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Esposizioni e svolta performativa Per una fruizione creativa

1. Esposizione e messa in scena

Se è nello spazio espositivo, e nelle concrete modalità attraverso cui esso viene allestito, che il soggetto di esperienza e l’oggetto di esperienza entrano in relazione, estremamente difficile risulta separare il “chi” e il “cosa” dal “come” l’esperienza è preparata e concretamente avviene.

Ed è qui che l’estetica del performativo può venirci in aiuto, in particolare attraverso il concetto di “messa in scena”: le esposizioni mettono in scena l’opera, la presentano, cioè permettono che il fruitore ne percepisca la presenza fenomenica, che non è soltanto il suo essere qui ed ora davanti a me, ma è il suo essere qui ed ora davanti a me nella sua densità e nella sua ricchezza di senso, nella sua stratificazione di significati, la quale può essere di volta in volta mostrata ed esperita. Una presenza “provocatoria” che può essere percepita come inquietante e destabilizzante, perturbante e spaesante, in una parola unheimlich.

La domanda che dovremmo porci è la seguente: in che modo l’esperienza fruitiva può essere sottratta alla percezione distratta, che dell’opera rischia di cogliere soltanto alcuni, pochissimi, aspetti, riducendone la portata semantica ad alcuni, pochissimi

significati? Come è possibile mettere il fruitore nelle condizioni di aprirsi alla presenza dell’opera, modificando il suo rapporto esperienziale all’opera e in definitiva al mondo?

Nel suo Ästhetik des Performativen Erika Fischer-Lichte si pone l’obiettivo di mostrare come dagli anni Sessanta alcune forme di arte teatrale abbiano non solo rivoluzionato una concezione tradizionale di teatro, ma anche, e per noi soprattutto, una concezione sedimentata di arte, fondata su alcune dicotomie concettuali; esse riguardano in particolare l’opposizione di progettazione ed esecuzione dell’opera, di produzione dell’artista e di fruizione del pubblico, di materialità e di spiritualità, di arte e non-arte, vale a dire di sfera artistica e sfera quotidiana, ordinaria della vita; per utilizzare un lessico fenomenologico, tra arte e Lebenswelt.

Lo sforzo di superare quei dualismi che hanno caratterizzato la cultura della modernità passa in primo luogo, in ambito teatrale, attraverso una riflessione sulla messa in scena e sullo spettacolo. L’esperienza estetica che viene sollecitata a partire dalla fase progettuale e di concreta preparazione di uno spettacolo-evento è una esperienza in primis sensibile-percettiva ed emotiva di un fruitore inteso come soggetto corporeo, come embodied mind, come unità di corpo e pensiero; ciò a partire dall’estetica fenomenologica di Maurice Merleau-Ponty.

La Fischer-Lichte definisce la messinscena (Inszenierung) come

il processo della pianificazione, della prova e della determinazione delle strategie secondo cui la materialità dello spettacolo viene prodotta performativamente, di modo che, da una parte gli elementi materiali possano manifestarsi come attualmente presenti nel loro essere fenomenico e, dall’altra, venga posta in essere una situazione che lascia libertà e spazio di manovra per azioni, comportamenti, ed eventi non pianificati e non ordinati (Fischer-Lichte 2004, p. 323).

Il momento preparatorio dell’Inszenierung necessita di un vero e proprio “lavoro estetico” in cui tutti gli elementi materiali (spazio architettonico, luci, suoni, odori…) vengono predisposti all’esperienza sensibile-percettiva ed emotiva del fruitore. Quella che noi generalmente chiamiamo “scenografia”, cioè l’allestimento dello spazio scenico, assume un ruolo decisivo, poiché il rapporto tra attore e spettatore, intesi come soggetti corporei, non può essere astratto dal medium sensibile nel quale e attraverso il quale questo rapporto avviene.

La messinscena costituisce dunque la fase progettuale dello spettacolo, ne fornisce delle direttive importanti ma non può prevederne il decorso, l’effettivo realizzarsi dello spettacolo, in cui il ruolo del soggetto fruitore diviene determinante. Lo spettacolo (Aufführung) è un vero e proprio evento (Ereignis) in cui ad avvenire è il

rapporto di co-implicazione di tutte le varie componenti dello spettacolo stesso: attori, spettatori, scenografia, spazio (architettonico, urbano o naturale che sia) nel corso di una certa durata temporale. Una co-implicazione o – per usare una espressione di Merleau-Ponty, citato dalla Fischer-Lichte –, una co-costituzione di soggetti e oggetti all’interno di una dimensione estetica, precedente l’astrazione intellettiva, e dalla quale la riflessione intellettiva si origina. Mentre l’atto intellettivo procede per analisi, l’atto percettivo procede per sintesi, come per sintesi, primariamente colte nell’esperienza sensibile, procedono sia la memoria sia l’immaginazione. Ed è questo carattere di sintesi estetica originale, di attiva co-implicazione ad emergere nello spettacolo.

