e istituzionale di Trento e del suo territorio, è attraverso i rapporti con Verona e con la via di comunicazione dell’Adige che questo processo si sviluppa. Un segnale molto im- portante riguarda proprio la cancelleria episcopale: giunge infatti a Trento ai primi del Trecento, e dà una svolta all’organizzazione della curia vescovile al tempo del vescovo Bartolomeo Querini e poi di Enrico di Metz, un notaio bolognese, già fuoruscito a Verona perché di parte lambertazza, e attivo nella città scaligera come no- taio dell’inquisizione, ma anche nella cancelleria dei signori della città. Si tratta di Bongiovanni di Bonandrea, fratello di un noto maestro di ars dictaminis attivo nello studio della città emiliana. Egli è «apostolica et imperiali auctoritate notarius et prefati domini episcopi scriba». Su questo episodio, estremamente significativo, disponiamo oggi di una ottima edizione documentaria e di uno stu- dio esemplare, di larghissimo respiro culturale, dovuto a Daniela Rando.

Spostiamo ora la nostra attenzione alle istituzioni radicate sul territorio e al loro rapporto con la documentazione notarile: da un lato la città di Trento, dall’altro il mondo rurale (comuni rurali, si- gnorie di castello, organizzazioni di valle). Questo spostamento comporta anche un parziale spostamento cronologico, al Trecento e non più esclusivamente o prevalentemente al Duecento.

Evidentemente, si tratta dei due versanti dello stesso problema. È assodato infatti che le istituzioni comunali trentine del Duecento

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sono di una debolezza estrema: di conseguenza, esse non possono fungere da volano di sviluppo e di consolidamento sociale e cultu- rale del ceto notarile. Il collegio notarile manca, e continuerà a mancare per lunghissimo tempo: non si parla nelle fonti locali di matricola, di statuti e di organizzazione professionale dei notai prima degli statuti cittadini del 1425, statuti aventi vigore anche in tutto il territorio del principato e della diocesi (non perfettamente coincidenti come è noto). Ciò ha evidentemente conseguenze mol- to gravi, per non dire catastrofiche, sulla capacità di sopravvivenza delle imbreviature notarili, che con poche eccezioni sono soprav- vissute sino alla fine del Quattrocento (e oltre) solo all’interno del- l’Archivio del principato vescovile di Trento. Anche nei pochissi- mi protocolli trecenteschi sopravvissuti di notai attivi nel contesto cittadino, e che hanno una clientela laica di mercanti, di osti, di proprietari fondiari ecc., la percentuale presente di atti rogati per gli enti ecclesiastici cittadini non è mai inferiore al 30%, tanto da far ritenere fondatamente che proprio a questa circostanza sia da collegare la sopravvivenza del pezzo. Solo gli statuti comunali del 1491 esplicitano infatti l’obbligo di conservazione delle imbrevia- ture da parte dei singoli notai. Ma sulla dinamica del notariato tren- tino in età moderna esistono ricerche datate ma ancora validissime, come quelle del Casetti, e non sono necessari in questa sede ulte- riori approfondimenti.

Tutto ciò non significa naturalmente che la capillarizzazione del notariato trentino non progredisse massicciamente nel corso della seconda metà del Duecento e nel secolo successivo. Il fatto che la documentazione non sia stata conservata non significa certo che essa non sia stata prodotta. Quanto meno è possibile accertare con facilità la notevole diffusione dei notai nelle diverse aree del terri- torio del principato vescovile di Trento. Già le imbreviature di Oberto da Piacenza e di Iacopo Haas conservano per gli anni Tren- ta e Quaranta del Duecento il nome di diverse decine di notai pre- senti a Trento (oltre che a Bolzano) nonché nelle varie aree del ter- ritorio diocesano, anche se, ovviamente, è impossibile dire se tutti siano stati professionalmente attivi. Ma soffermiamoci in particola- re sul Trecento. Mancando un ceto notarile professionalmente au- tonomo e organizzato, la documentazione notarile cittadina si ad- densa attorno ai consueti centri di produzione e di conservazione ecclesiastici: curia episcopale e capitolo della cattedrale rispetti-

