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5. Rime sacre

5.1 Pentimento

Nelle Rime morali, il poeta ha riconosciuto i «difetti di terreno amore»9 e ha cominciato a rivolgere il pensiero al cielo, fonte di vera pace e sede dell’unico Essere che può donare salvezza eterna, non essendo soggetto allo scorrere del tempo. Per poter intraprendere la via verso la redenzione è necessario, però, un passaggio ulteriore: il pentimento. L’uomo, dopo il riconoscimento delle proprie colpe, deve rivolgersi a Dio chiedendo pietà, nella certa speranza che Egli dona sempre il suo perdono.

Nell’edizione del 1621, le cinque poesie di argomento religioso sono precedute da due sonetti intitolati Pentimento: solo uno dei due verrà ripreso successivamente, ma la tematica verrà comunque ampiamente sviluppata anche nell’ultima edizione, a partire già dalla sezione morale, per poi trovare piena realizzazione in quella sacra.

Il sonetto CXLVI sarà il ventunesimo delle Rime sacre e nella prima edizione ha la funzione di introdurre le seguenti poesie religiose. Lo riportiamo nella versione della prima stesura:

Già nel sentier che mille cori e mille sovente inganna, io pur gran tempo andai e per lo stesso ancor piansi e cantai

chiare bellezze e lucide faville. 4

Or cangian gli occhi miei l’usate stille, pensando come caddi e come errai, e ragion vuol ch’io mi rivolga omai

dove promise il ciel ľore tranquille. 8 Da le vaghezze del mortal sembiante,

che di breve diletto anco m’accese,

a l’eterno splendor ritorno amante 11

e i segni de l’ingiuste e gravi offese a la stanca memoria impressi avante,

per più fuggir le già lasciate imprese10. 14

8 M. Scotti, La lirica di T. A., p. 384-85.

9 Morali, 7.

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La «ragion» prima tenuta prigioniera dai sensi fa ora valere le sue motivazioni e spinge il poeta a volgere lo sguardo al cielo, sede della fonte di vera pace. Si passa così dal desiderio del «mortal sembiante» a quello dell’«eterno splendor», dal vagheggiare un piacere che si rivela essere breve ad uno che si sa essere imperituro. È il momento di ripercorrere con la memoria gli anni trascorsi e tracciare una linea di confine con quelli che verranno: occorre rivivere per un momento le «gravi offese» ricevute, per poterle collocare in primo piano nella propria mente, come se i ricordi fossero segni tangibili della sofferenza provata e fungessero da prevenzione contro le eventuali nuove tentazioni. Per «gran tempo» il poeta ha camminato su sentieri ingannevoli, così come per «gran tempo» il Petrarca era stato schernito11 e il Bembo aveva dovuto combattere una guerra d’amore per «molti e molti anni»12: è il destino degli amanti quello di approdare alla consapevolezza degli errori commessi solo dopo un lungo percorso esperienziale, dato che viene però espresso, per tutti e tre gli autori citati, in punti salienti delle rispettive raccolte (nel sonetto proemiale per Petrarca e Bembo, nel sonetto che apre una nuova fase poetica, a livello contenutistico, per Accetto).

Lo «stral di penitenza»13 trafigge il cuore che si è lasciato ingannare da «falsi aspetti»14: nei versi iniziali del sonetto accettiano, il poeta riconosce i sentieri sbagliati percorsi e, a questo punto, qualcosa sembra cambiare: i sentimenti e le parole si volgono altrove, muta la causa del pianto15. Se prima le lacrime erano dovute ad un amore terreno, ora sono versate per il profondo senso di colpa nei confronti di Dio e degli errori commessi. Questo motivo ritorna in altri componimenti, a partire dal madrigale 25, intitolato Lagrime di pentimento. In questo, dopo aver riconosciuto l’«errore» per aver sparso lacrime per un «fallace amore», un nuovo «pianto» scuote l’uomo, di liberazione e guarigione, non più di sofferenza: «pianto sia medicina al mal che piacque tanto». Allo stesso modo, di fronte all’illusorio «mare de l’amoroso […] pianto», gli occhi si volgono altrove e i «lumi e i fiori» che un tempo l’amante bramava di vedere nel volto della donna sono ora cercati «ne le stelle», vera fonte di luce e di bellezza:

Di sì stolte fatiche accorti gli occhi 25 mi fecero cangiar lagrime e note

11 Petrarca, Rvf, 1, v. 10.

12 P. Bembo, Poesie, 1, v. 2.

13 Morali, 4, v. 3.

14 Rime, CXLVII, v. 6.

138 e cercar ne le stelle i lumi e i fiori16.

È nel momento in cui l’uomo rivolge nuovamente lo sguardo al cielo che ha la possibilità di ritornare in se stesso, dopo la lunga permanenza in anfratti lontani dal cuore e dalla verità. Tutto ciò che riguarda il passato amore e i desideri terreni è connotato da una significativa negatività, in contrasto con la ritrovata fonte della speranza: era «infida» quella a cui si abbandonava il poeta al pensiero della donna amata, «breve» il diletto che questa poteva offrirgli e «vano» il desiderio di tutto ciò che è terreno.

Io, ch’era da me stesso anco lontano per seguir troppo una speranza infida, acciò che del mio fallo altri non rida,

in me ritorno e sprezzo il disir vano. 4 E scopro agli occhi miei nel vulgo insano

i falsi aspetti e i cori ove s’annida l’avaro inganno, e m’è difesa e guida

de l’eterna pietà l’invitta mano. 8

Ciò che più mi piacea, lascio sì tosto che non oso fermar le voglie mie,

e meco giace il mio pensier nascosto. 11 Nè più le genti insidiose e rie

tra le lusinghe mi terran disposto

al dolce error de le fallace vie17. 14

Ritorna il cambio di prospettiva, per cui si lascia ciò che prima si bramava, riconoscendolo come deleterio e biasimevole. L’attacco al «vulgo insano», alle «genti insidiose e rie», è un motivo ricorrente nelle poesie accettiane, che identificano nella massa la principale fonte di errore, perché si adopera per lusingare e per ingannare. È appunto «inganno» una delle parole chiave del vocabolario accettiano: lo è l’amore, lo è il «cieco mondo»18 che circonda il singolo, lo è l’apparenza; basare la propria vita su di esso sarebbe la via più semplice da percorrere, perché non implicherebbe uno sforzo personale di ricerca della verità, ma si accontenterebbe di un adeguamento a ciò che il «vulgo» propone. Eppure quest’ultimo, con la sua «fallace usanza», con le sue abitudini corrotte, non è porto sicuro a cui attraccare la nave della propria vita, perché essa galleggerebbe in acque di falsità e apparenza, avrebbe fondamenta instabili.

16 Sacre, 22.

17 Rime, CXLVIII.

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Troviamo queste riflessioni in due poesie sacre del 1638, dedicate al Pentimento (10, 12), non presenti nella prima edizione. Come già abbiamo potuto vedere, il pentirsi e l’alzare gli occhi al cielo diventano motivi di riflessione sul passato e di attese per il futuro. La consapevolezza delle colpe commesse è il primo passo per ritornare al Signore e non errare più:

Ne la tua santa man la mia speranza lieta si volga, e languida e cadente

non segua il vulgo e sua fallace usanza. 11 Poiché nel grave duol l’alma si pente,

questa, ch’incerta e breve ora m’avanza,

sia tal ch’eterna luce abbia la mente19. 14

Le speranze, se rivolte a Colui che davvero può donare pace, non sono più «travïate e sparte»20, ma diventano sicure: il poeta ha a lungo navigato nella tempesta, cercando un «pelago infinito», ma ora si rende conto che può trovarlo solo nella «santa mano» di Dio21. Non è tardi per cambiare rotta, nonostante la nuova via possa essere incerta e il tempo rimanente poco; è importante che la morte, una volta giunta a separare l’anima dal «fragil manto» che è il corpo, la trovi rivolta al cielo, pura e integra e non abbia così motivo di ridere di lei. Questo è ciò che il poeta scrive nella canzone sacra 12 mentre si rivolge direttamente alla sua parte immortale.