È la messinscena a fare in modo che, da una parte, tutto ciò che appare, anche ciò che è poco vistoso, salti all’occhio e appaia trasfigurato, e che, dall’altra, il percipiente, nell’atto della percezione, si accorga di come il movimento, la luce, i colori, i suoni e gli odori agiscano su di lui e lo trasformino. In questo modo la messinscena può dunque essere definita e descritta anche come un procedimento che mira alla restituzione

dell’incantesimo al mondo – e alla metamorfosi di tutti i partecipanti allo spettacolo

(Fischer-Lichte 2004, pp. 325-326).

La messa in scena può dunque essere considerata come quel lavoro di predisposizione teso all’evento-spettacolo in quanto co-implicazione di tutti gli agenti, percepiti nella loro sintesi relazionale e interattiva. In tal modo il fruitore diviene un “agente”, cioè un soggetto non soltanto recettivo e co-costituito, ma anche co- costituente. Questo significa che l’identità del fruitore viene ad essere trasformata ad opera degli altri agenti, ma che allo stesso tempo gli altri agenti vengono ad essere co- costituiti dal soggetto fruitore. Nell’esperienza fruitiva vi è dunque una compresenza di atteggiamento passivo-recettivo e di atteggiamento attivo-formativo che non deve mai esser persa di vista. Ciò può esser detto anche dell’esperienza espositiva stessa: se è vero che la sua portata poietica agisce sullo spettatore, è anche vero che è lo spettatore a liberare il potenziale di senso dell’opera, a metterne in luce, di volta in volta, stratificazioni semantiche nuove.

In tal senso è possibile distinguere due momenti o fasi (complessi, e a loro volta distinguibili in sotto-momenti o sotto-fasi), all’interno dell’esposizione: la progettazione e la realizzazione (Inszenierung) da un lato, e l’effettiva esperienza da parte del pubblico (Aufführung) dall’altro lato; in tal senso l’esposizione è evento in cui avviene l’incontro e la reciproca co-costituzione tra i vari agenti, e in particolare tra i soggetti e le opere. Una delle maggiori implicazioni teoriche dell’utilizzo dei paradigmi interpretativi messi a punto dalla Fischer-Lichte – paradigmi ampiamente riconducibili all’alveo della fenomenologia – è la riconfigurazione del ruolo che assumono le opere

esposte: esse divengono dei “quasi-soggetti” che agiscono sullo spettatore. Nel corso delle sue frequentazioni dei Salons, antesignani delle moderne e contemporanee esposizioni, Diderot non di rado si chiedeva: “Quadro, che vuoi da me?”, accordando al quadro una quasi-volontà. Nell’estetica contemporanea è il fenomenologo francese Mikel Dufrenne a parlare dell’opera come “quasi-soggetto”; più recentemente è stato uno dei maggiori protagonisti dei Visual Studies, Mitchell, ad aver sottolineato l’azione che le immagini esercitano su di noi (A. Pinotti-A. Somaini 2009, pp. 99-133).

Durante l’esposizione-Aufführung (sollecitata dalla esposizione-Inszenierung) l’esperienza che lo spettatore fa – all’interno, ricordiamolo di un complesso intreccio di co-implicazioni – è di una “trasfigurazione del banale”, per usare una espressione di Arthur Danto (Danto 2008, p. 92) 1, o di una “visione di secondo grado”, per usare un’espressione di Paul Ricoeur (Ricoeur 2010, p. 117); trasfigurazione o “visione seconda” che consiste nella visione di aspetti inediti della realtà quotidiana da parte dello spettatore. Ciò avviene nell’esperienza fruitiva in quanto esperienza estetica, nel corso della quale l’opera è esperita nel suo apparire, cioè come presenza sensibile, che si manifesta, in un certo momento e in certo luogo, a un soggetto sensibile.

Nello spazio-tempo dell’esposizione-Aufführung ad avvenire è dunque un incontro “estetico” con l’opera; incontro che ha per effetto quella trasfigurazione del banale o visione di secondo grado di cui parlano non soltanto Danto e Ricoeur, ma molti altri filosofi (tra i quali i già citati Mikel Dufrenne e Maurice Merleau-Ponty). Se è vero, come asseriva Paul Klee, che non si vede l’opera ma si vede (la realtà) attraverso di essa, è anche vero che questa modalità del vedere, questa esperienza visiva che è esperienza di costruzione di senso della realtà, avviene il più delle volte all’interno di contesti espositivi e attraverso di essi.

