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Schermi Tv al posto di quadri’ Il video nelle mostre degli anni Ottanta in Italia

Abstract

L’intervento ha l’obiettivo di riflettere sulla presenza della video nelle mostre italiane durante gli anni Ottanta. Il periodo preso in considerazione si apre con il ritorno ai linguaggi tradizionali della storia dell’arte: pittura e scultura dominano le esposizioni periodiche come la Biennale di Venezia e la Quadriennale di Roma. Allo stesso tempo, si assiste però a significativi sviluppi tecnologici e a una crescente presenza dei nuovi media. Il presente saggio affronta le soluzioni espositive delle opere elettroniche sulla base delle coeve possibilità offerte dalla tecnologia, dando particolare attenzione ad alcune mostre incentrate sui nuovi media: Camere incantate [1980], Tecnologie e informatica [1986] e Arte e computer [1987]. Attraverso queste esposizioni è possibile osservare l’uso di dispositivi come monitor a tubo catodico, videoproiezioni e computer, nonché allestimenti di varia natura, dall’articolazione in sale all’open space, dalla visione frontale all’interazione tra spettatore e opera. The purpose of this essay is to reflect on the presence of video in Italian exhibitions during the Eighties. This decade opens with the return to the traditional languages of art history: painting and sculpture prevail in the periodic exhibitions such as the Venice Biennale and the Rome Quadriennale. At the same time, we can observe a remarkable technological progress and an increasing presence of the new media. This essay deals with the way in which the electronic artworks are exhibited, considering the resources of the technology of that time and giving specific attention to some exhibitions focusing on new media: Camere incantate [1980], Tecnologie e informatica [1986] and Arte e computer [1987]. Through these exhibitions, we can observe the use of devices such as CRT monitors, video projections and computers, as well as several setting strategies, from the arrangement in rooms to the open space, from the frontal vision to the interaction between spectator and artwork.

‘Schermi Tv al posto di quadri’: su L’Espresso del 15 marzo 1970 Maurizio Calvesi così titola un articolo a commento della mostra Gennaio 70. Comportamenti

progetti mediazioni, curata in collaborazione con Renato Barilli e Tommaso Trini

presso il Museo Civico di Bologna (Calvesi, 1970). Si tratta della III Biennale

Internazionale della Giovane Pittura, eppure, come sottolineato da Calvesi, di pittura

non c’è l’ombra. Ricordata come la prima mostra italiana in cui sono esposte opere di videoarte, Gennaio 70 è infatti dedicata alle più recenti tendenze concettuali e

comportamentali, alcune delle quali esposte grazie al videotape (ed. Barilli, Calvesi & Trini 1970).

Il confronto tra schermo televisivo e tela, che riecheggia quello già evidenziato da Benjamin (1936) tra la contemplazione cui si presta un dipinto e la fuggevolezza delle immagini filmiche, risulta ancora urgente negli anni Ottanta, quando il sistema dell’arte è dominato dal ritorno alle tecniche artistiche tradizionali, mentre parallelamente si assiste a un progressivo sviluppo delle tecnologie elettroniche e alla diffusione del personal computer. Il presente contributo intende riflettere sulla presenza del video nelle mostre d’arte di questo decennio in Italia, rinunciando all’esaustività, ma evidenziando alcuni aspetti peculiari dell’esposizione delle opere elettroniche attraverso una selezione di casi esemplari.

In un decennio che si apre con la consacrazione della Transavanguardia alla Biennale di Venezia, è interessante osservare la presenza del video, rispetto ai linguaggi tradizionali, nelle grandi esposizioni promosse dalla stessa Biennale e dalla Quadriennale di Roma. Nel periodo analizzato, si può annoverare una sola edizione della Quadriennale: l’XI (Undicesima Quadriennale di Roma, 1986), oggetto di numerose critiche. Accusata di non restituire un ritratto obiettivo della produzione artistica contemporanea, di accogliere troppi artisti (circa quattrocento) e di aver affastellato le opere in un allestimento caotico, l’XI Quadriennale è segnata dal protagonismo delle opere pittoriche. Infatti, l’unica videoinstallazione è Water, di Fabrizio Plessi, già esposta alla Biennale di Venezia del 1984 e costituita da un monitor posto a terra, sormontato da una scritta al neon, e dal progetto dell’opera stessa, stampato su tela.

