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lo strano colore dell’irrappresen tabile orrore delle lacrime del

tuo corpo

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uesto cinema è un cinema – ormai ce ne siamo resi conto – che ha anche a che fare con il concetto di visibile: Mario Trevi, nei suoi studi sull’ombra, prova a relazionare il visibile e l’invisibile dicendo che «il visibile è di fronte a noi ma l’invisibile è anch’esso a portata di mano. La sola differenza sta nel fatto che l’invisibile non è “di fronte” a noi, non appartiene alla visione “frontale”» (12). Ma ciò che vediamo – ciò che quindi appartiene alla nostra visione “frontale” – potrebbe anche divenire invisibile in quanto molto vicino a qualcosa di irrappresentabile, qualcosa che in qualche modo sovrabbondi formalmente di materiale visivo tanto da rispec- chiare un vuoto. L’étrange couleur des larmes de ton corps (2013) di Hélène Cattet e Bruno Forzani è quindi il film adatto per poter organizzare una specie di conclusione a quanto detto fino a que- sto punto sulla ricerca di un abisso e dell’immer- sione nel vuoto tipici di tanto horror occidentale contemporaneo. È perfetto perché agisce con intenti simili, ma attraverso modalità differenti rispetto ai film che abbiamo precedentemente analizzato ed è quindi in qualche modo un punto d’arrivo; se quelli cercavano di perdersi e far perdere attraverso espedienti sì estetici, ma che poggiassero sempre su una narrazione quan- tomeno inizialmente lineare e che usassero, in molti casi, una quantità limitata di inquadrature,

giocando su regole di sottrazione più che di ac- cumulo, con L’étrange couleur des larmes de ton corps ci troviamo di fronte a un’opera che scom- bussola questo modus operandi e che allo stesso tempo definisce forse un nuovo modo di mettere in scena l’orrore: la vicenda narrata è infatti so- lamente un pretesto per sondare le potenzialità dell’immagine orrorifica, per vivisezionarla alla ricerca dei suoi punti più oscuri e incomprensibili, accumulando e sovrapponendo le strutture della forma del suo visibile. La storia di un marito che, una volta tornato da un viaggio d’affari, indaga sulla scomparsa della moglie, si destruttura, si ricostruisce e cambia direzione più volte sotto ai nostri occhi, senza che quasi ce ne rendiamo conto. La cosa che più colpisce è come Cattet e Forzani montino l’intero film con una procedura che riesce a (letteralmente) squarciare i perso- naggi, lo spazio e il tempo nel quale questi si collocano. C’è chi ha parlato di neo giallo (13), ma qui non importa chi (o cosa) abbia ucciso chi: qui ciò che importa più di tutto è che l’orrore che viene evocato è un orrore che porta a chiederci se quello che vediamo sia veramente accaduto. E non è questione di attribuire il tutto al frutto dell’immaginazione di uno dei personaggi, ma qualcosa di più: è una lotta continua tra ciò che viene rappresentato e il suo referente reale. Wunenburger, quando parla del rapporto tra l’immagine e l’irrappresentabile, scrive: «L’im- magine, non essendo in nessun modo cattura e coglimento dell’essere, non può che vacillare in perpetuo, sottrarsi, nella veste di puro fenomeno […] far posto, incessantemente, a un’altra imma- gine, in un flusso senza fine e senza che si possa stabilire mai un punto di contatto tra l’apparire e l’essere» (14). (12) Mario Trevi, Augusto Romano, Studi sull’ombra, Marsilio, Venezia 1986, pag. 151. (13) Cfr. Douglas Keesey, Twenty

First Century Hor- ror Films, Kamera

Books, Harpenden 2017, pagg. 177-181. (14) Jean-Jacques Wunenburger, Filo-

sofia delle imma- gini, Einaudi, Torino

1999, pag. 250.

