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Della presente condizione delle donne e del loro avvenire

4. LA DONNA NELLA SOCIETÀ OCCIDENTALE: CONFRONTO

4.1. Della presente condizione delle donne e del loro avvenire

Mettendo in risalto i punti salienti in cui è articolato il saggio della principessa Cristina di Belgiojoso, pubblicato nel 1866 sulla rivista «Nuova antologia», con il titolo Della presente condizione delle donne e del loro avvenire, si dimostrerà che – come già rilevato giustamente da Ricciarda Ricorda1 – non solo in Oriente ma anche nei paesi del più civilizzato Occidente le donne sono costrette a soggiacere ad una situazione di subalternità rispetto all’uomo.

Rivelando apertamente la sua posizione nei confronti della questione femminile nella società occidentale a lei contemporanea – più precisamente in quella italiana –, e ragionando sui diritti e i doveri delle donne stesse, la scrittrice afferma che, dal punto di vista intellettuale e morale, la donna è sullo stesso livello dell’uomo: «che la donna – scrive – non sia né moralmente né intellettualmente inferiore all’uomo, se non per l’azione esercitata dal fisico sul morale e sull’intelletto, o ancora per gli effetti della educazione, è cosa ormai generalmente riconosciuta ed ammessa»2.

Consapevole dunque della sostanziale parità tra i due sessi ma, nonostante questo, anche della condizione socialmente inferiore in cui la donna è sempre rimasta e tuttora rimane, dopo aver posto l’accento sull’importanza e sul valore che l’istruzione e l’educazione – a cui le donne non possono avere accesso – assumono nel processo di crescita morale e personale dell’individuo, la Trivulzio propone una analisi di quei meccanismi tramite cui l’uomo, fin dall’antichità, ha asservito il gentil sesso al suo volere.

1

Ricciarda Ricorda, Viaggiatrici italiane tra Settecento e Ottocento. Dall’Adriatico all’altrove, Bari, Palomar, 2011, pp. 154-157.

2

Cristina Trivulzio di Belgiojoso, Della presente condizione delle donne e del loro avvenire, in «Nuova antologia», vol. I, n.1, 1866, p. 96.

118 Dal momento che, secondo la Belgiojoso, la «società moderna è figlia dell’antica»3

, è necessario andare a indagare proprio in quella società le dinamiche attraverso le quali si è radicata nella mentalità dell’epoca e, conseguentemente, in quella attuale, una tale considerazione della donna.

Nei tempi più remoti, prima della nascita della civiltà, si viveva in una situazione di assoluta barbarie e solo al corpo e alla forza fisica venivano attribuiti il massimo valore e la massima importanza.

Per tale ragione, «fisicamente considerata, la donna era indubitatamente e necessariamente inferiore per forza e per durata all’uomo»; senza alcun riguardo verso i suoi bisogni e i suoi desideri, essa fu trattata come una vera e propria schiava, costretta «alla più assoluta e servile obbedienza ai comandi dell’uomo»; a causa poi di questa sua debolezza fisica, non potendo resistere alla forza e alla violenza altrui, «chinò il capo, e accettò il giogo»4.

In seguito poi all’affermazione della civiltà, la sua situazione non cangiò, anzi, andò rinsaldandosi sempre più in lei la consapevolezza della propria sudditanza e schiavitù, e la passiva accettazione di quello stato di cose.

Difatti, rendendosi ben presto conto che, benché privata di tutti i diritti, veniva anche sgravata di tutte quelle responsabilità da cui invece veniva tormentato l’animo del suo signore e padrone, arrivò ad accettare la condizione impostale e a preferirla a quella del proprio marito: «rimasta per tanti secoli senza coltura intellettuale – riflette la Belgiojoso – scevra di ogni responsabilità negli affari sì pubblici come famigliari, essa non ambiva una eguaglianza che le avrebbe imposto doveri faticosi e gravi»5.

Allontanata da qualsiasi studio e da qualsiasi partecipazione agli affari pubblici cittadini, la donna rimase confinata all’interno delle quattro mura domestiche, intenta unicamente al ricamo, alla pittura e alle cure della casa e dei figli – tutte attività giudicate dall’uomo noiose e troppo inferiori alla sua naturale grandezza.

3 Ivi, p. 97.

4

Ibidem.

119 Presentata tale situazione, la Belgiojoso si chiede cosa succederebbe se le donne più dotate intellettualmente iniziassero a comportarsi in maniera diversa, se cioè cominciassero a rivolgere i propri interessi verso quegli studi considerati una prerogativa maschile e a prendere parte attiva nelle questioni riguardanti la politica e la società.

