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DUE CRITICHE: L'INTERSOGGETTIVITÀ E IL LINGUAGGIO

§12. Introduzione

A questo punto del nostro cammino, né Darwin, né Wright, né Mead, che pure ci sono stati utilissimi nel delineare i primi passi di un percorso complesso, possono più esserci d'aiuto. Ciò che ora si tratta di fare è comprendere quali sono gli snodi problematici lasciati intoccati dai nostri autori, per iscrivere il problema della nascita dell'autocoscienza in un percorso che sia veramente genealogico, e che pertanto non lasci inevaso alcun problema. Tutti e tre i nostri ‘accompagnatori’ (chiamiamoli così) presuppongono alcuni elementi che non possiamo accettare: Darwin la gestualità wunditianamente intesa117, Wright le sue spiegazioni troppo ingenue legate all'aumento della capacità cranica118 e,

da ultimo, Mead119, che, in particolare, ha lasciato aperto il problema

dell'intesoggettività, presupponendola ma non spiegandola nella sua genesi, come appunto si tratterebbe di fare per raggiungere una comprensione genuinamente filosofica del problema della genesi dell'uomo. Si potrebbe dire che abbiamo risolto il problema di Darwin con Wright, e quello di Wright con Mead; ma quelli (poiché sono più d'uno) di Mead rimangono, appunto, insoluti e, come vedremo, non sarà facile uscirne (dire “risolverli” sarebbe fuori luogo).

Ciò che si tratta dunque di compiere in questo capitolo è un ulteriore passo avanti, che si configura in realtà più come un ulteriore passo indietro: siamo alla ricerca di uno strato di analisi ancora più originario di quello a cui siamo pervenuti finora. A questo scopo, prenderemo principalmente in considerazione due problemi: quello della ‘circolarità linguistica’ e quello, appunto, dell'intersoggettività. In entrambi i casi, le questioni che abbiamo deciso di trattare qui sorgono dallo stesso Mead, che sembra non avvedersi (e sicuramente non comprende) la reale profondità del tema dell'intersoggettività e di quello della circolarità linguistica. In particolare il secondo tema assume nella storia della filosofia molteplici maschere, venendo infine ad assumere, nella riflessione di Carlo Sini, della quale ci gioveremo a più riprese, la figura

117 Cfr. supra cap. I. 118 Cfr. supra, cap. II. 119 Cfr. supra, cap. III.

«Non c'è un luogo della verità dove si debba andare a cercarla costi quel che costi, anche spezzando i rapporti umani e i legami della vita e della storia. Il nostro rapporto con la verità passa attraverso gli altri. O andiamo verso la verità con loro, o non è verso la verità che andiamo.»

«L'effetto retroattivo del vero: l'esperienza del vero non può trattenersi dal proiettare se stessa nel tempo che l'ha preceduta. Spesso non si tratta che di un anacronismo e di un'illusione, ma [...] si tratta di una proprietà fondamentale della verità.»

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dello stacco retroflesso, sulla quale insisteremo anche nel prossimo capitolo. A farci da guida, a volte sotterranea, a volte esplicita, in questa nostra indagine dei ‘punti insoluti’ delle analisi meadiane sarà quel capolavoro di Maurice Merleau-Ponty che si intitola La prosa del mondo, che non solo tratta di entrambi i problemi con straordinaria profondità e penetrazione, per quanto succintamente, ma che nelle sue ultime pagine (l'opera è, purtroppo, incompiuta) arriva a individuare proprio in quel gesto particolare che è la parola (e quindi, la voce) un'uscita adeguata dal problema dell'intersoggettività, e nello ‘stare filosoficamente consapevole’ all'interno del circolo del linguaggio una risposta pertinente al primo problema: due punti sui quali insisteremo nel capitolo VI. Al suo fianco, anche se spunta esplicitamente solo nell'esergo a questo capitolo, avremo un altro scritto di Merleau-Ponty, Elogio della filosofia120, che tratta spesso di problemi similari con altrettanta profondità.

