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Doppia Esposizione Il Rinascimento re-immaginato e la crisi della storia dell’arte

Abstract

Il Rinascimento non è mai stato tanto popolare e la crisi della storia dell’arte del Rinascimento mai tanto profonda. Le esposizioni attirano folle di visitatori, ma la fine della “grande narrazione” ha ridotto il Rinascimento a categoria antiquaria e i recenti approcci metodologici ne hanno demolito il ruolo di canone fondativo. La mostra Botticelli Reimagined [Londra, V&A, 5 marzo-3 luglio 2016] ha esposto queste contraddizioni e ne ha esplorato le ragioni e le possibilità a partire dalle conseguenze che il discorso sul Rinascimento ha prodotto nella cultura e nell’arte del presente e del recente passato. Un’occasione produttiva per ri-vedere l’arte antica e fare ancora storia dell’arte?

In the wider world the art of the Italian Renaissance has never been more popular or present, but within academia, the centrality of Italian Renaissance art for an increasingly globalised art history is no longer a given. The increased popular enthusiasm for Renaissance Italy coincides with an apparent decline in scholarship: these tensions were openly aired in Botticelli Reimagined at the V&A [5 March - 3 July 2016], a daring and challenging exhibition whose task was to foreground issues of reception, appropriation, decontextualisation, and authenticity in order to join up our ever richer understanding of a distant historical period with this broader appetite. Maybe, it re-energised the monographic exhibition format, but did it offer fresh strategies for the present and the future of art history as well?

Appropriazione

«Exposition is always also an argument» (Bal 1996, p. 2): come momento

performativo della produzione di significato, esporre è l’evento centrale di un discorso constatativo, affermativo e informativo, che riguarda il soggetto (il curatore, lo storico dell’arte, che esibisce le proprie idee e convinzioni) – e l’oggetto, che, esposto, recede a segno e «comes to mean» (Bal 1996, p. 4). In mostra, l’oggetto è “leggibile” secondo una doppia narrazione, che coinvolge il soggetto, il cui enunciato è legato a un particolare valore d’uso, e la visibilità dell’oggetto, che legittima ciò che si vede come

reale, vero o verosimile, sebbene qualunque visitatore sappia se non altro intuire che si tratta di una rappresentazione.

Botticelli Reimagined, al V&A di Londra nella primavera del 2016 a cura di Mark

Evans e Stefan Weppelmann con la Gemäldegalerie di Berlino, ha esposto la

discrepanza tra oggetto ed enunciato, esplorandone le possibilità produttive a partire dal discorso più celebrato dal pubblico e più problematico per la storia dell’arte, quello sul Rinascimento.

Il Rinascimento non è mai stato così popolare e la crisi della storia dell’arte del Rinascimento mai così profonda, almeno nel mondo anglosassone. Su entrambe le sponde dell’Atlantico, le esposizioni sul tema attirano folle di visitatori e gli oggetti, esposti alle mostre o nei musei e moltiplicati nelle strategie della comunicazione, inventano il passato collettivo o personale dell’osservatore come “familiare”, mentre la storia dell’arte del Rinascimento, cui sarebbe affidato il programma critico di ristabilire i piani di questa falsa familiarità (Baxandall 2000, pp. 168-69) lamenta di vivere in «a kind of fourth rate status» (Nova 2008, p. 496).

