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3. Rime morali

3.2 Maschere

Il secolo XVII fu uno dei più violenti della storia: poteri dispotici, arbitrari, guerre di religione, ingiustizie, cambiamenti di carattere sociale e religioso. Si potrebbe dire, con Accetto, che gli uomini furono costretti ad indossare maschere, perché troppo rischioso era manifestare apertamente il proprio pensiero, soprattutto se in contrasto con quello imperante. Molte furono le parole non dette: paura? Autoconservazione? Ignoranza? Molti possono essere stati i motivi. La capacità di dissimulare, per un intellettuale, poteva diventare strumento di salvezza, di sopravvivenza e mantenimento della propria identità, seppur in parte celata al resto del mondo.

La dissimulazione «figlia della segretezza, era da tempo strumento del potere» e Botero, nella sua Ragion di Stato, la poneva tra gli strumenti principi dell’ars regnandi: «dissimulazione si chiama un mostrare di non sapere o di non curare quel che tu fai e stimi, come simulazione è un fingere e fare una cosa per un’altra»19.

D’altra parte, questo atteggiamento poteva essere un rifugio, una protezione per chi aveva bisogno di sottrarsi al potere. Giordano Bruno la definiva «ancella della Prudenza» e, se sfruttata onestamente, poteva essere via parallela, perché nascosta, a quella della Verità palese e manifesta. Una sorta di compagna favorevole: la verità, in questi casi, veniva coperta perché potesse essere custodita e protetta.

18 Morali, 20.

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La dissimulazione nel Seicento era un abito quotidiano che cortigiani, segretari, consiglieri, intellettuali e principi dovevano indossare, adattandosi alla ruvida stoffa. È per questi motivi che l’immagine della maschera divenne emblematica nel corso del secolo, veicolo di insegnamenti morali, rappresentazione simbolica del vivere in società da una parte, ricordo di spensieratezza e di gioventù dall’altra.

Nelle Rime Accetto comincia ad affrontare l’argomento, che poi troverà la sua massima espressione, dissimulata, nel trattato. Il sonetto LV porta l’esplicito titolo di Maschere, e con questa occasione biasima chi va ricoperto di finta bontà, e si può considerare uno dei più forti esempi di come la dissimulazione agisca già nella lirica, per trovare poi pieno compimento nella prosa. Questa poesia sopravvive nell’edizione intermedia, ma il titolo si ridimensiona, diventando più vago: Maschere. Non ci stupiamo nel notare che nell’edizione definitiva la lirica in questione manca totalmente: troppo compromettente, troppo palesi le considerazioni in essa contenute. Il lavoro dissimulatorio mostrava i suoi primi frutti.

Tra la prima e la seconda edizione, però, non è solo il titolo a cambiare, nonostante in entrambe il motivo fondante sia il biasimo nei confronti di chi maschera il vizio con un’apparenza di virtù. La condanna della simulazione si intensifica da un’edizione all’altra, sottolineandone il pericolo:

1621 1626

Mentre Venere e Bacco in finti aspetti errano intorno tra vezzosi amanti,

che ricoprendo i timidi sembianti spiegano i cori agli amorosi oggetti,

veggo altri insidiosi ed imperfetti,

che ʼl piacer voglion dentro e fuori i vanti, e dimostrando i volti umili e santi

velansi l’alme di mentiti affetti.

O de l’anime sagge opra non degna,

seguir de’ vizii le fallaci scorte e sol de la virtù portar l’insegna.

Donne, voi siate ne’ perigli accorte: ma chi, lasso, v’addita, e chi v’insegna com’è ch’altri nel cor le larve porte?

Mentre Venere e Bacco in finti aspetti errano intorno tra vezzosi amanti,

che ricoprendo i timidi sembianti spiegano i cori agli amorosi oggetti,

altri che sembran puri e semplicetti,

e ʼl piacer voglion dentro e fuori i vanti, veggo mostrar i volti umili e santi e velar l’alme di mentiti affetti.

O d’umano pensier legge non degna,

seguir del vizio le fallaci scorte e sol de la virtù portar l’insegna.

Donne, voi siate ne’ perigli accorte: ma chi, lasso, v’addita, e chi v’insegna com’è ch’altri del cor le larve porte?