Per quanto riguarda il primo punto, è risultato evidente nel corso delle nostre analisi il fatto che tutte le posizioni filosofiche considerate non riescono a (e anzi, per la maggior parte non tentano neppure di) dar conto della circolarità del linguaggio, una problematica che arriva poi ad assumere la ‘figura’ dell'azione retrograda del vero121. In particolare è proprio Mead, che

così argutamente ci ha guidato nel ‘superamento’ di Darwin e Wright, a rimanere poi impigliato in questo paradosso. Egli si preoccupa infatti di non cadere nello stesso errore dei suoi predecessori, e cioè di presupporre nei due cani che si azzuffano la presenza di ‘menti’ catapultatesi nel cervello degli animali non si sa da dove e non si sa come. Non si preoccupa affatto, però, della sua mente, con la quale osserva e descrive.

Che questa mente sia di fatto presupposta alla descrizione è un pensiero che non lo coglie e non lo turba. Non vede perciò l'effetto retrogrado che questa mente produce su ciò che descrive. Le parole, cioè, come lui dice, i simboli significativi, che egli stesso usa, descrivono la ‘realtà’ dal loro punto di vista, cioè in quanto effetti divenuti (‘evoluti’) del gesto della voce e della sua interiorizzazione sociale. Questo lo sa benissimo e anzi nessuno, si potrebbe dire, lo sa meglio di lui. Ma se ne dimentica e non si fa caso. Prende i simboli significativi (“cane” ecc) e fa loro corrispondere delle ‘realtà’ in sé e per sé che sarebbero l'esatto corrispondente ‘oggettivo’ di quei simboli122.

Le origini sono rozze. Ma allora Mead deve anche ammettere che il cane, il bambino, l'uomo, la mente e così via sono oggetti che nascono a loro volta all'interno di gestualità primitive per le quali queste ‘cose’ letteralmente non ci sono. Esse compaiono solo al livello di quei gesti che sono diventati simboli significativi e per quei soggetti che da questi gesti sono formati e

120 M. Merleau-Ponty, Éloge de la philosophie, Éditions Gallimard, Paris 1953, trad. it. Elogio della

filosofia, SE, Milano 2008.

121 Abbiamo criticato questo nei capitoli precedenti per tutti i tre autori, poiché la sua azione è

particolarmente avvertibile in un certo ‘naturalismo ingenuo’ o ‘realismo ingenuo’ da cui né Darwin, né Wright, né Mead riescono ad uscire, pur con tutte le differenze e le distinzioni che questi tre autori richiedono.

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È interessante notare come il problema della circolarità, nella storia della filosofia, non è certo poco frequentato, anzi: numerosi sono gli autori che, per quanto diversamente, se ne sono resi conto. Un esempio brillante di questo (e pertinente al nostro cammino, visto lo stesso Merleau-Ponty si è molto interessato a questo autore) ci viene da Montaigne, che nella ben nota Apologia di Raymond Sebond scrive:

per giudicare le apparenze che riceviamo dagli oggetti, ci occorrerebbe uno strumento giudicatorio; per controllare questo strumento, ci occorre una dimostrazione; per controllare la dimostrazione, uno strumento: eccoci in un circolo vizioso. Poiché i sensi non possono chiudere la nostra disputa, essendo essi stessi pieni d'incertezza, bisogna che lo faccia la ragione; nessuna ragione potrà stabilirsi senza un'altra ragione: ed eccoci riportati indietro fino all'infinito124.

