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Una doppia personalità

4. LA DONNA NELLA SOCIETÀ OCCIDENTALE: CONFRONTO

4.3. Una doppia personalità

Riallacciandomi ancora una volta al saggio della Belgiojoso, si può rilevare che la scrittrice italiana riprende alcune osservazioni già riportate nel diario di viaggio, Vita intima e vita nomade in Oriente, del 1858, a proposito della doppia personalità delle donne orientali incontrate negli harem, le quali, in presenza del marito, si mostravano timide e sciocche, mentre invece, in sua assenza, rivolgendo numerose domande a Cristina, rivelavano la loro vera natura e la loro istintiva curiosità di conoscere gli usi e i costumi, tanto diversi dai loro, sia della principessa che, in generale, delle donne occidentali.

Nel saggio del 1866 questo stessa caratteristica comportamentale viene estesa anche alle europee, le quali impegnano tutte le proprie forze al fine di piacere ai propri uomini, di farsi amare da loro e ottenerne le simpatie, ostentando una finta timidezza e una eccessiva debolezza e mancanza di coraggio:

Gli uomini persuasero le donne che la loro ammirazione, il loro affetto era a prezzo della loro inferiorità intellettuale, e le donne hanno così creduto, e ve n’hanno di colte che nascondono la loro coltura pel timore di essere annoverate fra le donne superiori, le pedanti, ed altre simili abominazioni.

Il maggior danno che risultò da tanto inganno, si è, a parer mio, il carattere fittizio, di cui le donne si sono rivestite per piacere agli uomini. Il naturale delle donne è interamente frainteso e falsificato. [...] non sono ancora molti anni ch’esse arrossivano del loro coraggio, lo nascondevano, lo negavano, e si rivestivano di tutte le apparenze della paura e della viltà, mandando acute grida se minacciate del minimo pericolo, se un cavallo drizzava le orecchie, se un soffio di vento increspava l’onda marina sotto la loro barca, ad un romore improvviso, se tuonava o lampeggiava, e ad ogni apparente minaccia della sorte. Perché ciò? Perché erano state avvertite che agli uomini piaceva la donna debole, bisognosa del loro sostegno, e che nulla era loro più antipatico del coraggio e della forza femminile22.

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129 Le donne accettarono, dunque, questa condizione di sottomissione, malgrado ciò le condannasse a una vita fittizia e malgrado, nel loro animo, coltivassero sempre un desiderio di evasione, un desiderio di fuggire dalle fredde convenzionalità che la vita in Occidente comportava.

La stessa Annie Vivanti si lascia andare a una simile rivelazione nel suo diario

Terra di Cleopatra: sulla strada del ritorno a casa, mentre, insieme alla sua

compagnia di amici, navigava sul Nilo, osservando il fiume sulle cui acque, in passato, era passata la «galera d’oro con le vele di porpora», che trasportava Cleopatra e il suo «romano amante»23, iniziò a pensare a come sarebbe liberatorio poter seguire l’esempio della famosa regina d’Egitto e, prendendo la medesima sua imbarcazione, scappare altrove. Scrive Annie:

E forse ciascuna di noi, tardigiunte, noi costrette nel servaggio di aride consuetudini e fredde convenzionalità, sognammo di scendere alla riva del leggendario fiume e di trovarvi una nave dalle purpuree vele... una nave che ci portasse lontano dalle squallide realtà della vita, verso un destino risplendente, verso un ineffabile amore, verso una morte superba24.

Un’altra scrittrice, che affrontò la questione dell’impossibilità per le donne di esprimere liberamente i propri sentimenti e della necessità, al contrario, di doverli occultare, fu Matilde Serao.

Come da lei stessa dichiarato più volte, le destinatarie privilegiate di alcuni dei suoi scritti migliori furono le donne, delle quali conosce e analizza pensieri, sentimenti, emozioni, segreti, gioie, angosce, emarginazione e degradazione con una sensibilità, una profondità e un’acutezza proprie solo di un’altra donna.

Proprio per le donne scrisse, in particolare, Il romanzo della fanciulla, pubblicato nel 1886; e, con queste parole, la Serao parla della sua opera, sulle pagine del suo quotidiano, il «Corriere di Roma»:

In un libro che piacque mediocremente ai critici, ma che ebbe gran successo di diffusione e di affetto fra le donne, cui era destinato, il

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Annie Vivanti, Terra di Cleopatra, Verona, Mondadori, 1953, pp. 174-175.

130 «Romanzo della fanciulla», io avevo narrato di questi oscuri, sconosciuti dolori femminili.

E tanto nel libro, come nel giornale, io ne ho parlato con quella forma imperfetta e affannosa di chi non ha il tempo di dir tutto e di dir bene: ma ne avevo parlato con tutta la passione di chi ha vissuto fra quei dolori e li ha sofferti, con l’anima vibrante di pietà […] 25.