Entrando nel merito delle Biennali, degne di nota sono le due edizioni in cui il settore arti visive è diretto da Maurizio Calvesi (Durante 2007). In entrambi i casi e secondo un preciso disegno curatoriale (XLI Esposizione internazionale d’arte 1984;

XLII Esposizione internazionale d’arte 1986), la tecnologia elettronica viene presentata

in netta opposizione alle tendenze più citazioniste e tradizionaliste, riservandole appositi spazi. Il video è «un’arte fuori quadro» (Fagone, 1984), cui vengono dedicate tre delle cinque sezioni della mostra Arte, Ambiente e Scena1 e un’intera mostra nell’edizione successiva, Tecnologia e Informatica, curata da Roy Ascott, Don Foresta, Tom Sherman e Tommaso Trini, di cui si parlerà più avanti. Accusata anch’essa di passatismo come la contemporanea Quadriennale, la Biennale del 1986 è inoltre ricordata per la sala destinata a Fabrizio Plessi nel Padiglione italiano, dove è esposta la videoinstallazione Bronx.

Prendendo ora in analisi, in modo più approfondito, alcune mostre dedicate esclusivamente ai nuovi media, che pongono l’accento sulla peculiarità del linguaggio

elettronico, si può entrare nel merito delle soluzioni espositive, leggendole in relazione tanto agli sviluppi tecnologici dell’epoca, quanto ai caratteri strutturali del medium. Primo tra tutti, la dimensione temporale che tuttora genera problemi nell’esposizione del video in contesti come musei e gallerie e che detta, ora come allora, un suo inserimento in rassegne e festival, oppure lo studio di particolari dispositivi di visualizzazione.

A quest’ultimo caso appartiene Camere Incantate. Espansione dell’immagine, curata da Vittorio Fagone (1980) al Palazzo Reale di Milano. Dedicata, oltre che al video, anche a cinema e fotografia, l’esposizione ha un titolo suggestivo che fa riferimento sia alla camera lucida e alla camera oscura, sia al concept dell’allestimento. Infatti, la “camera incanta” è anche il luogo fisico in cui si articola lo spazio espositivo, suddiviso appunto in varie sale, ciascuna dedicata a un artista.

Come emerge dai documenti relativi alla progettazione di questa mostra2, la soluzione delle “camere” deriva dalla preesistente articolazione in sale del secondo piano del Palazzo Reale, una sede che viene stabilita solo in un secondo momento. Infatti il primo progetto, risalente al novembre 1978, è di una mostra denominata semplicemente Espansioni dell’immagine, articolata in una serie di spazi adibiti all’esposizione di filmati, videotape, fotografie e performance, per il cui allestimento Fagone propone la Rotonda della Besana. Sebbene sia già presente a questa data la necessità di avere spazi indipendenti, l’articolazione in varie sale sarà dettata dai locali di Palazzo Reale e la “camera” verrà assunta come chiave interpretativa della mostra, acquistando anche un primo piano nel titolo.

Nei numerosi spazi in cui è suddiviso il percorso di visita, i video sono esposti in due diverse modalità. La prima è quella del Videoforum che interpreta la durata come una temporalità lineare, assimilabile al modello della visione cinematografica, con la trasmissione in sequenza dei videotape selezionati. Due sale contigue, fornite di quattro monitor, sono adibite a mostrare le opere prodotte da altrettante istituzioni specializzate: l’International Cultural Centrum di Anversa, il Centro Video dell’Università di Belgrado, il Centro Arte y Comunicación di Buenos Aires e il Centro Videoarte di Palazzo dei Diamanti di Ferrara. Analogamente, in una sala di maggiori dimensioni, c’è la programmazione di film. Nella stessa sala sono inoltre ospitate le performance che vengono poi riproposte in videotape da due coppie di monitor all’ingresso della mostra.