A dispetto della riduzione negli studi, nella sfera pubblica il Rinascimento persiste come capitale culturale, risultato di un processo avviato nel XVI secolo dall’investimento intellettuale ed economico di artisti, connoisseur e collezionisti, scandito dalla creazione, raccolta e celebrazione, in breve dal consumo, di oggetti. Nel secolo XIX i medesimi oggetti, di nuovo sul mercato, hanno contribuito al prestigio dei collezionisti e alla fortuna dei loro consulenti, e dal XX secolo, esposti nei musei, alle mostre, al cinema e in televisione, garantiscono al pubblico un’esperienza di edificazione (e identificazione) culturale. Sottratti al mercato ma non al desiderio, questi oggetti sono insolitamente accessibili: la moltiplicazione della loro immagine li ha inscritti nell’historical kitsch e li ha trasformati in oggetti “domestici”, oltre qualunque ricostruzione filologica del significato originario. Ammirati, pubblicizzati, copiati e inventati, essi posseggono un ostinato potere immaginifico, perché ri-creano l’immagine che abbiamo del Rinascimento (e di noi stessi) come il più ovvio dei cliché e il più straordinario dei fenomeni culturali (Findlen 1998, pp. 84-85).

È questo il tema esibito dai curatori di Botticelli Reimagined, il cui catalogo si apre con la celebre meditazione sulla storia e la tradizione di T. S. Eliot secondo cui il passato è modificato dal presente altrettanto quanto il presente dal passato

(Debenedetti et al. 2016, p. 10). Svolta secondo una sequenza cronologica invertita,

dal XXI al XV secolo, la mostra ha esposto il rovesciamento delle dinamiche e dei

moventi dell’imitazione operato dall’appropriazione come relazione produttiva e

«engaged criticism», che fissa le istanze di una teoria della storia culturale (Bal 1999, p. 5) in cui l’«historical other» opera come postumo di ciò che viene dopo, con effetti

vitali per il presente e per il passato (Bal 1999, p. 29). I curatori hanno articolato una

preposterous history, ironica e audace, secondo cui il Rinascimento è past-today e i

dipinti di Botticelli sono aftereffect del cinema, della moda, della visione degli artisti. E dei modi possibili per introdurre un’esposizione sul Rinascimento, hanno scelto quello più inaspettato: in un buio fitto, invece di Botticelli il visitatore ha visto prima Uma Thurman nella conchiglia da The Adventures of Baron of Munchausen di Terry Gillian [1988], poi Ursula Andress come Honey Ryder in Dr. No [1962]; il cerchione Botticelli di OZ; i Venus Dress della collezione “gypsy” di Dolce & Gabbana [1993]; e infine la copertina ideata da Jeff Koons per Artpop, il terzo album di Lady Gaga, che nel 2013 lo aveva promosso indossando un abito “Venere” degli stilisti italiani, allora già vintage.

«In the room the women come and go/Talking of Michelangelo» (Eliot 1917, p. 10): non è lecito immaginare che anche l’impronta dei loro passi e della voce abbia trasformato l’immagine del Rinascimento?

Se l’avvio era sconcertante, il percorso della mostra era disordinato come un palinsesto composto da troppe correzioni, marginalia e omissioni, non sempre convincente, ma stimolante quanto un viaggio nella foresta delle pratiche dell’arte e della storia dell’arte, che le correnti interne ed esterne alla disciplina degli ultimi decenni hanno modellato in una bizzarra morfologia (Preziosi 1989).

Oggi, per gli studiosi che non ne abbiano fatto lo specifico campo di ricerca, scrive James Elkins, il Rinascimento è un fiume che ha riempito le correnti del Barocco e i rigagnoli dell’Illuminismo; che è quasi scomparso nel Romanticismo e nel XIX secolo, quando i revival hanno interrotto la continuità della narrazione storica; e che nel XX secolo si è interrato «leaving what appears to be an entirely new landscape» (Helkins 2008, p. 40). Mentre gli specialisti lavorano ai cataloghi di artisti, scuole e collezioni, pubblicano edizioni critiche delle fonti, ricostruiscono il patrimonio locale e allargano il campo degli studi con interventi rilevanti1, il Rinascimento è scomparso dalle ricerche e dall’immaginario della maggior parte degli studiosi che lavorano sul modernismo e il postmodernismo. Così, la storia dell’arte è «Janus-faced», con una faccia che guarda al presente da un punto di vista sulla linea del tempo della cultura occidentale tra la Rivoluzione francese e Manet, o nel Novecento, e non deve occuparsi del Rinascimento; l’altra, che guarda «only back, as if there were no present» ( Helkins 2008, pp. 40-42).

