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4. CAPITOLO IV: Latitanza diplomatica e inerzia burocratica

4.2. Dopo l’Unità

Raggiunta l’Unità il problema che interessò la diplomazia italiana fu quello di trovare una classe politica che allo stesso tempo potesse agire in questo campo e avere dei valori omogenei.

Si può notare come l’Italia, nel panorama diplomatico dell’Ottocento, cercasse di crearsi uno spazio. Questo era reso assai difficile vista la sua giovane età e dalla poca fiducia che gli altri paesi riponevano in essa, ma anche per la poca stabilità politica del Ministero degli Esteri: dal 1861 al 1869 si susseguirono ben dieci ministri diversi, fino alla nomina di Visconti Venosta, il quale rimase in carica per sei anni.382

Dopo la morte di Cavour, nel 1861 prese le redini del Ministero del neonato Regno Bettino Ricasoli, il quale diede un’imposizione puramente commerciale alla politica estera italiana, volendo ricalcare le orme dei successi mercantili della Repubblica Marinara di Genova. Vista la linea dettata dal Ministero, il compito dei consoli o degli ambasciatori all’estero divenne in un primo momento quello di promuovere l’economia italiana, senza però curarsi molto dei propri cittadini in terra straniera.383

Come visto nello scorso capitolo, l’emigrazione nel periodo immediatamente post- unitario aveva ancora dimensioni modeste e non era di per sé né condannata né promossa.

Tuttavia, lo sviluppo del commercio internazionale, oltre a procedere a passi lenti, non bastava a portare l’Italia sullo stesso piano rispetto agli altri paesi europei. Avendo

380 Sanfilippo M., L’emigrazione italiana nelle Americhe in eta` pre-unitaria, 1815-1860, “Annali della

Fondazione Einaudi”, 2008, pp. 65-79, p. 72.

381 Sacchi D., Per una storia della rete consolare del Regno di Sardegna in America Latina, in L’Italia

e le Americhe 1815-1860, Carmagnani M., Mariano M., Sacchi D. (a cura di), Firenze, Leo S. Olschki,

MMIX, p. 16.

382 Cavour, Ricasoli, Rattazzi, Durando, Pasolini, Visconti Venosta, La Marmora, Pescetto, Di

Campello, Menabrea.

383 Incisa di Camerana L., Il grande esodo: storia delle migrazioni italiane nel mondo, Milano,

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quindi paura di rimanere esclusa, la tattica usata dal Regno d’Italia per elevarsi ad un rango diplomatico paritario rispetto alle altre potenze era quello di inserirsi in più questioni internazionali possibili, anche quelle che non lo interessavano direttamente.

Fu questo il caso, per esempio, della sua intromissione nelle faccende della guerra civile in Messico, dove gli altri paesi europei ne tollerarono la presenza, pur impedendogli di partecipare ai negoziati.384 L’intromissione italiana fu giudicata

talmente inopportuna che il Ministro degli Esteri francesi non mancò di far notare agli italiani come si stessero interessando di una regione nella quale non avevano neppure rappresentanza diplomatica, deviando quindi le attenzioni che avrebbero dovuto prestare al Cono del Sud, dove l’Italia aveva ben più interessi e dove comunque, mancando la propria rappresentanza, veniva coperta dai diplomatici francesi.385

Se da un lato, la partecipazione italiana alle vicende messicane fu nulla, l’Italia percepì questo avvenimento come l’occasione per dimostrare il suo interessamento al contesto latinoamericano e contemporaneamente per ribadire il suo distaccamento dalla Dottrina Monroe, alla quale non si sentiva vincolata in quanto essa non era un trattato pubblico.386

La superficialità dell’intervento italiano però ci dimostra l’ignoranza della diplomazia italiana nei confronti dell’America Latina, che era cosa ben nota anche tra le aule del parlamento come chiaramente appare dalle parole di Bovio in un suo intervento:

I nostri diplomatici, mandano a noi cifre immaginarie, si mostrano poco avvisati della patria e de’ tempi; e, lasciatemi libera la parola, da pochi buoni infuori, gli altri non sono pari alle cresciute esigenze internazionali, specialmente nelle Americhe, dove maggiori interessi ha da tutelare l’Italia. Chiaramente nelle Americhe noi non possiamo tener su rappresentanze di etichetta che molto costano e non danno compenso: colà dove più vigoreggiano i segni della nuova Italia noi abbiamo bisogno di rappresentanti che sappiano intendere la patria nella sua naturale espansione;387

384 Incisa di Camerana L., L’Argentina, l’Italia e gli italiani, Roma, ISPI, 1998, p.167.

385 Atti Del Parlamento Italiano - Discussioni della Camera dei Deputati, XV Legislatura - Sessione

1882 - 1886 (06/02/1886 - 16/03/1886), Volume (XVI) I Sessione dal 06/02/1886 al 16/03/1886 Roma, Tipografia CAMERA DEI DEPUTATI 1886, pp. 16947-16978, p.16961.