L’altra modalità di esposizione è strettamente connessa con l’articolazione in “camere”. Più precisamente, il percorso espositivo si divide in due corridoi: quello dedicato alla fotografia presenta un allestimento più tradizionale; mentre l’altro è

2 La documentazione è conservata presso la Cittadella degli Archivi del Comune di Milano. Fondi in attesa di riordino al momento della consultazione.

riservato alle installazioni video e cinematografiche che impongono un’illuminazione più raccolta. È qui che si esprimono meglio i riferimenti storici di Fagone: la camera oscura sarebbe infatti quella del cinema e della televisione, «lo spazio buio, dove [l’artista] proietta immagini senza corpo» (ed. Fagone 1980, p. 15). In quest’ala le installazioni video si differenziano da quelle cinematografiche perché le une utilizzano il monitor a tubo catodico e le altre la proiezione. Se è ancora troppo presto per la comparsa degli schermi a cristalli liquidi e al plasma, lo è anche per la proiezione video che, come vedremo, comincerà timidamente a essere utilizzata proprio in questo decennio. All’inizio degli anni Ottanta i videoproiettori, già disponibili sul mercato italiano anche per uso domestico, sono infatti ancora troppo ingombranti e costosi. Inoltre, la qualità dell’immagine non è buona, il che dipende non solo dalla bassa definizione tipica del video, ma anche dalla necessità di proiettare su appositi schermi che non risultano ben visibili da tutte le angolazioni (Albini, 1981). Per questi motivi, nella mostra Camere incantate sono usati esclusivamente proiettori cinematografici e diaproiettori, mentre il video è visibile su piccolo schermo. Il monitor a tubo catodico è il dispositivo a cui il video rimane indissolubilmente legato in questo decennio, talvolta utilizzato non solo come schermo di visualizzazione, ma anche come oggetto fisico, parte esso stesso dell’opera e in relazione con l’ambiente, come accade nella mostra che si sta analizzando.

Grazie all’importanza attribuita allo spazio, dichiarata fin nel titolo, Camere

incantate rappresenta così una delle prime mostre in Italia in cui sono esposte

videoinstallazioni, un capitolo della storia della videoarte peculiare degli anni Ottanta, all’epoca definite anche videosculture o videoenvironement (Fagone, 1983). Le mostre dedicate a questa particolare declinazione della videoarte meriterebbero uno studio specifico che consideri i caratteri propri delle installazioni, come soprattutto la relazione tra spettatore, opera e spazio. In questa sede si devono menzionare almeno Install-

Video-Side, a cura di Lola Bonora (1986) alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna3, perché riconosciuta dallo stesso Fagone come degna erede di Camere Incantate (Fagone 1986), e Artronica, curata da Anna D’Elia (1987) nel Convento di Santa Scolastica a Bari, uno spazio storicamente connotato in cui gli artisti realizzano interventi site-specific.

La maggior parte delle installazioni di Camere incantate sono pensate appositamente per gli spazi del Palazzo Reale, in alcuni casi prevedendo ancora una visione frontale, come i nove televisori della videoinstallazione Il tempo consuma di Michele Sambin; in altri creando invece un ambiente più immersivo, come Il messaggio

3 Proprio al Palazzo dei Diamanti diretto da Lola Bonora si svolge, tra il 1985 e il 1989, il ciclo di mostre Video Set, incentrato sulle videoinstallazioni.

del naufrago di Ferdinando De Filippi che riempie la stanza di sabbia e pone a

confronto due grandi proiezioni di diapositive con un televisore collocato a terra. Sia la videoinstallazione, con la sua articolazione nello spazio, che l’ordinamento espositivo in diversi ambienti, presuppongono un tipo di fruizione dinamica e lasciano allo spettatore un ruolo attivo. Nel catalogo, lo stesso Fagone avverte che ci vorrebbero almeno cento ore per vedere tutto, quindi è richiesta «un’attenzione vigilante e partecipe: solo [il fruitore] può selezionare, stabilire riconoscimenti e azioni» (1980, p. 17). In altre parole, il visitatore deve scegliere autonomamente le opere su cui soffermarsi e quanto tempo dedicare loro.

Sul versante opposto rispetto alla suddivisione in ambienti distinti, c’è l’open

space, decisamente più raro negli anni Ottanta e per questo meritevole di attenzione.

