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Dalla fruizione contemplativa all’audience creativa Il contributo dell’estetica fenomenologica

Esposizioni e svolta performativa Per una fruizione creativa

2. Dalla fruizione contemplativa all’audience creativa Il contributo dell’estetica fenomenologica

Nel tentativo di superare la dicotomia tra arte e vita, l’estetica del performativo non nega certo la differenza che vi è tra le due; se è vero che l’arte non si oppone alla vita né la vita all’arte, è anche vero che arte e vita non si sovrappongono. Dell’arte la Fischer-Lichte riconosce la ricerca di autonomia – di cui la valenza di tipo istituzionale è espressione –, e la capacità di rinnovare la cultura sociale, il senso comune, cioè il sentire condiviso da una comunità culturale; questo ben si lega all’attuale dibattito sull’audience development, sulla produzione e sul “consumo” della cultura nonché sulle politiche culturali2.

Tuttavia – afferma la Fischer-Lichte – contro il rischio di una separazione tra arte e vita, connesso alla stessa ricerca di autonomia, molti artisti, all’inizio degli anni Sessanta, lavorano, di fatto, per superare tale separazione, praticando un’arte dello sconfinamento. Come abbiamo avuto modo di osservare, essi tentano di oltrepassare, cancellare il confine tra arte e non arte, arte e “realtà”, arte e vita, un confine che è stato stabilito nella cultura occidentale alla fine del XVIII secolo.

Non solo gli spettacoli del teatro e della performance art, ma anche gli spettacoli di altre forme d’arte si muovono in questa direzione, in particolare le esposizioni d’arte, che più che esporre arte, la mettono in scena. In tale modo l’atto dell’esporre viene ad essere riformulato in senso fenomenologico; l’esporre è un far vedere, un mostrare l’arte nel suo essere fenomenico, nella sua presenza sensibile che si offre a un soggetto di esperienza, a un soggetto estetico.

Le esposizioni mediante il lavoro estetico dell’Inszenierung, trasformano l’arte in

spettacolo (Aufführung), cioè la eseguono (aufführen), come se si trattasse di un pezzo musicale (De Blase 2014, p. 349). Il fenomeno della teatralizzazione dell’arte non va inteso, come comunemente si fa, in senso spregiativo, ma va invece attentamente

studiato, sia in merito alla sua struttura, essenzialmente dinamica, sia in merito alle opportunità di trasformazione del pubblico che esso comporta.

Due edizioni di Documenta a cavallo dei due millenni rappresentano, secondo la Fischer-Lichte, un esempio eminente di tale fenomeno. I curatori Catherine David (Documenta X) e Okwui Enzor (Documenta XI) affermarono di volere non solo mostrare, nei lavori presentati, «immagini critiche del mondo moderno e dei fenomeni che lo muovono e lo trasformano» (David 2000), ma di voler al contempo far funzionare

Documenta come una «piattaforma» in cui «promuovere un incrocio tra idee teoriche

e prassi» (documenta XI: Democracy Unrealized. Platform I 2001).

Il secondo esempio fatto dalla Fischer-Lichte riguarda il festival Theater der Welt 2002; In occasione del Festival, Theater der Welt e museo Ludwig di Colonia organizzarono e allestirono un’esposizione il cui titolo programmatico era: I promise

It’s Political. Performativität in der Kunst. Un’idea espositiva di questo tipo mostra

quanto siano «diventati poco nitidi concetti come teatro, arte e mondo» (Lilienthal 2001, p. 5). L’esposizione era, infatti, concepita in modo tale da produrre «nuove forme di mutualità» e cioè «non più solo relazioni tra osservatori e oggetti, ma tra osservatori e spazi», così da far nascere durante «il processo della percezione un nuovo “NOI”, e da riuscire dunque a dispiegare un corrispondente potenziale trasformativo» (Rogoff, I 2002, p. 53). «Un’estetica del performativo mira a quest’arte dello sconfinamento» (Fischer-Lichte 2004, p. 349).

All’interno di tale contesto, l’estetica fenomenologica di Maurice Merleau-Ponty e l’ermeneutica fenomenologica di Paul Ricoeur possono fornirci dei paradigmi interpretativi non solo di grande interesse ma anche di grande attualità; si tratta, in definitiva, di sondare il potenziale teorico di una tradizione filosofica dalla Fischer- Lichte non sempre presa in adeguata considerazione: quella francese.