vamente mantengono e acquisiscono un ruolo significativo. Gli sta- tuti del capitolo della cattedrale del 1336 fanno esplicito riferimen- to a professionisti addetti esplicitamente al servizio dell’istituzione, e le loro imbreviature costituiscono nel corso del secolo una serie molto cospicua. Il notaio Pietro Stancari, nella coperta di un suo registro di atti (Liber Petri de Stanchariis notarii reverendi capituli

Tridentini) fa sfoggio delle sue conoscenze di diplomatica pontifi- cia annotando con una scritta che inizia «Noverint universi hanc paginam inspecturi quod millesimo CCC° LXXV quo anno fui el- lectus per capitulum Tridentinum scriba et notarius ipsius capituli» i suoi guadagni conseguiti «in conficiendo instrumenta capituli et

alia undecumque» in quell’anno e nei successivi; per la cronaca, si oscilla fra il 1375 e il 1391 fra il 19 e i 60 ducati all’anno, con una media di 35. Rispetto ai notai capitolari, tra i notai operanti all’interno dell’organigramma della cancelleria episcopale solo al- cuni (ad esempio i notai del vicario episcopale, cioè coloro che la- vorano almeno in parte al di fuori del castello) mantengono anche aperto un pur secondario canale di relazioni con la clientela cittadi- na e non lavorano strettamente in esclusiva. Ovviamente, tra i notai legati al principe vescovo è possibile individuare le specializzazio- ni nel servizio del vicario episcopale in temporalibus o in spiritua-

libus, nel servizio del giudice, nella redazione dei libri feudales, e così via.

Il tratto saliente che emerge da queste fonti, rispetto al problema complessivo del rapporto notariato/città, è comunque la presenza fitta dei notai in un centro urbano che mantiene nel Trecento di- mensioni estremamente modeste, non superiori certamente ai 3- 4.000 abitanti. Nel solo anno 1376, in un centinaio di atti rogati da Pietro Paolo, notaio del vicario vescovile, sono citati almeno una cinquantina di notai, come testimoni, come procuratori, come roga- tari effettivi, o in altro modo. L’estrazione sociale è molto varia; a perfetti sconosciuti si affiancano esponenti di famiglie dell’aristo- crazia in via di consolidamento signorile (Thun, Cles). Per quel po- co che si può dire allo stato attuale delle ricerche, questo notariato cittadino resta un notariato colonizzato, privo di sbocchi, di quelle opportunità e di quegli stimoli che ad esempio nello stato sabaudo bassomedievale sono forniti ai notai italiani dal rapporto vivo e ar- ticolato con lo sviluppo del principato territoriale, che ha matrice e

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modello transalpino ma è interessato in modo crescente anche al contesto pedemontano.

Considerazioni in parte diverse vanno fatte per i notai del terri- torio. Anche qui il naufragio della documentazione bassomedievale è stato, nel territorio trentino, pressoché totale. Qualche rarissima imbreviatura trecentesca si trova nell’Archivio del principato ve- scovile, non deputato ovviamente alla conservazione di questo tipo di fonti, che solo per vie traverse e occasionali si sono salvate nei fondi documentari della Sezione latina. Qualche altra imbreviatura è reperibile in archivi di famiglie aristocratiche, come quello dei Thun: ma anche in questo caso, fatta salva l’eventualità dell’appar- tenenza del notaio stesso alla famiglia titolare dell’archivio, è la connessione con funzioni pubbliche – soprattutto di carattere giu- risdizionale – svolte da qualche esponente della casata a facilitare, con ogni verosimiglianza, la sopravvivenza di alcuni protocolli. È ipotizzabile che i primi decenni del Trecento abbiano costituito una

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