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Immergersi nell’abisso

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l discorso si fa ancora più complesso con quei film che riflettono su quello stesso abisso che provano a mettere in scena. Sono opere che rappresentano perfettamente la spaventosa consistenza del vuoto che si affaccia nei loro racconti, che li risucchia e che li spinge in una specie di mise en abyme. È un vuoto che spesso si produce all’interno di un personaggio e si riversa rapidamente all’esterno, ma è sempre e comunque una voragine che non dà mai la chia- ra impressione di mostrare il punto preciso dalla quale è emersa. Pensiamo a un film come Ber- berian Sound Studio (2012) di Peter Strickland: è la storia di Gilderoy, un tecnico del suono che negli anni Settanta si trova a dover sonorizzare un misterioso horror italiano che pian piano diventerà per lui sempre più tangibile, renden- dogli impossibile poter distinguere la finzione dalla realtà. L’orrore è avvertibile ma mai facil- mente riconoscibile, un gioco che ha a che fare con la natura ingannevole delle immagini, con la prospettiva secondo la quale le si osserva e con i vuoti semiotici che in questo specifico caso esse riescono a creare tra loro e noi spettatori. In Berberian Sound Studio è come se, in qualche modo, si sparpagliassero continuamente indizi senza la pretesa però di voler far risolvere il caso. Il metafilmico allora si configura come uno spazio all’interno del quale creare un flusso continuo a cui è impossibile resistere: le voci e gli effetti sonori diventano qualcosa di pertur- bante, creano un film immaginario che ognuno può sognare e desiderare diversamente a se- conda della propria predisposizione, e quando Gilderoy si trova egli stesso a essere doppiato da una voce che a quel punto non sappiamo più da dove provenga, il cortocircuito è avvenuto e l’abisso è di fronte ai nostri occhi (e udibile dalle nostre orecchie). Perché il Berberian è uno stu- dio di registrazione all’interno del quale le cose accadono e la realtà non è quella che pensiamo sia.

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a la situazione più interessante, per quan- to riguarda questa tecnica dell’orrore che punta a creare un forte senso di disorientamen- to, è quella del superamento di una soglia, oltre la quale si entra in un mondo in cui le regole dell’incubo sono le sole a essere valide. I due film che subito vengono in mente sono Oltre il guado (2013) di Lorenzo Bianchini e Baskin: La porta dell’inferno (Baskin, 2015) di Can Evrenol. Il primo è la storia di Marco Contrada, un etolo-

(9) Fabrizio Tassi, http://www.cineforum.it/recensione/ The_Neon_Demon_di_Nicolas_W_Refn, consultato il 21/08/2017.

(10) Alessio Galbiati, http://www.rapportoconfidenziale. org/?p=36583, consultato il 21/08/2017.

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go che, studiando i comportamenti di una volpe attraverso una videocamera posizionata sulla sua testa, si perde in un piccolo paesino com- pletamente abbandonato al confine tra Italia e Slovenia. La soglia che lo conduce in un altro mondo è quella che inconsapevolmente supera una volta attraversato il guado di un fiume; al di là di questa linea sembra che ogni particella di realtà tenda a smaterializzarsi: attraverso uno stile di messa in scena minimalista che prova a rincorrere la sottrazione e l’assenza, Bianchini codifica un territorio fatto di tenebre concrete, che però ognuno di noi può immaginare in ma- niera differente. In questo specifico caso sono poi i fantasmi della Storia a creare un luogo che sa di spazio entro il quale la vendetta di chi ha sofferto deve attuarsi, ma è comunque sia sem- pre un elemento oscuro, non chiaramente deli- neato, che risucchia il protagonista in un orrore che egli riesce a vedere e intuire, ma che non è completamente capace di comprendere.

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el film di Evrenol, invece, seguiamo gli spo- stamenti di una squadra di poliziotti turchi che, ricevendo una chiamata d’emergenza da parte di alcuni colleghi, si dirige nella cittadina di Inceagac per prestare soccorso, finendo in una spirale di terrore che la condurrà direttamente all’inferno. Baskin è per certi versi un film politi- co, che frammenta una storia personale (quella del poliziotto Arda) miscelandola a una metafo- ra sulla violenza del potere che reprime, ma ciò

che più emerge (e che più ci interessa) è in verità la sua forma circolare. Il film si costruisce attra- verso una serie di sogni e visioni che confluiscono nel flusso narrativo principale, illudendoci che le continue interferenze dovute a questi ultimi siano qualcosa di intimo, legate cioè semplicemente alla dimensione soggettiva del vissuto di Arda. Contrariamente a questa direzione è il finale a fugare ogni dubbio: l’allucinazione, la visione, l’inganno è collettivo, in quanto una vera e pro- pria messa in abisso si effettua raccordando la scena conclusiva a quella nella quale i poliziotti finiscono con il proprio furgone fuori strada. Capiamo quindi che la soglia viene oltrepassata in quel preciso momento e l’immersione non è solamente quella nelle acque del fiume nel qua- le sono sventuratamente piombati. Sfruttando questo espediente, Evranol si può permettere di costruire un infernale luogo dentro al luogo, attraverso cui la ripetizione diventa essa stessa simile a quella di un inferno nel quale si può pre- cipitare ma dal quale non si può uscire: l’orrore è abissale e profondo perché ingiustificato, ripeti- tivo e quindi infinito. E come sosteneva Deleuze, «quando la rappresentazione trova in sé l’infinito, appare come rappresentazione orgìaca e non più organica: scopre in sé il tumulto, l’inquietu- dine, e la passione sotto

la calma apparente o i limiti dell’organizzato, ritrova il mostro» (11).

Ai margini del buio — Premio Adelio Ferrero 2017

(11) Gilles Deleuze, Claire Parnet, Conver-

sazioni, Ombre Corte,

Verona 1998, pag. 61.

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