Come si comporterebbero allora i mariti nei confronti delle proprie mogli? Consentiranno loro di proseguire gli studi intrapresi e accetteranno, pazientemente, che esse realizzino i propri desideri di indipendenza e di affermazione personale e professionale? E, ancora, chi rispetterà invece quelle donne che, prive dello stesso ingegno delle altre, sembrano unicamente destinate a prendersi cura della famiglia e della casa? Come potranno esse rispettare se stesse?

Nel tentativo di trovare valide soluzioni per cambiare e migliorare la condizione femminile, la conclusione a cui Cristina giunge è, però, alquanto desolante e non offre alcuna speranza:

Da qualunque parte io mi volga per trovare una via di riformare radicalmente la odierna condizione delle donne, scorgo difficoltà così molteplici, così varie e così gravi, che quantunque codesta condizione mi sembri un avanzo della passata barbarie, e un indizio che di questa barbarie non siamo ancora intieramente liberi, non saprei mai alzare la voce per chiederne la riforma6.

La consapevolezza dell’impossibilità di mettere in atto delle riforme, le quali non portino inevitabilmente alla distruzione della società intera, è ben espressa da una serie di incalzanti domande, che Cristina rivolge a se stessa e al pubblico di lettori:

Che cosa avverrebbe della crescente generazione, se un gran numero di madri di famiglia sciolte per legge da ogni obbedienza al marito e da tutti i doveri, i quali sin qui loro incombevano, si accendessero subitamente di passione per quelli studi virili che potessero aprir loro la via ai pubblici officii, alle pubbliche carriere?

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120 Chi si sostituirebbe alla madre nelle cure e nella educazione dei figli, mentre la madre educherebbe sé stessa a vita diversa? Chi si sostituirebbe alla moglie nella fiducia del marito, nel governo della casa? A me tali riforme appaiono di una impossibile esecuzione7.

Emerge chiaramente dunque come, in questo saggio, la posizione della Belgiojoso si muova su un doppio binario: se da un lato infatti la scrittrice – nonostante denunci, a buon diritto, l’ingiusta condizione delle donne – nega qualsiasi possibilità di cambiamento, almeno limitatamente al periodo storico in cui scrive, dall’altro lato rimarca, con forza, il fatto che questo cambiamento sarebbe un diritto inalienabile delle donne, al quale invece, purtroppo, esse sono costrette ancora una volta a rinunciare per amore di un bene supremo, ossia la famiglia.

Ad aggravare questa già triste situazione, si aggiunge il fatto che quanto, in giovinezza, sembrava allietare l’esistenza di queste donne e costituire la loro stessa ragione di vita – come, ad esempio, la bellezza, la salute, l’amore dei figli e dei mariti – ben presto, con il progredire degli anni, è destinato a svanire miseramente e a manifestare tutto il suo carattere provvisorio ed effimero.

Affaticate infatti dalle gravidanze, dai dolori del parto e dal quotidiano provvedere alle faccende domestiche, perdono gran parte del fascino che, in precedenza, le aveva rese gradite ai propri mariti, i quali pertanto vanno alla ricerca di nuovi piaceri; i figli, su cui, da piccoli, le madri riversano il proprio affetto e le proprie cure, da grandi si allontanano inevitabilmente da loro per crearsi una famiglia, e, nel peggiore dei casi, dopo averne riconosciuta la condizione di inferiorità rispetto al padre, si avvicinano a lui, arrivando addirittura a disprezzare l’ignoranza materna. Tuttavia, nonostante l’umiliazione di vedersi private del loro amore, queste mamme continuano comunque a nutrire nei confronti dei figli una devozione vera, sincera e immutabile.

Ecco allora che si può ben comprendere come la condizione delle donne peggiori progressivamente con l’avanzare dell’età e a costoro non resti altra via che la rassegnazione.

121 Scrive, a tal riguardo, la Belgiojoso:

Tutte le gioie che colorano la gioventù della donna, si sono spente col progredire degli anni. La salute e la bellezza l’abbandonano prima d’ogni altra cosa; l’amore del marito le segue, sebbene egli le servi una certa amicizia che non vale a compensarla del perduto amore, della perduta ammirazione. I figli si scostano da essa che gli adora tuttavia. Incomincia però a temerli, e ad arrossire della propria inferiorità.

La società più non le abbada, se non forse per farla segno ai suoi spensierati motteggi.

Che cosa rimane alla donna invecchiata? Qual meraviglia se essa afferra con disperato sforzo quell’ombra della passata bellezza, se tenta difendersi contro l’età, se nulla trascura per conservare almeno l’aspetto della gioventù che è irreparabilmente sepolta negli anni? Come può essa rassegnarsi alla vecchiaia, se la vecchiaia le invola tutto ciò che la rese felice un giorno?