Lieta e pensosa intanto

mira il gran tempio e quel sentier gradito tra le stelle, e ʼl piacer dolce e spedito: fuggi poi l’altre vie, fuggi gl’inganni,

per trovar pace e consolar gli affanni. 15

Nell’attendere la morte, il compito dell’anima è quello di guardare alle stelle che indicano il «sentier gradito» che conduce alla pace; tutte le «altre vie» sono da evitare, da “fuggire”, e lo sa bene chi le ha già in parte percorse; il poeta, infatti, rivolgendosi a se stesso scrive: «tu ʼl sai, tu che ʼl fuggisti», quando tutte le promesse fatte da Amore si rivelarono «inganni e larve» e il rischio di rimanere nel «giro de le pene» era grande.

19 Sacre, 10.

20 Ib., 12, v. 5.

21 Cfr. Ib., 16, vv. 9-11:

«Tutto rivolto nel mio pianto, invano / andai cercando in pelago infinito / quel che sol mi può dar tua santa mano».

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Ma una volta resosi conto che l’amore vero è quello che non è soggetto ai “tarli” e alle “lime” del «tempo ingordo», che non è compromesso né dalla morte né dalla nascita e vive quindi in eterno, l’uomo ha la possibilità di redimersi.

Sian dunque i tuoi sospiri

nel fango no, ma in quegli accesi lumi, e piaccia il rinovar voglie e costumi.

Grazie alla «forza» della pietà divina, l’uomo che si affida umilmente nelle mani di Dio ha la possibilità e l’aiuto per cambiare abitudini e desideri che non lo rendono davvero felice e superare i nuovi assalti che la «beltà fallace» compie ai suoi danni. La nuova ricerca consiste nel trovare «riparo» sicuro dalle falsità e dagli «abissi» terreni, così che l’anima possa nuovamente ardere per la vera «fonte» della vita e non per una «palude».

Già ritornasti, o peregrina errante, dal lungo essiglio sconsolata e sola, poi ti fu nuovo ardor fido compagno. Ormai prendi conforto e ti consola

che sì dritto sentier preman le piante, 80 che fonte io cerchi e non palude o stagno.

Ecco che i piedi cominciano, dopo lungo errare, un sentiero meno tortuoso, perché ora l’obiettivo e la meta sono chiari, come chiare sono le strade da evitare per raggiungerli. In precedenza «era degli occhi miei tiranno un velo»22, ora, fatta luce sulle offese commesse nei confronti del cielo, non resta che ammetterle apertamente e cambiare vita: «O tempio luminoso, eterno e santo, / come offesi il tuo raggio ormai rivelo». Ciò che il poeta merita è la dannazione, ma la pietà celeste gli concede il perdono, visto il pentimento che manifesta: è grazie a questa che il poeta può essere accolto nelle «piaghe»23 del Signore, segno dell’immenso suo amore per gli uomini, e navigare serenamente guidato dalle stelle.

La contrapposizione tra la terra, sede mortale dell’uomo e il cielo, meta ultima a cui aspirare per la salvezza, si ripresenta anche nell’edizione intermedia24, contrasto ancora una volta riconosciuto nel momento in cui ci si pente degli errori commessi e si chiede pietà: «errai, ne piango, e vorrei gir sottoterra / per celar quanto piacque al petto insano».

22 Sacre, 14, v. 5.

23 Ib., 16, v. 4.

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La terra è «fragil» e così è anche l’uomo che si è lasciato trascinare dal desiderio delle bellezze mortali, allontanandosi dal volere divino, che è, al contrario, «eterno». Ora è il momento di cambiare:

Il torto calle converrà ch’io mute, e preda non restar d’ombra e d’errore,

tutto è grazia e perdon non mia virtute. 14