• Non ci sono risultati.

1. Rime Amorose

1.5 Donna «fera crudel»

La donna è creatura affascinante (fascino che deriva da «gli occhi sereni e le sue treccie bionde»71) e orgogliosa, per cui il poeta fatica a far breccia nel suo cuore; è «fera crudel» che scappa nel momento in cui l’amante la insegue e gli si rivolge, invece, «senz’orgoglio ed ira»72 quando è lui a voler andarsene dopo il rifiuto ricevuto, in un continuo scambio di ruoli senza soluzione, se non la morte di uno dei due. Questo tipo di situazione e il linguaggio sono di petrarchesca memoria: Laura era «fera bella et cruda»73 che non si lasciava catturare, sfuggendo in continuazione al cacciatore-amante.

Ahi crudo Amor, ma tu allor più mi ʼnforme

a seguir d’una fera che mi strugge, 40

la voce e i passi et l’orme,

et lei non stringi che s’appiatta et fugge74;

69 M. Scotti, La lirica di T. A., p. 368.

70 Ib., p. 365.

71 Rime, CXXXIX, v. 5.

72 Ib., VII.

73 Petrarca, Rvf, 23, v. 149.

39

Petrarca sottolineava come non vi fosse nessuna creatura animale che di notte o di giorno si aggirasse nella foresta così «aspra» e ostile come la donna che lo spinge al pianto e gli procura insonnia75. Il paragone tra la donna e l’animale crudele, avverso a chi vorrebbe catturarlo solo per amarlo, sarà il leit-motiv di molti componimenti successivi, in particolare di autori che si pongono sulla scia dell’antico poeta.

Il Cariteo chiede sollievo dalle pene d’amore che lo spingono verso la morte e non gli lasciano speranza76; Luigi Alamanni riconosce la sua eterna appartenenza all’amata, che si rivela essere però non solo crudele, ma anche superba ed empia («Sempre sarò di chi mai sempre fui, / o fera aspra, rapace, empia, e superba»77); si sente morire anche Pietro Bembo di fronte alla donna che ama più di quanto lei possa pensare («questa fera et crudel a morte spinse / un, che l’amò via più che gli occhi suoi»78).

La freddezza dimostrata dalla donna è spesso paragonata alla neve e al ghiaccio che non lasciano sbocciare nessun frutto d’amore. «Donna crudel trovai di neve»79, e ancora, «di ghiaccio ella ben parve»80 scrive Accetto, ricordando, prima, il gelido atteggiamento riservatogli dall’amata e augurando, poi, ai «dogliosi amanti» di riuscire a togliersi dall’inghippo d’amore, nella consapevolezza, d’altronde, che neve e fuoco convivono nella natura umana: «dal foco già mai non è divisa la neve»81.

Il Tasso usa questa similitudine in opposizione alla fiamma che arde nel cuore dell’amante: il «freddo petto» femminile si arma di «neve» e «gelo» per contrastare l’ardore infuocato del corteggiatore82; anche Marino troverà nella sua donna un cuore di «neve e ghiaccio»83 da cui non può trarre nutrimento e refrigerio contro la febbre amorosa. Ma è il Petrarca che, prima di loro, aveva utilizzato il freddo paragone, sia per figurare la purezza dell’incarnato femminile, sia per connotarne il carattere distaccato e inflessibile.

75 Petrarca, Rvf, 22.

76 Cariteo, Rime, 5:

«Pietà! Pietà! Per dio, ch’io moro ad torto, / amando questa fera ingrata et dura, / poi che senza speranza di conforto, / son gionto a crudel morte et immatura! / Alcun, che per me resta, faccio accorto / che scriva al mio sepulcro sta scriptura: / – Qui giace quel che per amore è morto / di tal, che di sua morte non ha cura! –».

77ww2.bibliotecaitaliana.it/xtf/view?docld=bibit000493/bibit000493.xml&chunk.id=d4198e2634&toc.de pth=1&toc.id=&brand=newlook 78 P. Bembo, Rime, 59, vv. 13-14. 79 Amorose, 55, v. 11. 80 Rime, CX, vv. 12-13. 81 Amorose, 98, vv. 3-4. 82 T. Tasso, Rime, 173.

40

“Neve” è parola rima nella sestina 30: «Giovene donna sotto un verde lauro / vidi più biancha et fredda che neve».

Sarà nelle Rime amorose accettiane del 1638 che il focus poetico verterà ripetutamente sulla crudeltà della donna, messa in primo piano già nei titoli: Crudeltà della sua donna mai non vien meno (55), Ad un lauro, nella crudeltà della sua donna (81), Crudeltà della sua donna (97, 124). Nessuno di questi componimenti compariva nella prima edizione, assenza indicativa di come la raccolta diventi più scura e povera di positività con il passare del tempo e con i cambiamenti interni dell’autore e della società.