Già a partire dalla Prefazione del Romanzo, Matilde fa un esplicito riferimento proprio alla condizione della donna e allo stato di inferiorità in cui è costretta a vivere, rispetto all’uomo:

Chiusa come un baco da seta in un bozzolo filato dal rispetto umano, dalla educazione, strana e variabile, dalla modestia obbligatoria, dall’ignoranza imposta, dalla inconsapevolezza ad ogni costo, e trascinata poi da una forza contraria d’impulsione a gravitare intorno al sole del matrimonio, la fanciulla si sviluppa in condizioni morali difficilissime.

Ella deve vivere a contatto con gli uomini, senza che fra essi e lei si apra una corrente di comunione; deve indovinare tutto, dopo avere tutto sospettato, e sembrare ignorante; deve avere un’ambizione cocente e divoratrice, un desiderio gigantesco, una volontà infrenabile di aggrapparsi a un uomo, e deve essere fredda e deve essere indifferente […]26

.

La donna è dunque completamente soggetta all’uomo e alla sua autorità. Nel matrimonio, non ha la possibilità di esprimere le sue idee: da brava moglie, deve accettare passivamente quanto il marito le ordina; da brava madre, invece, deve essere in grado di accudire ed educare i figli alle virtù dell’onestà, della solidarietà, della fratellanza e del rispetto, nel miglior modo possibile.

Tuttavia, continua la Serao:

In questo dramma interiore, imposto alla fanciulla dalla necessità della nostra vita, ella diventa profonda, pensosa, malinconica spesso, scettica sempre.

25

Trovo la citazione in Vittoria Pascale, Sulla prosa narrativa di Matilde Serao, Napoli, Liguori, 1989, pp. 14-15.

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131 Nessuno più della fanciulla, apprende quotidianamente i dolori e le disfatte della lotta per l’esistenza. Ella vive guardinga, move i passi con precauzione; e la sua anima non si dà facilmente, i misteri del suo spirito restano impenetrabili. Niuno più della fanciulla sente acutamente la vita, in un contrasto talvolta comico, talvolta doloroso: quegli occhi abbassati o distratti hanno sagacità di osservazione insuperabile […]27.

Nella società, non c’è dunque posto per la donna, né per una sua affermazione professionale. Ecco allora che le fanciulle che compaiono nel romanzo seraiano sono ben rappresentative di questa situazione fin qui descritta: esse devono continuamente fingere e apparire per ciò che non sono.

A titolo esemplificativo, si fa riferimento alle protagoniste del racconto Scuola

normale femminile, un gruppo di ragazze che si prepara a sostenere l’esame finale

per il conseguimento del diploma magistrale.

Il giorno dell’esame però, tutte fingevano qualcosa: «Fingevano, chi la tranquillità, chi la disinvoltura, chi una indifferenza assoluta»28.

Ma cosa celavano in realtà?

Benché cercassero di avere un’aria disinvolta, esse nascondevano «la paura, l’inquietudine, la tristezza, la nervosità», al solo pensiero dell’esame, il pensiero non nominabile che la Serao identifica con l’aggettivo «l’altro»:

sotto tutti quei sorrisi il tormento trapelava, sotto quei discorsi di vestiti, di bagni, di seratine, trapelava il pensiero angoscioso, l’altro, quello per cui nessuna di loro aveva dormito alla notte, quello per cui si erano affaticate otto mesi e per cui negli ultimi due mesi estivi, giugno e luglio, avevano sgobbato, dalla mattina alla sera, sui libri, sui quaderni, sui sunti, sulle formole29.

Anche nei Telegrafi dello stato, la scrittrice dà notizia di un gruppetto di ragazze, impiegate presso il palazzo Gravina – sede dei Telegrafi dello stato –, le quali svolgono un impiego alienante, e sono sacrificate a lavorare anche nei giorni festivi, in uno stanzone buio e desolante.

27 Ibidem. 28 Ivi, p. 171. 29 Ibidem.

132 Ciò che, però, sorprende maggiormente è il fatto che, non appena mettono piede all’interno di questa «anticamera tetra», subito qualcosa cambia nel loro atteggiamento: infatti, «la burocrazia – riporta la Serao – avvinghiava l’anima di tutte quelle ragazze, il frasario di ufficio, sgrammaticato e convenzionale, fioriva sulle loro labbra»30 . Tuttavia, nonostante si chiedesse loro un comportamento confacente alla professione svolta, e quindi totalmente avulso alla loro vera indole, queste impiegate – durante l’orario di lavoro – non rinunciavano a scambiarsi tra loro delle confidenze amorose o a comunicare clandestinamente con i propri amanti, seppur correndo il rischio di richiami e licenziamenti.

In conclusione, in relazione a ciò che è stato sinteticamente esposto in questo capitolo, si è cercato di dare un’idea di quanto, nella realtà dei fatti, anche in Occidente la donna vivesse in una condizione di sottomissione all’uomo e venisse privata della libertà di prendere decisioni autonomamente e di ambire a migliorare la propria situazione.

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