Per Rebecca Zorach, la contraddizione si spiega con la crisi della storia dell’arte: il discorso sul Rinascimento ne ha fondato le istituzioni in Europa e negli Stati Uniti, ed

1 Non c’è dubbio che questi studi, in particolare italiani, «more object oriented» e indirizzati dall’obbligo di difendere un patrimonio materiale costantemente a rischio, devono offrire ancora un contributo essenziale al dibattito sulla storia (e la teoria) dell’arte del Rinascimento in Europa e negli Stati Uniti, non solo in termini di costruzione della memoria culturale (Nova 2003 e 2008, pp. 490-93).

è stato il luogo in cui con maggiore intensità si è verificato l’assorbimento della tradizione di studi che la critica degli anni Sessanta e Settanta ha investito con forza. Allo stesso tempo, però, si è dimostrato il campo di maggiore resistenza, in termini di modelli, ideali, valori e significato, all’azione di svelamento dei conflitti nelle costruzioni storiografiche ereditate dal passato da parte delle nuove strategie interpretative che, nel mondo anglosassone e in particolare negli Stati Uniti, da quella critica hanno ricavato gli strumenti e gli apparati teorici. Nell’età della «high theory» (Zorach 2008, p. 4), la storia dell’arte del Rinascimento è diventata la storia del “problema” del Rinascimento: la «teleological glory» con cui il concetto si è affermato nella storia dell’arte da Burckhardt a Berenson, Warburg, Panofsky e Gombrich, non è del tutto scomparsa dagli studi, ma è stata appannata dal cedimento della fiducia in «master narratives and privileged viewpoints» (Dunlop 1998, p. 441).

Il Rinascimento come “problema”

Riconfigurato nei suoi limiti cronologici e geografici, contestato nella legittimità della sua stessa esistenza, il Rinascimento è stato riscritto con caratteri più problematici di quelli con cui era stato “scoperto” nel XIX secolo. I nuovi indirizzi che hanno istituito la storia dell’arte come teoria non hanno quasi mai negato al Rinascimento lo statuto di momento di cambiamento nella civiltà occidentale, né all’arte italiana il valore propulsivo in questo processo, ma, discutendo la presunta neutralità della pratica storico-artistica, ne hanno messo in dubbio la natura: che cosa è davvero cambiato nel Rinascimento? Si tratta dell’affermazione di una rivelazione o di un’ideologia? Di una conquista o di un’imposizione? Della scoperta dell’Antico e della natura o piuttosto dell’origine dell’imperialismo colonialista? L’immagine del Rinascimento è iscritta nel mondo di nomi con cui la filologia attributiva, da Giovanni Morelli a Bernard Berenson, ha riempito il concetto elaborato da Michelet e Burckhardt attraverso la comparazione di somiglianze e differenze morfologiche. Questa procedura eziologica riconduce gli oggetti d’arte al loro punto d’origine nel tempo e nello spazio – una scuola, una bottega, una singola personalità artistica – secondo il principio occidentale d’identità come espressione dei caratteri unici e individuali, riconoscibili nella figura (maschile?) dello stile personale (Elsner 2003, p. 98). Espansa metaforicamente, come se tempi e luoghi avessero marchiato uomini e oggetti con modalità tanto distinte da poter essere riconosciute e imitate, tale figura ha partecipato alla fabbricazione del discorso sulle identità nazionali e dei suoi conflitti (Summers 2009, p. 144). Così com’è stato inventato nel XIX secolo, ha scritto nel 1950 Lucien Febvre, il Rinascimento ha determinato il nostro modo di concepire il Medioevo, e, per contrapposizione, l’ha affrontato e distrutto (Meyer 2014, p. 210): ma, come momento

storico fondante dell’identità occidentale, non ha forse determinato il nostro rapporto con le differenze e con l’Altro?

