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(10) Il rapporto fra precarietà dell’esistenza e diritto al lutto è da anni uno dei nodi fondamentali della riflessione di Judith Butler. Le linee generali di questa argomentazione si trovano in: Judith Butler, Corpi che contano. I limiti discorsivi del “ses-

so”, Feltrinelli, Milano 1996; Judith Butler, La rivendicazione di Antigone. La parentela fra la vita e la morte, Bollati Boringhie-

ri, Torino 2009. Un’utile sintesi si trova in Judith Butler, L’alle-

anza dei corpi. Note per una teoria performativa dell’azione collettiva, nottetempo, Milano 2017, pagg. 43-108.

(11) Per una generale introduzione sul rapporto fra pratiche artistiche e immaginario del dolore e della ferita si vedano: Francesca Alfano Miglietti, Identità mutanti. Dalla piega alla

piaga: esseri nelle contaminazioni contemporanee, Costa &

Nolan, Ancona-Milano 1997; David Le Breton, La pelle e la

traccia: le ferite del sé, Meltemi, Roma 2005; Angela Mengo-

ni, Ferite. Il corpo e la carne nell’arte della tarda modernità, Salvetti & Barbuffi, Siena 2012.

(12) Nel caso di Sick c’è una scena particolarmente significa- tiva immediatamente prima della chiusura del film. Sheree chiama il regista per mostrargli un contenitore pieno di un liquido giallastro. Come ci viene spiegato dalla compagna di Bob, «questo era nei suoi polmoni». L’equazione fra l’identità di Bob Flanagan come individuo e il liquido che sviluppandosi nei suoi polmoni lo ha portato alla morte è sancito da una transizione che collega un filmato di Bob bambino con il con- tenitore che Sheree regge fra le mani.

Sick: The Life & Death of Bob Flanagan, Supermasochistic

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iò che accomuna i film analizzati fino a que- sto momento, a fronte delle evidenti differen- ze stilistiche e del diverso tipo di immaginario a cui si ricollegano è che riguardano delle morti in qualche modo inevitabili: Bob Flanagan, Tom Joslin e i malati di cancro di Dying non avevano alcuna speranza di sopravvivere al loro male; nel loro caso, venire filmati (o filmarsi) significava lasciare una narrazione di ciò che la propria vita era stata. Diverso è il caso degli inconsapevoli protagonisti di The Bridge – Il ponte dei suicidi (The Bridge, 2006) di Eric Steel, controverso documentario sui suicidi avvenuti al Golden Gate Brdige di San Francisco nel corso del 2004. Lontano dall’essere sia una sorta di snuff movie come vorrebbero i critici più tranchant (13), che un accorato inno alla vita come ha più volte sostenuto il suo ideatore, The Bridge è prima di tutto un film che affascina e interessa per la sua capacità di annodare l’estetica filmica al riconoscimento della necessità di un’etica dello sguardo.

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iò è vero soprattutto perché, a differenza delle morti precedenti, i suicidi di The Bridge danno l’impressione di poter essere evitati. Ciò rende in qualche modo colpevole l’occhio della macchina da presa, perché filmare in questo senso sembra prima di tutto un rifiutarsi di agi- re. A questa impressione contribuisce anche la vastità delle risorse predisposte da Steel, che è stato in grado di filmare il Golden Gate ininter- rottamente per tutte le ore di luce di un anno, raccogliendo circa diecimila ore di girato. In questa massa di immagini l’occhio della macchi- na da presa scruta i volti e gli individui che pas- seggiano sul ponte, costantemente alla ricerca

di un possibile suicida. La posizione assunta da Steel è eticamente problematica perché oscilla continuamente fra diversi tipi di atteggiamento: a volte sembra lasciare che tutto accada senza intervenire, mentre spesso sono proprio i membri della troupe a chiamare i poliziotti di pattuglia per impedire il potenziale suicidio.

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n questa continua oscillazione fra diversi atteg- giamenti visuali (14) anche la nostra posizione come spettatori viene resa più problematica. Una delle prime inquadrature del film è una lun- ga ripresa del Golden Gate nella sua interezza, dove nulla pare accadere. Poi, a un certo punto, sentiamo il rumore di qualcosa cadere in acqua. Ecco che, immediatamente,

realizziamo ciò che è avvenuto e che tuttavia non siamo riusciti a vedere. Costruendo l’apertura del film in questo modo, Steel ci pone nella scomoda posizione di voler vedere di più se non – ad- dirittura – di voler rivedere quelle immagini per scorgere, piccolis- sima, un’ombra che precipita dal ponte. A partire da questa struttura che fa leva sulla nostra compulsione a vedere, il regista ordisce il resto del film attorno a un principio di massima visibilità (15). Questo movimento, proprio in virtù della sua estrema pro- blematicità, ci impone di consi- derare la necessità di un’inter- rogazione etica di ciò che stiamo vedendo e della nostra posizione nei suoi confronti.