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ensiamo che il discorso sull’orrore portato avanti da L’étrange couleur des larmes de ton corps, possa collocarsi nell’idea suscitata da queste parole e quindi in una riflessione su ciò che l’apparenza delle immagini non riesce a dirci; il fatto che l’assassino sia uno e molti, il fatto che il trauma che dovrebbe stare alla base dell’intera vicenda, oggetto principale di tanti gialli all’italiana (fonte primaria di ispirazione per i due registi), non venga mai risolto e che la morte divenga quasi una questione legata alla più pura estetica della ripetizione, ci assicurano che l’immagine sia il vuoto attorno al quale si crea il (non) senso del film. Uno scontro, appun- to, tra ciò che (non) è e ciò che (non) appare. E allora «l’immagine diviene ripetizione senza fine di se stessa, mancando in se stessa di sostan- za e consistenza. Privata dell’essere, può solo proporsi come movimento incessante […] svuo- tandosi, riducendosi a forma informe e sempre sfuggente» (15).

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gni volta che rivediamo questo film di Cat- tet e Forzani, sembra di avere davanti agli occhi un film nuovo e sempre si ha la sensazione che un particolare che non eravamo riusciti a notare emerga da quella intricata matassa di immagini che vengono sparpagliate, separate, straziate da un montaggio che è «niente più che il movimento attraverso il quale ci si sottrae a tutte le immagini per instaurare in se stessi

un vuoto, un abisso, fulcro di ogni espressione, scrittura o rappresentazione» (16). Sì, L’étrange couleur des larmes de ton corps è perfetto per concludere questo breve percorso perché ci dice molto riguardo al più importante tentativo che l’horror occidentale sta attualmente facendo; quello di creare uno spazio all’interno del quale si tenda ad assottigliare lo spessore tra forma e contenuto, riprovando da lì a ricostruire ciò che precedentemente era andato perduto: un cine- ma le cui paure erano così chiare e lampanti da poter mostrare, fuori da sé, di che cosa parlasse la realtà dalla quale quelle stesse erano attin- te. Angosce e terrori che, evidentemente, non sono – anche se effettivamente presenti – più così esplicitamente identificabili e che fanno del mondo un grande abisso dal quale ogni orrore non vuol più farsi facilmente osservare né rap- presentare.

Ai margini del buio — Premio Adelio Ferrero 2017

(15) Ibid.

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e c’è un merito che il vento di crisi di questo inizio millennio possa attribuirsi, è l’aver ispirato un genere seriale abilis- simo nel ritrarne lo spirito del tempo, interamente (o quasi) al femminile e per lo più votato all’ibridismo del dramedy, perfetto quindi per glassare di comicità lo smarrimento esistenziale e materiale di una generazione angosciata dal precariato. Il piccolo schermo ha così iniziato a punteggiarsi di (anti)eroine sfacciatamente audaci, autrici e interpreti di narrazioni semi- autobiografiche esploranti il difficile percorso di definizione del sé. Esibendone tutte le contraddizioni, sia chiaro. Perché il limbo tra i venti e i trent’anni in cui si trovano “incastrate” ha come costanti una progettualità confusa, una visione surreale della realtà e una solidarietà egoistica che ne affligge ogni possibile relazione. D’altronde, siano essi amiche o compagni di letto, il rapporto con gli altri è il filtro narrativo privilegiato, purché spogliato da ogni possibile inibizione.

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o ha insegnato Lena Dunham con la pioniera Girls e sembra averlo ben interiorizzato anche l’attrice e commediografa inglese Phoebe Waller-Bridge, che da qui ha colto lo slancio per trascinare il genere verso una maggiore profondità, plasmando un personaggio dal raro spessore psicologico. Il suo sopranno- me presta il titolo alla miniserie Fleabag (letteralmente “sacco di pulci”) ed è un eloquente invito a non fermarsi alle appa- renze. Una volta scovata tra gli scaffali virtuali della videoteca amazoniana (dove è approdata dopo un esordio sorridente su BBC), non si tarda infatti a cogliere quanto il racconto semplice dei soli sei episodi si riveli tutt’altro che banale, poiché creato per dare risalto alla complessità di una protagonista dalle sfac- cettature spesso poco gradevoli.

Il ritratto causticamente