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Donne sull’orlo di una voragine

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a donna è sicuramente uno dei bersagli pre- diletti da questa sorta di cambio di muta del cinema dell’orrore occidentale. Uno dei primi a capirlo è Rob Zombie, che con il suo Le streghe di Salem (The Lords of Salem, 2012) intercetta perfettamente il senso e il bisogno di nuove configurazioni e atmosfere: la storia di Heidi che viene ipnotizzata dal suono di un misterioso vinile e resa madre del figlio del diavolo, è per- fetta per mettere in scena una vicenda che pun- ta tutto sulla sottrazione e sugli stati allucinatori come veicolo per poter rarefare il più possibile il visibile. Attraverso questi ultimi, infatti, Zom- bie compone un film nel quale la protagonista perde sempre più violentemente il contatto con la realtà e con ciò che a quest’ultima appartie- ne. Davide Pulici, esagerando forse un po’, ma cogliendo il fulcro della questione, scrive: «È un film che passa alla storia per la potenza astratta che contiene, per il puro piacere dell’illustrazio- ne senza logica» (6). E quell’illustrazione senza logica è proprio ciò che lo rende perfetto per definire il viaggio allucinato in cui Heidi si perde senza nemmeno accorgersene.

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n Starry Eyes (2014) di Kevin Kölsch e Dennis Widmyer, invece, Sarah è una giovane attrice in cerca di successo. Il patto con la setta di de- moni la porterà a ottenere, in cambio del suo corpo, la fama tanto desiderata. La decompo- sizione fisica è ciò su cui i due registi fanno af- fidamento per raccontarci lo smarrimento della protagonista; il lento disfacimento del corpo

(5) Andrea Rabbito, Il cinema è sogno. Le nuove immagini

e i principi della modernità, Mimesis, Milano-Udine 2012,

pag.103.

(6) Davide Pulici, Sotto il segno di Artaud, «Nocturno» n. 129, maggio 2013.

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diventa allora esso stesso il viatico per avere a che fare con un altro sé che Sarah non conosce e rifiuta. In più il mondo rappresentato è cupo e decadente in ogni suo anfratto e non lascia intravedere un singolo spiraglio di luce: è come se una bolla oscura lo contenesse. Ma la cosa che più colpisce è che la lenta metamorfosi della giovane ragazza è venata di un leggero tocco surreale, come se non si riuscisse a comprende- re se tutto ciò faccia o meno parte di un lungo e interminabile incubo. E la rinascita non è da meno, con un rituale che sottolinea la natura ambigua della nuova carne di Sarah. Il racconto di Starry Eyes è un qualcosa che produce senso riflettendo sulla forza divoratrice delle immagini, oggetti ormai poco comprensibili che affasci- nano e irretiscono; non si può quindi negare che pure l’immagine che Sarah ha della possibile e nuova sé, sia effettivamente ciò che la conduce alla terribile metamorfosi. D’altronde, la ricon- figurazione stessa delle immagini nel cinema dell’orrore (7), è qualcosa che ha a che fare con

quello che scriveva Georges Didi- Huberman: «Perché le immagini ci tocchino veramente, bisogna che non siano più quella rassi- curante farmacia che la bellezza falsamente promette. Perché le immagini ci divorino, bisogna che noi le guardiamo come guarde- remmo uno sciame di mosche che si avvicina: un ronzio visivo che circonda la nostra stessa vo- cazione a decomporci» (8).

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molta cupezza e senso di smarrimento li tro- viamo anche in The Witch (The Witch – A New England Folktale, 2015) di Robert Eggers, nel quale una misteriosa entità cerca di distruggere una famiglia di puritani del New England nel diciassettesimo secolo. Thomasin, la figlia più grande, sembra attratta da questo essere che ha tutte le caratteristiche di una strega; ma i pia- ni spesso si confondono, le immagini ingannano, e non riusciamo a comprendere chi sia cosa. Il rapporto più ambiguo si realizza con gli animali che sono sempre perturbanti e riescono a inse- rirsi nella vicenda come elementi che disturbano le (poche) certezze della famiglia e di noi spet- tatori. E nel tratto stilistico iperrealista si crea lo stridore che fa del film un oggetto che cerca le tenebre per fuggire dalla chiarezza; il sabba finale nel quale Thomasin, con uno strano con- trappunto simbolico, ascende al cielo seguendo quelle che sono probabilmente altre streghe, è un momento di pura allucinazione. Non ci è chiaro insomma se Thomasin sia effettivamente entrata in contatto con il maligno, ma è proprio questo a permettere di sovrapporre gli elementi fantastici alle zone d’ombra, diluendo il flusso narrativo in una serie di misteriose piccole falle che minano il discorso rendendolo intelligente- mente oscuro.

È

forse però The Neon Demon (id., 2016) a ri- specchiare al meglio, in quegli horror che han- no una protagonista femminile, le caratteristiche di cui abbiamo finora discusso: Refn infatti im- merge la sua eroina in un’estetica del nulla dove le immagini riflettono la volontà di creare uno spettacolo che per sua forma sia già esso stesso

Ai margini del buio — Premio Adelio Ferrero 2017

(7) In questa direzione, uno dei film più interessanti degli ultimi tempi è senza dubbio Sinister (id., 2013) di Scott Derrickson, dove immagini vei- colate da ogni tipo di medium diven- tano il tramite per modificare la realtà e far confluire il male in una figura che solitamente non dovrebbe contenerlo: il bambino.

(8) Georges Didi-Huberman, La co-

noscenza accidentale. Apparizione e sparizione delle immagini, Bollati

Boringhieri, Torino 2011, pag. 34.

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la critica dello Spettacolo. Questo non gli impe- disce di farci perdere assieme a lei nel tripudio di blocchi narrativi che si succedono e che stanno profondamente in connessione con un vuoto che è anche quello che permea l’animo della prota- gonista. Non è un caso che a Cannes 2016 il film sia stato fischiato. Perché è un film che finalmen- te assomiglia a un enorme spot che promuove assolutamente niente. Un «cinema “contro il ci- nema”» (9) che, come giustamente scrive Alessio Galbiati, è «difficile da prendere, da guardare e rivoltare perché in apparenza vuoto e liscio, d’un luminoso buio, inghiottente come un buco nero. Contraddittorio almeno quanto il suo autore, eppure in grado di invischiarsi nella mente e tra i pensieri e di rimanervi aggrovigliato ancora a molti giorni dalla visione» (10). L’orrore di Neon Demon sta tutto in due fenomenali sequenze: la prima è quella della discoteca, luogo allucinato nel quale sembra svolgersi una sorta di astratto sabba, l’altra quella del servizio fotografico, in cui il putrido e lucente bianco produce un sen- so di vertigine e smarrimento. Due momenti di suggestione orrorifica quasi sussurrata, ma che permettono di aprire quel vortice sensoriale dal quale la protagonista Jesse verrà senza troppe giustificazioni stregata e (anche fisicamente) fagocitata.