386 Incisa di Camerana L., L’Argentina, l’Italia e gli italiani, Roma, ISPI, 1998, p.169.

387 Bovio G., Discorsi parlamentari, op.cit. in Filipuzzi A., Il dibattito sull’emigrazione: polemiche

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Il pensiero di Bovio era condiviso da molti: lì dove l’emigrazione poteva essere più redditizia per l’Italia il Ministero degli Esteri aveva inviato dei funzionari poco esperti che quindi risultavano inutili nel loro compito di tutelare i cittadini italiani, rendendo le rappresentanze diplomatiche delle “superfetazioni internazionali.”388

L’appena nato Regno era troppo impegnato in questioni interne o nel trovare un proprio spazio tra le potenze europee e così i primi Ministri degli Esteri non sentirono nemmeno l’urgenza di conoscere meglio una regione così lontana, tanto da lasciare in carica coloro che erano stati i funzionari del Regno delle due Sicilie a Buenos Aires e Rio de Janeiro, Barbolani e De la Ville, così da non dover perder tempo a trovare qualche diplomatico piemontese disposto ad andare Oltreoceano.389 Così “l’Italia nuova non ebbe una nuova diplomazia.”390

Una delle poche raccomandazioni che arrivò dal Ministero degli Esteri fu che il corpo diplomatico usasse toni concilianti e pacifici con i paesi dell’America Latina, ma che in caso di necessità riuscisse ad usare toni più forti così da non dover ricorrere alla forza.391 Per il resto la scarsa rappresentanza che l’Italia aveva Oltreoceano era libera di agire secondo propria iniziativa.

Questo fu il caso del Console italiano a Montevideo Raffaele Ulisse Barbolani il quale, visto l’ampio raggio d’azione lasciatogli dalle poche direttive dettate dal Regno, decise di concentrare le sue attenzioni secondo la sua preferenza e quindi sull’Uruguay.392 L’impegno di Barbolani fu talmente profondo che arrivò a proporre

che l’Italia stabilisse un protettorato di fatto sul paese del Plata, idea verso la quale erano più riluttanti gli italiani che non gli uruguayani, occupati tra una guerra civile e l’altra. Questi ultimi erano propensi ad avere l’appoggio italiano, tanto che presentarono al diplomatico abruzzese una nota con la quale intendevano stipulare

388 Bovio G., Discorsi parlamentari, op.cit. in Filipuzzi A., Il dibattito sull’emigrazione: polemiche

nazionali e stampa veneta (1861-1914), Firenze, Le Monier, 1976, p.333.

389 Incisa di Camerana L., L’Argentina, l’Italia e gli italiani, Roma, ISPI, 1998, p.179.

390 Bovio G., Discorsi parlamentari, op.cit. in Filipuzzi A., Il dibattito sull’emigrazione: polemiche

nazionali e stampa veneta (1861-1914), Firenze, Le Monier, 1976, p.332.

391 Cervo A.L., Le relazioni diplomatiche fra Italia e Brasile dal 1861 ad oggi, Torino, Edizioni della

Fondazione Giovanni Agnelli, 1991, p.32.

392 Bisogna ricordare che allora (1863) l’Argentina faceva riferimento all’incaricato d’affari

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un’alleanza difensiva e offensiva. Tale offerta però venne rifiutata da Visconti Venosta, il quale rimproverò Barbolani per le libertà che si era preso e ricordandogli che l’Italia aveva problemi ben più impellenti a cui rispondere.393

Dopo il trasferimento di Barbolani è bene notare come la sede di Montevideo rimase vacanti per alcuni anni e comunque non ebbe un funzionario fisso fino all’inizio del ventesimo secolo,394 situazione coerente con la linea seguita da Torino di limitare al

minimo l’invio Oltreoceano di funzionari diplomatici.

Questa sopracitata è una dimostrazione di come la visione della classe politica italiana fosse ancora strettamente eurocentrica. Ciò portava la maggioranza dei rappresentanti diplomatici a conservare un atteggiamento di indifferenza anche nei confronti del fenomeno migratorio, il quale non era ritenuto un tema politico rilevante se non quando i cittadini italiani all’estero porgevano reclami riguardanti questioni che avrebbero potuto ledere l’immagine del Regno; in questo caso bisognava difendere il prestigio internazionale italiano.395

Ancora riferendosi a Incisa di Camerana, che ha potuto studiare la sfera diplomatica dal suo interno, questo ha notato come ambasciatori e Ministri degli Esteri si sentissero a loro agio solo quando parlavano con i propri colleghi in francese e di argomenti che riguardassero gli equilibri di potere del continente europeo.396 Non erano certamente attratti da un fenomeno che di sofisticato o elevato aveva ben poco come quello della tutela di milioni di contadini che avevano abbandonato l’Italia e la cui difesa dai soprusi inflittogli da altre nazioni poteva, anche quando portata avanti con successo, dargli ben poco prestigio.397 L’emigrazione era quindi vista dal personale diplomatico solo come un fastidio.

393 Barbolani a Visconti Venosta, Ministro degli Esteri, 7 luglio 1863 (Copia lettere delegazione

argentina) op. cit. in Incisa di Camerana L., L’Argentina, l’Italia e gli italiani, Roma, ISPI, 1998, p.171.

394 Ibidem.

395 Monzali L., Riflessioni sulla cultura della diplomazia italiana in epoca liberale e fascista, in (a cura

di) Petracchi G., Volpi G., Uomini e nazioni: cultura e politica estera nell’Italia del Novecento, Udine, Gaspari, 2002, p.28.

396 “Non vergogni un diplomatico italiano di parlare talvolta la sua (lingua), di farne avvertire la

bellezza, d’imporla”. Bovio G., Discorsi parlamentari, op.cit. in Filipuzzi A., Il dibattito

sull’emigrazione: polemiche nazionali e stampa veneta (1861-1914), Firenze, Le Monier, 1976, p.334.

397 Incisa di Camerana L., Il grande esodo: storia delle migrazioni italiane nel mondo

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