In definitiva, quello scarto tra arte e vita che permette alla vita di riflettere su se stessa e di rimettersi in gioco ridisegnando il suo percorso formativo, avviene il più delle volte all’interno dell’esposizione-Aufführung. Per la visione di secondo grado, a essere necessaria non è tanto la presa di distanza del soggetto nei confronti dell’oggetto, caratterizzante la visione contemplativa, ma la differenziazione tra “stato ordinario” e “stato non-ordinario” o “stato poetico” dell’esperienza (Valéry 2008, 1208 e segg.); nello “stato poetico” il rapporto tra soggetto e oggetto – ancor meglio, il rapporto sistemico e interattivo tra gli “agenti” – non vien meno; ne risulta anzi rafforzato e rivificato, poiché viene rimesso in gioco.

Il carattere immersivo dell’esperienza, tipico dell’orizzonte quotidiano, viene dunque conservato, ma all’interno di uno spazio-tempo che non è quello della vita di tutti i giorni. È dunque nell’esposizione-Aufführung che avviene quella sospensione del mondo ordinario che permette alla vita di pensare se stessa e di trasformarsi. Tale

sospensione della Lebenswelt viene preparata all’interno delle diverse fasi progettuali ed esecutive dell’esposizione-Inszenierung; ma è soltanto nel momento dell’esposizione-Aufführung che avviene l’incontro con l’opera e la trasformazione della vita stessa.

A nostro avviso, la portata culturale di una esposizione può soltanto essere misurata con l’effettiva trasformazione del suo pubblico, che prende avvio all’interno dell’esperienza fruitiva ma che non si esaurisce in essa. Potremmo dire che l’esperienza fruitiva dell’esposizione costituisce l’inizio di un lento percorso di elaborazione; l’incontro con l’opera può essere ripreso e continuato attraverso la memoria, l’immaginazione e la riflessione.

Per un verso dunque si tratta di far presente agli studiosi di estetica che si occupano di fruizione l’importanza fondamentale dello spazio-tempo dell’esposizione-

Aufführung (strettamente connessa alle modalità operative della esposizione- Inszenierung) all’interno del processo fruitivo; per altro verso si tratta di far presente a

chi opera nell’ambito delle esposizioni, e a chi le studia da un punto di vista storico- critico, l’importanza fondamentale della fruizione, e la sua complessità, che non può essere ricondotta soltanto ai suoi aspetti psicologici o cognitivi. In definitiva nella fruizione la posta in gioco è altissima: la costruzione di senso del sé e del mondo.

Costruzione di senso che avviene in uno spazio-tempo che non è quello della vita di tutti i giorni, come diceva Paul Valéry nei suoi scritti sull’arte nei primi decenni del Novecento (Valéry 2008, pp. 1522-1551). Si tratta in definitiva di sospendere momentaneamente l’orizzonte ordinario dell’esperienza coi suoi schemi interpretativi, che nell’abitudine quotidiana si sono irrigiditi, per poter poi tornare ad esso in modo rinnovato, vivendo la realtà in tutta la sua pienezza e ricchezza di senso; una sorta di

epoché fenomenologica esercitata all’interno dell’esperienza estetico-corporea,

sensibile e semovente.

È quanto avviene all’interno dello spettacolo: una trasfigurazione del quotidiano che porta alla trasformazione del pubblico; ed è anche quanto avviene durante l’esposizione, la quale presenta i caratteri della teatralizzazione messi in luce dalla Fischer-Lichte: messa in scena, spettacolo, esperienza estetica.

Ma in che cosa consiste l’esperienza fruitiva, e in che modo si differenzia dall’esperienza estetica tout-court, secondo l’estetica del performativo?

Perché riesca la restituzione dell’incantesimo al mondo è tuttavia necessaria non solo la messinscena ma anche una specifica percezione da parte dello spettatore che porti alla sua trasformazione. […] Ho definito l’esperienza estetica resa possibile dagli spettacoli come del teatro e della performance art a partire dalla fine degli anni Sessanta del XX

secolo, come esperienza di soglia, un’esperienza della liminalità che può condurre a una

trasformazione, o che, di per sé, è già vissuta come una trasformazione. Ho anche

affermato che questo tipo di esperienza estetica è centrale per un’estetica del performativo (Fischer-Lichte 2004, p. 327).

Ad avvenire nell’esperienza fruitiva sono la liminalità, la soglia, lo sconfinamento tra le coppie di opposti caratterizzanti la modernità e tra gli aspetti del complesso e diversificato fenomeno “arte” che vanno visti nella loro interdipendenza; interdipendenza che, come si è visto, assume la forma della “interazione”.

2. Dalla fruizione contemplativa all’audience creativa. Il contributo dell’estetica