(13) Non è questa la sede per una di- samina dettagliata del tema; il lettore che intenda esaminare la questione più nel dettaglio si renderà conto di come

The Bridge non possa essere classi-

ficato come snuff movie soprattutto (ma non solo) perché non pensato per stimolare eccitazione erotica nel suo spettatore. Per una panoramica gene- rale al riguardo si veda: Neil Jackson, Shaun Kimber, Johnny Walker, Thomas Joseph Watson (a cura di), Snuff. Real

Death and Screen Media, Bloomsbury,

Londra 2016.

(14) Di diverse modalità dello sguar- do cinematografico di fronte ad una morte su punto di compiersi parla soprattutto Vivia Sobchack, Inscribing

Ethical Space: Ten Proposition on De- ath, Representation and Documentary,

«Quarterly Review of Film Studies», vol. 9, no. 4, 1984.

(15) Per una discussione ormai classica su questo elemento si veda Linda Wil- liams, Hard Core. Power, Pleasure and

the “Frenzy of the Visible”, University of

California Press, Berkeley 1999.

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edere tutto, però, non significa necessaria- mente comprendere le immagini di più o meglio. Lo dimostra drammaticamente il film di Costanza Quatriglio 87 ore. Gli ultimi giorni di Francesco Mastrogiovanni (2015), film urgente e necessario che ricostruisce l’internamento del suo protagonista nell’ospedale di Vallo della Lucania e la successiva morte, avvenuta dopo – appun- to – ottantasette ore di costrizione senza cibo né acqua. Lo fa sfruttando a proprio vantaggio quel meccanismo di sorveglianza panottica che, in tutti i luoghi del controllo, contribuisce a plasmare atteggiamenti e soggettività, come a suo tempo ha giustamente teorizzato Foucault (16). In questo modo non solo le tecnologie del controllo vengo- no utilizzate in modo eversivo contro il soggetto di potere che le ha predisposte; ciò che forse è più importante è la capacità di quelle immagini di fungere come prove (anche nel senso giuridico del termine) in una società che appare sempre più incline a metterne sempre più in discussione il va- lore documentario (17). Nelle inquadrature delle telecamere di sorveglianza lo spettatore è chia- mato a farsi testimone del trattamento inumano ricevuto da Francesco Mastrogiovanni (sottoposto a TSO per i suoi atteggiamenti anarcoidi e antiso- ciali): i tentativi di liberarsi dalle cinghie, i lamenti per chiedere aiuto, il comportamento degli inser- vienti; tutto è archiviato e assume il valore di fatto proprio a partire dal suo essere stato ripreso.

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oi, improvvisamente, ci rendiamo conto che Francesco è morto sotto i nostri occhi. La re- gista ci mostra la sequenza di immagini in cui avviene il momento della morte ma, significati- vamente, è solo nel momento in cui gli infermieri arrivano nella stanza e accertano lo stato delle cose che riusciamo a interpretare quanto abbia- mo visto. Pur se presente nel girato, il momento esatto della morte – punto cruciale della ricerca condotta sin qui – ci passa davanti senza farsi notare. Nella bulimia di immagini prodotto dalla cultura del controllo anche l’istante culminante di una vita può essere imprendibile. Da questo punto di vista il film di Costanza Quatriglio riassume e rilancia i termini della questione che abbiamo qui tratteggiato e ci dimostra che il vedere tutto non necessariamente si accompagna a un sapere/ comprendere tutto, come se l’eccesso di visione non potesse che nascondere i germi della cecità.

(16) Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della

prigione, Einaudi, Torino 2014. Si veda anche David Lyon, La società sorvegliata. Tecnologie di controllo della vita quotidiana, Feltrinelli, Milano 2002.

(17) Il tema dell’immagine come evidence è oggi al centro di un vasto dibattito teorico. Su questo tema: Diane Du- four (a cura di), Images of Conviction. The Construction of

Visual Evidence, Xavier Barral, Parigi 2015.

L’ultimo istante

87 ore. Gli ultimi giorni di Francesco Mastrogiovanni

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Quando l'occhio trema

The Housemaid