Nella sua «poetica della volontà» Ricoeur individua un rapporto strettissimo e circolare tra produzione e fruizione (Ricoeur 2010), due aspetti dell’arte che non è possibile separare. La fruizione rientra all’interno del processo della mimesis, caratterizzato da tre momenti: pre-figurazione, con-figurazione, ri-figurazione. Una

mimesis che, si badi bene, nulla ha a che fare con l’imitazione banalmente concepita

come rappresentazione fedele della realtà. Fondamentale diviene qui il concetto di

figurazione intesa come un processo formativo mirante a quella che Danto ha

chiamato, come si è detto più sopra, «trasfigurazione del banale» (Danto 2008). Mentre nella “pre-figurazione” il processo formativo si radica nella dimensione pre-intellettiva (sensibile-percettiva, emotiva) del mondo della vita, nella “con- figurazione” esso si distacca dal mondo della vita stesso, costruendosi in modo autonomo; nella “ri-figurazione” è il fruitore che permette il ritorno del processo

formativo e operativo al mondo della vita, nella sua dimensione ordinaria, quotidiana; un ritorno all’insegna della trasformazione.

Il superamento del concetto sedimentato di mimesis, in quanto “rappresentazione”, è reso possibile solo a partire da una rilettura della Poetica di Aristotele; il filosofo francese evidenzia il ruolo che vi assume la praxis, l’azione umana, messa in scena nella tragedia. Non a caso dunque nella “poetica della volontà” di Ricoeur (comprendente sia la Métaphore vive sia la trilogia di Temps et Récit) i due concetti di azione umana (praxis) e di comporre artistico (poiein) diventano centrali. Il fare artistico è restituzione dell’azione; l’arte mostra l’azione dell’uomo e mette sotto gli occhi l’animazione del reale mediante un processo poietico che necessita di una sua “pragmatica”, cioè di tecniche operative.

Inoltre, se la produzione nasce da uno scarto operato dall’immaginazione creativa nei confronti di schemi culturali e simbolici preesistenti e preordinati, cioè nei confronti di una cultura sedimentata e diffusa, sarà il fruitore a operare una concreta modificazione degli schemi culturali esistenti, realizzando all’interno dell’orizzonte quotidiano l’innovazione creativa “inventata” dall’artista.

Queste riflessioni risultano particolarmente utili in merito alla complessità del fenomeno delle esposizioni, nella misura in cui momento produttivo, momento espositivo e momento esperienziale sono strettamente legati: si espone un prodotto, lo si mostra, lo si rende presente e visibile a un fruitore che dell’esposizione fa esperienza, esperienza per Ricoeur di tipo “trasformativo” (del sé, del proprio mondo). Inoltre, queste riflessioni possono risultare preziose nella misura in cui l’esperienza fruitiva rientra all’interno della costruzione dell’identità culturale di un individuo o di una collettività, costruzione caratterizzata dalla dialettica di sedimentazione e di

innovazione, la quale si inserisce all’interno di un orizzonte storico.

A ben vedere il processo triadico della mimesis permette non soltanto di inserire il doppio carattere dell’esposizione (esposizione-Inszenierung, esposizione-

Aufführung) all’interno del rapporto di continuità di produzione e fruizione, ma anche

di meglio comprendere il potere che ha l’arte di trasformare il nostro orizzonte simbolico; una trasformazione che l’esposizione può contribuire a compiere.

La fenomenologia della percezione di Merleau-Ponty ci offre importanti paradigmi interpretativi riguardanti la dimensione corporea dell’esperienza fruitiva; il fruitore è un uomo in carne ed ossa, che percepisce sensibilmente quanto gli viene mostrato. A ciò occorre aggiungere che nel soggetto corporeo la sensibilità è indissociabile dal movimento (Merleau-Ponty 1989; 2003). Merleau-Ponty ci offre dunque un modello

embodied della fruizione che potrebbe essere applicato all’esperienza fruitiva

In tal senso la fruizione è una esperienza “aistetica” a tutto tondo, poiché avviene all’interno dell’ambito sensibile, all’interno di un “mondo estetico” – per usare ancora una volta un’espressione di Merleau-Ponty – che si fonda sull’intercorporeità, cioè sul legame simultaneo tra oggetti, oggetti e spazio ambientale.

Per Merleau-Ponty l’uomo estetico è un uomo corporeo che compie atti percettivi e motori e che, attraversando lo spazio ambientale, agisce su di esso. Vi è dunque un aspetto pratico, di azione formativa e trasformativa del mondo e del sé che Merleau- Ponty, anche sulla scorta di Valéry, vede espresso soprattutto nell’ambito artistico. Ogni forma d’arte implica un fare (poiein), da intendersi come azione formativa, che diviene creativa nella misura in cui inventa (nel senso letterale del termine) e si dà autonomamente la propria legge formativa. Nel quotidiano la praxis si separa dalla

poiesis e diviene mera ripetizione di schemi comportamentali abitudinari. Il fare

poietico necessita di concrete e determinate prassi operative, che implicano uno sforzo, un lavoro estenuante, che può portare l’artista ai limiti della sopportazione.