È la soluzione adottata alla Biennale di Venezia in occasione della già menzionata

Tecnologia e Informatica, mostra che introduce delle grandi novità fin

dall’organizzazione. Infatti i curatori, Ascott, Foresta, Scherman e Trini, risiedono tra Canada ed Europa e, certo non a caso, organizzano la mostra comunicando tramite posta elettronica, un sistema estremamente innovativo per l’epoca.

Nello spazio delle Corderie dell’Arsenale, dove è allestita assieme al Padiglione Italia e alle mostre Colore e Aperto 86, Tecnologia e Informatica è introdotta dalle installazioni, connotate da diverse tecnologie: non solo video, ma anche laser, robot computerizzati e ambienti sensibili. Ma il vero cuore dell’allestimento è costituito dal cosiddetto network planetario, denominato dai curatori Ubiqua, in cui gli artisti operano «entro l’ubiquità caratteristica della memoria elettronica» (Ascott, R, Foresta, D, Shermann, T, Trini, T 1986, Arte Tecnologia Informatica – Progetto, ASAC, b.426, 10.). Si tratta di uno spazio virtuale che collega Venezia ad altri ventidue centri di trasmissione sparsi nel mondo, attraverso i quali gli artisti possono trasmettere e modificare testi e immagini secondo una modalità operativa collaborativa che mina il concetto di autorialità dell’opera ed estende virtualmente lo spazio espositivo fuori dalla Corderie. Ubiqua si presenta come un open space che ricrea un ambiente operativo assimilabile più a un ufficio o a uno studio televisivo, piuttosto che a una galleria d’arte. Nella penombra emergono telecamere, altoparlanti, proiettori, stampanti, computer e schermi di varie dimensioni, sui quali sono visualizzabili sia i risultati ottenuti nel networking, cioè testi e immagini scambiati tramite tecnologie che sfruttano la rete telefonica, che le opere del cosiddetto laboratory workshop. Fisicamente il networking e il laboratorio condividono lo stesso spazio, non c’è alcuna indicazione che suggerisca allo spettatore una distinzione, ma nelle intenzioni dei curatori, questo laboratorio è considerato una sezione a sé, pensata per la presentazione di lavori che si basano su varie tecnologie, dalla computer art al videodisco interattivo, opere per le quali si rinuncia a un’esposizione per così dire

tradizionale, scegliendo desk da lavoro al posto di piedistalli e mettendo in vista i computer.

Ubiqua è uno spazio di produzione ed esposizione al tempo stesso, in cui lo

spettatore è circondato da schermi di diverso tipo, da quelli televisivi, ai monitor dei computer, fino alle quattro grandi videoproiezioni, dell’ampiezza di 200”, ognuna su una parete della grande sala. Si tratta di un’importante novità, che corrisponde a un incremento nell’impiego dei videoproiettori a metà degli anni Ottanta: le dimensioni e i costi si stanno infatti riducendo, anche se rimane l’inconveniente della bassa risoluzione dell’immagine elettronica, che mal sopporta l’ingrandimento della proiezione a parete. Va anche precisato che nella stessa mostra la proiezione è presente, anche se in bianco e nero, nell’opera di Bill Viola, Room for Saint John of

the Cross, del 1983 (Viola, B 1986, Room for Saint John of the Cross, ASAC, b. 427,

2).

Lo spazio aperto di Ubiqua – che accoglie ed enfatizza le caratteristiche del luogo – contrariamente alla netta suddivisione in stanze, determina una modalità di fruizione diversa per le opere di new media art: non più l’isolamento e la visione meditata, ma una pluralità di immagini provenienti da ogni lato della sala e la possibilità di interagire con le opere. Non è questa la sede per affrontare la questione dell’interazione con lo spettatore, così peculiare dei nuovi media, ma è importante sottolineare quanto essa fosse centrale nel progetto curatoriale di Tecnologia e Informatica, tanto da dettare l’esigenza di uno spazio più operativo che contemplativo. Eppure, nonostante l’enfasi posta sull’eccezionalità di Ubiqua, è lo stesso Trini ad ammettere, in una relazione inedita, che questa sezione è stata meno efficace nel coinvolgimento del pubblico rispetto agli ambienti destinati alle videoinstallazioni (Trini, T 1986, Relazione finale, ASAC, b. 413, 2).