Come Apollo si ferma a baciare Dafne dopo averla inseguita – «donna inessorabil fera» ormai trasformata dai genitori in alloro – così il poeta ricorda come abbia «seguito un cor sì duro ch’è converso in pietra», il quale fugge ed è sordo come era «sordo tronco» quello a cui Apollo si rivolgeva. L’«ultima speme»84 abbandona il cuore del poeta che, però, se ne spoglia «volentier» pur di dare piacere all’amata:

però di speme volentier mi spoglio,

e d’ogni mio pensier piego le vele. 8

Veggami pien di strazio e di dispetto, vegga me da me stesso abbandonato,

e (se pur tanto può) n’abbia diletto85. 11

Torna il tema dello smarrimento di se stessi a causa del sentimento provato, sottolineato qui da un’anafora (versi 9 e 10) e dalla consapevole accettazione di questa condizione. Essendosi innamorato di un «gentil volto e cor ingrato» il poeta non può fare a meno di riflettere le conseguenze di questa contrapposizione, compiacendosi di fronte alla bellezza della sua donna e allo stesso tempo soffrendo per la sua durezza.

La «fera crudel» viene inseguita nuovamente nel madrigale 124, ma ella «nulla fugge più ch’i fidi amanti» – come in Tasso «odia più chi più l’honora»86 – così che nessun sollievo è dato all’uomo che errando la cerca, la scorge, ma non riesce mai a raggiungerla. La vera crudeltà si dimostra, però, quando è l’amante che, sconfortato e umiliato, cerca di allontanarsi da lei: la donna si ferma e lo guarda «senz’orgoglio ed ira» solamente per dargli una qualche (falsa) speranza e attirarlo nuovamente a sé87.

84 Amorose, 81.

85 Ib., 97.

86 Tasso, Rime, 48, v. 8.

41

L’inseguimento, il continuo protendersi verso l’amata, l’assoggettamento ad Amore si rivelano essere errori (fatali?) che il poeta riconosce non appena si chiede le motivazioni del suo dolore. Si lamenta della durezza con cui viene trattato e della sofferenza che è costretto a subire; nulla sembra addolcire l’«aspra tiranna»88 e il poeta riconosce il «danno» che l’amore – «lusinghier fallace» – può procurare, ma non riesce – spesso, non sempre – a rinunciarvi:

Aspettar per mercede un dolce affanno, servir ardendo e non aver mai pace,

quest’è la vita mia, questo è l’inganno89. 14

Il sentirsi presi in giro e ingannati è motivo ricorrente: l’amore può essere inganno nel momento in cui chiede molto e non dà nulla, così come falsa può essere la pietà che la donna mostra nei confronti del poeta. È proprio quest’ultima possibilità che viene presentata in Pietà in apparenza90, un sonetto dedicato a quella virtù la cui «nobil sede» è il volto dell’amata, dalla quale, però, non deriva un vero e concreto atteggiamento di compartecipazione: «vera pace a me non si concede, […] / aita indarno il cor sospira e chiede». La realtà è ben diversa dall’apparenza e solo chi, come l’amante, si trova nella situazione di vedere, ma non ricevere, può capirne la differenza. Solo quando la «bella pietà» non sarà più un fatto esteriore, ma troverà la sua vera sede, nel cuore, nell’intimo dell’amata, allora il poeta potrà goderne; essa diventerà reale quando provocherà un effettivo cambiamento nelle azioni della donna. Fino ad allora non rimane che riconoscere la sua natura di «dolce inganno di soave aspetto».

Dal vago volto e da sue rose ornate scendi più lieta ad abitar nel petto,

non degno albergo de le voglie ingrate. 11 Fin che non giungi a quel gentil ricetto,

amica non sei tu, né sei pietate,

ma dolce inganno di soave aspetto. 14

Nel capitolo nono della Dissimulazione onesta, Accetto aveva citato il famoso proverbio per cui non è tutto oro ciò che luccica, specificando come questo valga per la Terra, ma non per il Cielo: «ciò che luce nel Cielo ben corrisponde sempre, perché ivi tutte le cose

88 Amorose, 34, v. 11.

89 Ib., 30, vv. 12-14.

42

son belle dentro e fuori»91. È per questo che la bellezza vera verrà alla fine contemplata dal poeta nelle virtù celesti e non più in quelle terrene, ma nel periodo dell’innamoramento il poeta è ancora schiavo dell’oro terreno – il fascino femminile – e si lascia ingannare da esso.

Il potere della donna sembra poter imporre le leggi d’Amore anche all’indomabile natura, dirigendo le acque, l’aria e il corso delle stelle. Se queste sono le sue capacità, come le eserciterà e quali saranno i loro effetti nei confronti dell’amante? Il poeta ha la risposta pronta: l’innamoramento l’ha trasformato in «servo» e «preda» incapace di modificare la sua situazione di sottomissione, perché irresistibile è l’attrazione nei confronti dell’amata. Riconosce l’inganno, ma il «danno» che subisce è compensato e contrastato dal «bene» che deriva dalla vicinanza della donna.

I’ fido servo, i’ d’amoroso inganno misera preda, a te mi giaccio appresso,

e qui sento il mio bene e qui ʼl mio danno92. 14