La condizione della donna non è tollerabile se non nella gioventù. Gli uomini che decisero della di lei sorte, non mirarono che alla donna giovane; la età matura di lei, né la vecchiaia non furono considerate né a queste si provvide. Quando la donna non procura più all’uomo né piaceri né divertimenti, a che pro occuparsene?8

Per un approfondimento sul rapporto, quasi totalizzante, che unisce indissolubilmente le madri ai propri figli, si cita il romanzo di Annie Vivanti, intitolato I divoratori e pubblicato, in traduzione italiana, nel 1911.

Il testo mi è sembrato rappresentativo della predisposizione materna ad annullare completamente se stesse, la propria vita, i propri sentimenti ed amori, le proprie passioni, per soddisfare i bisogni dei figli.

I figli a loro volta, o, meglio, le figlie in questo caso, divorano le proprie madri con il loro essere dei geni.

Così Valeria vota l’intera sua esistenza a fare in modo che la figlia Nancy coltivi la sua passione per la scrittura e la poesia, e diventi un genio: dopo aver perso il marito, morto di tisi, si mostra riluttante all’idea di amare un altro uomo, dal

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122 momento che «dal cuore di lei l’amore materno aveva scacciato ogni altro sentimento; e un solo pensiero la possedeva: il pensiero di proteggere Nancy»9.

A sua volta Nancy, che aveva dedicato tutta la sua giovinezza all’arte dello scrivere, dopo esser diventata mamma di Anne Marie, rinuncia ai suoi sogni di gloria in nome della figlioletta, la quale era invece un genio nella musica.

Una sera, in preda allo sconforto e alla rassegnazione, Nancy arrivò a confessare che, effettivamente, la maternità aveva totalmente cambiato la sua vita, quella vita che oramai stava passando rapida e inesorabile, senza che neanche se ne accorgesse:

una subitanea selvaggia eccitazione la invase, come una improvvisa folata di vento, come una fiamma impetuosa che le divampasse in cuore: e Nancy si coprì il volto con un gemito di creatura ferita.

Tutto il rimpianto per il suo ingegno sciupato, tutto lo sdegno contro l’avvilente esistenza, tutto l’odio per la povertà che la mutilava, la schiacciava, l’annichiliva, proruppe in quel lamento, tosto soffocato per non svegliare Anne Marie che dormiva nella stanza vicina10.

Riprendendo le fila del discorso sul saggio pubblicato dalla principessa Belgiojoso, ciò a cui la scrittrice anela, nella parte conclusiva del suo scritto, è che il nascente regno di Italia trovi presto le forze non solo per affermarsi come potenza politica e militare, ma anche per risolvere alcuni problemi interni di natura sociale, quale appunto la questione femminile.

Le pare pertanto di scorgere, in un avvenire non troppo lontano, un’Italia vincitrice su qualsiasi tipo di pregiudizio; un’Italia in cui gli uomini si impegnano a non esercitare nei confronti della propria moglie e della propria famiglia un dominio dispotico; un’Italia in cui le donne possono sentirsi libere di istruirsi, senza essere guardate con meraviglia e stupore, e senza rinunciare, comunque, ad adempiere a quei doveri che sono di loro competenza.

Soltanto quando la società, dunque, riuscirà a considerare le donne delle «creature ragionevoli»11 e avrà inteso che l’essere una donna istruita può coesistere

9

Annie Vivanti, I divoratori, Verona, Mondadori, 1949, p. 47.

10 Ivi, p. 190.

11

123 con l’essere anche una buona moglie e una brava madre, devota alla propria famiglia, e quando sempre più donne eccezionali sapranno emergere dalla moltitudine e far sentire la propria voce in difesa dei loro diritti e della loro emancipazione, ecco che solo allora, cioè solo nel momento in cui una siffatta società, poggiante su tali solide basi, si sarà affermata e consolidata, le donne potranno finalmente vivere libere e felici.

Per questo motivo, Cristina rivolge un invito alle donne del futuro, affinché non si scordino mai delle incessanti fatiche e umiliazioni che altre donne, prima di loro, dovettero affrontare in nome di quella libertà di cui esse, allora, godranno:

Vogliano le donne felici ed onorate dei tempi avvenire rivolgere tratto tratto il pensiero ai dolori ed alle umiliazioni delle donne che le precedettero nella vita, e ricordare con qualche gratitudine i nomi di quelle che loro apersero e prepararono la via alla non mai prima goduta, forse appena sognata, felicità12!

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