È questo incontro di praxis e di poiesis a consentirci di utilizzare il termine creatività. Un’opera è creativa nella misura in cui segue una propria legge formativa, e allo stesso tempo mette il fruitore nelle condizioni di prendere le distanze dalle prassi operative abitudinarie e di trovare una autonomia di pensiero e di azione, trasformando la propria esperienza in esperienza creativa. Per Valéry l’opera va dunque reinserita nel processo creativo dell’artista; un processo mai concluso, che attende l’esperienza fruitiva per compiersi, cioè per continuare a realizzarsi. Perché l’arte possa liberare tutto il suo potenziale di senso deve essere messa nelle condizioni di essere fruita in modo consapevole, attivo, creativo. A essere evidenziato da parte di Valéry è l’aspetto formativo e operativo dell’esperienza fruitiva e conseguentemente della liberazione del potenziale di senso dell’opera.

Per l’arte performativa in genere, e per le esposizioni, intese come fenomeno riconducibile, almeno parzialmente, alla performatività, a essere in gioco è la trasfigurazione di una visione, incarnata, del mondo, indissociabile da una componente attiva di trasformazione.

Come afferma un altro grande protagonista della fenomenologia francese, Henri Maldiney, l’esperienza del fruitore è fondamentalmente corporea, vale a dire sensibile e deambulatoria3. La fruizione non coincide con la mera presa visione di ciò che viene esposto, indipendentemente dallo spazio circostante; e nemmeno può essere ricondotta alla posizione fissa dell’osservatore contemplativo. A dover essere recuperato è un essenziale carattere di interazione dell’esperienza fruitiva stessa.

3 V. in part. Maldiney 2012.

A parere di Maldiney un esempio emblematico è costituito dalla progettazione della Fondation Maeght a Saint Paul de Vence. In occasione dell’inaugurazione dello spazio museale, uscì un volume della collana Derrière le miroir [edizioni Maeght, 1964] dedicato alla Fondation, scritto da Maldiney e con litografie di Giacometti, Tal Coat, Mirò, Braque, Chagall. Ricordiamo che Maldiney fu per anni il filosofo di riferimento dei coniugi Maeght, galleristi di fama internazionale; a lui furono affidate molte monografie dedicate agli artisti che dell’entourage dei Maeght facevano parte.

Maldiney fu invitato da Tal Coat, che stava realizzando per la Fondation un mosaico, a visitare il cantiere degli artisti, a vedere le opere realizzarsi, non ultimo il museo stesso. L’edificio destinato a ospitare la collezione Maeght fu progettato dall’architetto catalano Josep Sert tra il 1959 e il 1964, il quale, in fase di progettazione, molto dialogò con gli artisti che avrebbero dovuto non solo esporre le loro opere, ma anche contribuire a realizzare parti dell’edificio. Fu a partire da questa visita e dalle conversazioni sia coi coniugi Maeght sia con gli artisti che nacquero le riflessioni di Maldiney sul museo, così come era stato progettato da Sert.

Il museo ha principalmente di mira l’esposizione (exposition) dell’opera, e la messa in relazione tra il fruitore e l’opera, cioè “l’incontro” tra di essi; incontro che non può prescindere dallo spazio in cui e attraverso cui avviene, così come dalle altre opere esposte e dagli altri fruitori. L’esposizione implica un lungo e complesso lavoro estetico, che ha lo scopo di mettere in mostra il lavoro operativo e formativo compiuto dall’artista. Nella misura in cui implica la progettazione architettonica, potremmo dire che l’esposizione fa incontrare diverse arti, e che le fa interagire.

Ma come Sert realizza, la mise en vue, le rencontre? La costruzione progettata da Sert è per Maldiney un luogo che organizza lo spazio di esperienza del soggetto fruitore. Descrivendo l’edificio, praticando una sorta di ekphrasis dell’architettura, Maldiney sottolinea il maggiore punto di forza del progetto: l’arte architettonica esprime qui un ritmo, tra l’interno e l’esterno, tra la luce e l’ombra, tra il pieno e il vuoto 4. Il ritmo è il legame ritrovato tra coppie di opposti che la cultura moderna ha individuato nella stessa esperienza estetica. In tal senso, la progettazione dell’edificio-museo rientra a pieno titolo nell’esposizione-Inszenierung: il ritmo espresso dall’architettura mette il fruitore nelle condizioni di superare quei dualismi, inerenti in particolare all’esperienza dello spazio, che potrebbero compromettere l’esperienza tout-court dell’opera esposta.

In tal modo il processo fruitivo, predisposto dalla progettazione architettonica, rimette in gioco l’esperienza sensibile-percettiva, emotiva e motoria mostrando l’impossibilità di riproporre il modello statico e distaccato della contemplazione.

L’innovazione della cultura sedimentata e diffusa, in questo caso la riproposizione del rapporto tra luce-ombra, pieno-vuoto, interno-esterno, passa dunque attraverso una esperienza fruitiva attiva, a tutto tondo; esperienza che può porre le basi per la costruzione di un clima culturale innovativo e creativo 5.