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Le correzioni nella seconda quartina «accentuano il pericolo che si cela dietro la simulazione, più esplicitamente condannata»20: se i volti apparentemente umili e santi appartengono ad amanti che sembrano semplici e puri, piuttosto che palesemente insidiosi e imperfetti, più difficile è scovare la menzogna degli affetti, perché dissimulata.

Nei versi successivi si generalizza la condanna del vizio mascherato da una vuota insegna di virtù: non è più indegno solo delle anime sagge, ma dell’intero genere umano, che è spinto all’inganno mantenendo sempre il volto pulito. Il vizio, nell’edizione intermedia, è indicato al singolare, risultando così maggiormente personalizzato e dando al verso più pregnanza sia dal punto di vista lessicale che semantico.

Nel diciassettesimo capitolo della Dissimulazione onesta, Accetto paragonerà l’uomo ad uno spettatore che assiste ai molti «dispiaceri» del «gran teatro del mondo», in cui si rappresentano commedie e tragedie che mettono in scena le «mutazioni» di quel mondo in cui l’uomo vive. Anche Campanella, che aveva dissimulato la sua sanità mentale, simulando la pazzia per salvarsi la vita, aveva parlato di anime «ammascherate» dai corpi, che si sarebbero svelate solo nell’ultima ora, quando rendendo «le maschere alla terra, al cielo, al mare, in Dio vedrem chi meglio fece e disse»21; non sarà probabilmente un caso il fatto che Accetto abbia usato proprio le stesse parole di chi nel Seicento aveva pienamente incarnato la dissimulazione onesta. Dobbiamo, infatti, sottolineare come non tutte le maschere siano considerate riprovevoli. Anche il dissimulare comporta il «mutar manto», ma la differenza sta nell’intento – simulare è «frode», dissimulare è «non patir danno» – e nella quantità: «se alcuno portasse la maschera ogni giorno, sarebbe più noto di ogni altro»22. Chi mente per abitudine e abusa della falsità diventa ben presto riconoscibile, mentre chi dissimula quando è opportuno farlo, per non andare incontro a pericoli, è maestro in quell’arte e saprà come sopravvivere agli inganni del mutevole mondo.

E delle mutazioni che si avvicendano nella realtà Accetto aveva parlato in un altro sonetto morale, il diciassettesimo: quando il pensiero di sofferma sul rimembrare le «memorie antiche» riconosce «gloria», «scorno», «stelle benigne» e altre avversarie.

Or la guerra, sudor, sangue e fatiche, or la pace trovar lieto soggiorno, sorger nuove città con volto adorno,

20 E. Ripari, Introduzione, p. XXXVI

21 T. Campanella, Poesie, 14.

109 altre cader, perché sian piagge apriche; 8 favella, abito e legge il lieto impero

cangiar sovente o rinovar costume,

e con l’arte schernir l’alto periglio. 11

Il mondo terreno non è stabile, leggi, città, uomini al potere si succedono e l’unico che comprende il motivo di tutto ciò è quel Signore che il poeta appella nell’ultima terzina, per rivolgergli una domanda retorica: «chi può l’orme spiar del tuo consiglio?».

I tradizionali valori e verità vengono sottoposti a domande e messi in discussione, le riflessioni sulla realtà e le prospettive da cui si guarda il mondo si moltiplicano, ponendo l’uomo di fronte alla mobilità dell’universo. Gli esseri umani, nei confronti dei continui cambiamenti che caratterizzano la realtà, possono percorrere due strade: lasciarsi trascinare, senza capire la fonte di quei movimenti, o «esaltarsi di fronte allo spettacolo dell’ingegno che penetra oltre le apparenze verso il segreto delle cose»23. Ed è quest’ultima via che, con pacatezza e serenità sembra scegliere Accetto. Il bello, riflette il poeta, è solo una «gentil dissimulazione» dei corpi, perché essi sono «soggetti alla mutazione»24: il cambiamento, come la morte, è insito nell’essere umano e nella società, è figlio del Tempo e va accolto, se non si vuole essere schiacciati da esso.

23 M Scotti, La lirica di T. A., p. 344.

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