Altra peculiarità dell’open space delle Corderie è l’uso di più dispositivi di diversa grandezza. Le medesime immagini sono visualizzate attraverso vari schermi, facendo emergere la natura malleabile dell’opera video che può essere esposta attraverso dispositivi di visualizzazione differenti4, i quali naturalmente si modificano di pari passo con l’evolversi delle tecnologie.

In Tecnologia e Informatica va inoltre evidenziata la presenza dei personal computer, adoperati in qualità di dispositivo di produzione ma anche di visualizzazione delle opere. Presente anche nel network planetario come una delle modalità di scambio di informazioni, il calcolatore fa da protagonista nella sezione computer

imaging5, dedicata alla produzione video che rinuncia alla ripresa dal vero: la computer art. Le opere sono visionate sui monitor dei computer, come il nuovissimo Machintosh

4 Molti dei monitor sono da 20”, ma ne vengono utilizzati anche di più piccoli (come quelli da 9” e 14” delle postazioni di slow scan tv) e di più grandi, fino alle grandi proiezioni da 200”.

Plus, commercializzato proprio nel 1986, ma anche proiettate. Infatti, i quattro proiettori utilizzati sono adatti a visualizzare immagini in computer grafica perché supportano il segnale RGB sia analogico che digitale. A proposto di computer art, va inoltre citata la rassegna Immagini sintetiche e tridimensionali, a cura di Dario Del Bufalo e Valerio Eletti, che introduceva alla mostra con video realizzati al calcolatore e visibili in loop su una serie di monitor6.

Grazie anche alla diffusione dei primi PC come l’Apple II, in questi anni anche in Italia esplode il dibattito sull’uso del computer in ambito artistico e, nel 1987 proprio su questa produzione, spesso definita all’epoca come una sorta di pittura elettronica, si concentra la mostra Arte e Computer, a cura di Renato Barilli, il cui concept ruota attorno all’idea che si possa dipingere al computer (Barilli 1987; Dentice 1987). La mostra accoglie gli esperimenti informatici di artisti di diverse generazioni, alcuni invitati a lavorare per la prima volta al computer, altri selezionati proprio perché tra i protagonisti di questa nuova forma d’arte. Negli spazi della Rotonda della Besana a Milano, i video sono mostrati attraverso schermi di varie dimensioni: nella stessa sala convivono tre proiettori e circa dieci monitor, ma i dispositivi non servono a distinguere le opere perché i video scorrono a ciclo continuo. La mostra è realizzata in collaborazione con la Rgb Computer Graphics che mette a disposizione specialisti e stazioni grafiche per permettere agli artisti invitati di realizzare le loro opere. Dunque anche qui, come già a Venezia, l’accento è posto sul carattere laboratoriale evocato da uno strumento tecnologico come il computer.

La camera, l’open space, l’uso di monitor televisivi, proiettori e computer: sono tutte soluzioni legate non solo a ciò che la tecnologia imponeva all’epoca, ma anche alla volontà di rispondere alle peculiarità del medium video secondo modalità fruitive diverse, preferendo talvolta l’intima dimensione della contemplazione, talaltra la compresenza di più opere in uno stesso spazio; privilegiando col proiettore l’immaterialità dell’immagine elettronica o scegliendo di esporre la tecnologia stessa, senza nascondere i dispositivi.

L'autrice

Paola Lagonigro (1984) si è laureata in Storia dell’Arte Contemporanea alla Sapienza di Roma con una tesi sulla rimediazione della pittura nella videoarte. Dopo anni di esperienza nell’ambito della didattica museale, prima al MAXXI e poi in altri musei romani, nel 2015 ha intrapreso un dottorato di ricerca alla Sapienza, continuando a indagare i rapporti tra video e pittura, in particolare nel contesto italiano degli anni Ottanta.

6 L’informazione, non reperibile nei documenti consultati, è dedotta da una conversazione con Valerio Eletti in data 2/6/2017.

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