Nel mondo anglo-americano, gli studi sul Rinascimento sono stati influenzati dalla visione della tradizione europea importata negli anni Trenta e Quaranta dagli

émigré tedeschi, che, tradotta negli anni Cinquanta e Sessanta nella nozione di

“umanesimo civile”, ha definito il Rinascimento come analogo nel passato delle democrazie occidentali che, nella Seconda Guerra Mondiale e durante la Guerra Fredda, si sono opposte ai totalitarismi. Il passato storico è un passato pratico, costruito per le ragioni del presente: se per Michelet il Rinascimento prefigurava la Rivoluzione francese e per Burckhardt l’epoca della borghesia liberale, per il Fascismo – come dimostrato dalla grande mostra d’arte italiana a Londra del 1930 – era, come l’antichità, un potente strumento di propaganda. Dopo la guerra e dall’altro lato dell’Atlantico, Erwin Panofsky l’ha restituito alla storia sovranazionale della civiltà occidentale, grazie a «what he understood as its humanistic core» (Emison 2012, p. 17) e cioè la rivendicazione dei valori umani di razionalità, libertà, responsabilità e tolleranza (Panofsky 1962; Lavin 2008; Dantini 2016). Al culto del corpo, al dogma distruttivo della purezza della razza, una nuova generazione di studiosi ha opposto l’immagine dell’«athlete of virtue» (Eisler 1961).

Burckhardt non era stato a disagio con le contraddizioni di un’epoca in cui la costruzione di sé passa per le innovazioni tecnologiche (polvere da sparo compresa) e l’estensione degli scambi economici verso il Nuovo Mondo, la brama di fama e di potere; Panofsky ha riconosciuto nella prospettiva lineare la metafora della fondazione chiara del soggetto e dell’oggetto, ma, a partire dagli anni Settanta il marxismo, lo strutturalismo, la storia sociale, gli studi sull’identità di genere e post-coloniali hanno convertito il Rinascimento da tempo eroico dell’espressione compiuta dell’individuo in un tempo storico autoritario, violento, immorale e superstizioso. E se per William J. Bouwsma (2003), il Rinascimento era solo una coperta utile a ripararsi quando mancava un altro luogo sicuro, per gli autori di Doctor Who, la popolare serie televisiva britannica, era ancora un’ambientazione di sicuro effetto, ma «not a very pleasant time» (Emison 2012, p. 2).

Nel confronto con l’ambivalenza del Rinascimento come canone, gli artisti sembrano occupare una posizione più favorevole degli storici dell’arte, perché possono rischiare, affermare con determinazione e passione, e trarre piacere da ciò che fanno o vedono senza misurare la giusta distanza. D’altra parte, il concetto di stile come categoria che sostiene il discorso critico, è nato (nel Rinascimento) dall’esigenza degli artisti, prima che degli storici dell’arte, di mettere in opera (o in crisi) un canone rispetto al quale costruire deliberatamente la propria personalità (Elsner 2003). «[…F]are ricorso a, adattare, travisare, riferirsi a, cogliere da, accogliere, stabilire un

legame con, reagire a, citare» sono solo alcune voci del «vocabolario molto più ricco, interessante e vario» con cui è possibile pensare la relazione degli artisti e, più in generale, delle pratiche dei media visivi, con il passato ben oltre lo «scandaloso impaccio» della nozione critica di influenza. «Ogni arte è un gioco di posizionamento e, ogni volta che un artista viene influenzato da un altro, riscrive in parte tutta la storia dell’arte in cui opera» (Baxandall 2000, pp. 88-90).

White cube

Il global turn anima uno dei dibattiti più vitali sul futuro della storia dell’arte, dei musei e delle esposizioni: World Art Studies, transnational, translocal, centro-periferia,

métissage, transfert culturale, risemantizzazione, circolazione degli oggetti, sono il

lessico di una «sous-spécialité disciplinaire» che si interroga sulla possibilità di produrre una narrazione emancipata dalle gerarchie del canone, ma anche da quelle istituite dal discorso sulla crisi del canone (Joyeux-Prunel 2017, p. 3). L’idea di storia dell’arte è occidentale e, per sua natura, resiliente anche quando applicata a oggetti e pratiche che non possono esserle assimilate: ciò che accade lontano dai presunti (o immaginari) centri del potere della storia dell’arte potrà mai trasformare radicalmente e dall’interno la disciplina? O forse la storia dell’arte è più produttiva quando traduce in una «“workable truth”» ciò che non comprende? (Spieker 2017, pp. 6-7)

Nel 1925, lo storico dell’arte giapponese Yukio Yashiro pubblicava Sandro

Botticelli and the Florentine Renaissance, contestando il carattere “giapponese” dei

«puri valori di movimento» individuato da Bernard Berenson (1974, p. 106) nella

Nascita di Venere e, più in generale, i richiami di molti studiosi anglosassoni al

carattere “cinese” della pittura senese e di Botticelli stesso: per l’orientalista inglese Laurence Binyon, però, il suo studio portava il segno di una «oriental mind», indifferente ai valori plastici della pittura (Watanabe 2016, p. 112). In ogni caso, da allora Botticelli è entrato stabilmente nell’immaginario visivo del pubblico e degli artisti dell’Estremo Oriente: in mostra, Venus di Yin Xin [2008] aveva capelli neri e occhi «unmistakeably Asian» (cat. n. 8) e Toko Nagao aveva messo in scena un mondo iperpop in cui Easyjet rende omaggio a Venere [2014], in un’apoteosi del turismo o del cannibalismo culturale che, a Firenze, si tiene con l’esperienza profonda dell’arte in un equilibrio complesso mediato dalle riproduzioni (cat. n. 1). In Giappone, d’altra parte,

è possibile preparare il proprio viaggio di nozze in Occidente all’Otsuka Museum di

Naruto, che possiede la più grande raccolta al mondo di riproduzioni di dipinti del Rinascimento, realizzate con un sofisticato procedimento di stampa fotografica su ceramica, un materiale caro alla tradizione locale che per i curatori del museo rende le opere più durevoli di qualunque discorso sull’arte o strategia espositiva.

Nel 1910, per il pittore britannico d’avanguardia Augustus John il viaggio a Firenze era ancora straordinario e faticoso a causa dei troppi capolavori da “digerire” in una volta sola: il suo Portrait of Pyramus, esposto in mostra dopo Bill Viola, ORLAN,

Rauschenberg, Cindy Sherman, Andy Wharol, Magritte, Tamara de Lempicka, Dalì e

Picabia, è ispirato a modelli del Rinascimento. Ma non a quelli conosciuti durante il viaggio in Italia, piuttosto al Ritratto di giovane con il berretto rosso di Botticelli della National Gallery di Londra (cat. n. 39). Se l’immaginario di Botticelli, più ancora dello

stile della sua pittura, infatti, è un’appropriazione del XX e del XXI secolo, il cui

consumo investe le istituzioni della tradizione, della storia e della storia dell’arte –

connoisseurship, formalismo, iconologia, storia sociale e cultura visuale –, la sua

definizione è anglosassone e del XIX secolo. Oggetto di attenzione sistematica di

collezionisti come William Young Ottley, W. T. H. Fox-Strangways e Matthew Smith fin

dal principio dell’Ottocento, entrato nelle raccolte pubbliche grazie alla mediazione di

connoisseur e animatori culturali come Charles Eastlake, Botticelli è stato adorato e

“inventato” dai Preraffaelliti, da Walter Pater e dai Vittoriani dell’aesthetic movement. A loro la mostra ha dedicato, nella seconda sezione, uno spazio di raffinata malinconia (oro e blu pallido come le case-atelier degli artisti di cui si presentavano le opere)

“intensificato” da una registrazione di Printemps di Claude Debussy.

Nell’Inghilterra del XIX secolo, il Rinascimento è la chiave di un discorso sull’arte (e sulla vita) peculiare e democratico, istruito nel valore sociale, politico e culturale dell’esperienza estetica e del piacere visivo, influente per diverse generazioni di artisti e intellettuali, dal Bloomsbury Group, ad Adrian Stokes a Clement Greenberg, e ancora utile per il presente e il futuro della storia dell’arte (Carrier 1997).

Il “vero” Botticelli è apparso in mostra solo nell’ultima sezione, con cinquanta opere – forse la raccolta più ampia in Gran Bretagna dal 1930, quando, alla Royal Academy, Venere e la Primavera furono salutate da folle in visibilio, riprodotte nelle cartoline e commentate in uno dei peggiori cataloghi scientifici mai pubblicati (Haskell 2000). Presentati lungo le pareti di un bianco assoluto, in una luce chiara e quasi naturale, e con i cartellini composti dagli specialisti, i dipinti hanno esibito la propria appartenenza al patrimonio – culturale ed economico – di musei e collezioni.

Nessuna istituzione della storia dell’arte è stata investita con maggiore furia della

connoisseurship dalle tensioni che hanno scosso la disciplina negli ultimi decenni: etichetta per snobismo, avidità e mistificazione a causa dell’iscrizione in pratiche troppo organiche al mercato, la filologia attributiva è sembrata il motore di una «unispired professional routine feeding a busy academic machine», il cui condensato – schede, cataloghi, monografie – è al servizio di un’ideologia dominante che determina l’oggetto di studio (Zerner 1982, p. 278). Istruendo il più frequente «stylistic gesture» della disciplina, ossia il passaggio dall’oggetto all’artista (Elsner, p. 103),

l’attribuzione ha fissato nell’autenticità la categoria dell’arte più costosa del mondo occidentale (Horváth 2016, p. 268). Così, nello spazio “depurato” del white cube, sacralizzante, senza tempo né rumore in cui la «trasposizione modernista dalla vita ai valori formali» denunciata da Brian O’Doherty si consuma davanti ad uno «spettatore disincarnato, privo di genere e di personalità» (Zuliani 2009, pp. 52-53), il Rinascimento infine è esposto nella condizione paradossale di reperto quasi senza vita di un passato inaccessibile e allo stesso tempo di zavorra (o ancora?) del modernismo che gli studi gli attribuiscono, con effetto di più o meno consapevole ironia. Gli oggetti d’arte hanno un potere divino che storici dell’arte tendono a contenere con gli strumenti della propria disciplina, spiegando, descrivendo, catturando questo incantamento con etichette e schemi da loro concepiti. Senza dubbio, vedere è potere, così come la capacità di far vedere (Holly 1996, p. 90): per questo, lo storico dell’arte deve riflettere con consapevolezza sugli strumenti e la «metaphorical geometry» del suo discorso, per definire «what is at stake» (Preziosi 1989, p. 47). Con il rischio, però, di aderire al politicamente corretto tanto da ridurre una disciplina seria ad uno studio serioso, «quasi un lasciapassare da mostrare ai custodi di cimitero che in nome di una mesta scienza esigono che di fronte alla pittura non si rida mai», in barba al serio

ludere, così connaturato alla cultura figurativa del Rinascimento che ne ha prodotto le

istituzioni (Arasse 2013, p. 5).

L’autrice

Antonella Trotta insegna Storia della critica d’arte e Metodologia della storia dell’arte all’Università di Salerno. È autrice di studi sulla connoisseurship, sul collezionismo, i musei e il pubblico dell’arte tra il XIX e il XX secolo, e sulla storia dell’arte come sistema di valori per la costruzione di identità collettive.