Spieghiamoci meglio: se, come ormai è chiaro, comprendere la genesi dell'umano significa poi non molto altro dal comprendere la genesi del linguaggio (della ragione, direbbe Montaigne) e di quel ‘simbolo significativo’ che ha così ben tematizzato Mead, non possiamo non tener conto del fatto che a parlare del linguaggio è il linguaggio stesso125, che tenta di assumere un punto

di vista ‘al di fuori di se stesso’, con una assunzione ancora propriamente metafisica che è di fatto impossibile; come scrive Merleau-Ponty, «sarebbe piacevole lasciare la situazione confusa e irritante di un essere che è ciò di cui parla e guardare il linguaggio come se l'essere non vi fosse implicato, dal punto di vista di Sirio o dell'intelletto divino, che è senza punto di vista»126.

Infatti, «volendo pensare il linguaggio, vale a dire ridurlo a cosa davanti al pensiero, rischiamo sempre di prendere per un'intuizione dell'essere del linguaggio i procedimenti coi quali il nostro linguaggio cerca di determinare l'essere»127. Il linguaggio deve invece «cercare di possedersi [...], di parlare della

123 Ivi, p. 19.

124 M. de Montaigne, Essays, trad. it. a cura di F. Garavini, Saggi, 2 voll., Adelphi, Milano 2005,

p. 800.

125 Noi che scriviamo queste pagine, giova ricordarlo, siamo un'autocoscienza che cerca di

tracciare, dal proprio punto di vista (in quanto stacchi retroflessi della pratica della scrittura, direbbe Sini), la genesi dell'autocoscienza stessa. Il paradosso è evidente, e come si vedrà, non si tratta di scioglierlo, ma piuttosto di imparare ad abitarlo, ossia di comprendere un'etica di nuovo genere, vera e propria etica del sapere.

126 M. Merleau-Ponty, La prosa del mondo, cit., p. 2. Il principale spunto polemico è qui

naturalmente Husserl, e in particolare il testo delle Ricerche Logiche. Merleau-Ponty ripete qualche pagina dopo: «Husserl dimenticava una cosa: [...] che l'elenco che egli fornisce delle costruzioni di significato possibili porta il marchio del linguaggio che lui stesso parlava» (p. 50).

127 Ibidem. Poco oltre, più estesamente, Merleau-Ponty scrive: «se il linguaggio è paragonabile

a quel punto dell'occhio, di cui parlano i fisiologi, che ci fa vedere ogni cosa [in realtà probabilmente qui Merleau-Ponty si riferisce al cosiddetto ‘punto cieco’, un punto in cui l'occhio non riesce a vedere, per cui la parte mancante è normalmente ricostruita in via ipotetica dal cervello. Curiosamente, Peirce fa lo stesso esempio a proposito dello stesso

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parola, anziché di usarla soltanto»128; ovvero «il miglior metodo per conservare

al linguaggio il significato prodigioso che si è trovato in lui non è quello di tacere129, di rinunciare alla filosofia e di tornare alla pratica immediata del

linguaggio: è così che il mistero deperirebbe nell'assuefazione. Il linguaggio rimane enigmatico solo per chi continua a interrogarlo»130. Ciò che si tratta

piuttosto di far è di ‘star dentro’ a questo circolo, tematizzandolo e comprendendolo, poiché uscirne non è possibile. Per tentare di capire questa questione ci avvaleremo delle considerazioni di Martin Heidegger131, filosofo che è già inevitabilmente evocato dall'uso della parola “circolo” (ci riferiamo naturalmente in particolare al §32 di Essere e tempo) ma anche di un altro pensatore, che pur in modo diverso, era ben consapevole del problema: Ludwig Wittgenstein132. Spazio non marginale (e, anzi, fondamentale per comprendere adeguatamente il problema) sarà dedicato anche alla questione del foglio- mondo in Peirce133 che, come vedremo, non è che un altro nome, un'altra

figura, dello stesso problema: ci sarà utile soprattutto per capire come stare nel circolo, comprensione che attingeremo dall'etica della scrittura di Carlo Sini.

L'altra grande questione che ora ci sta di fronte riguarda l'intersoggettività: per questa, non potremo che partire ancora una volta da una critica della posizione meadiana134, la quale assume indebitamente la comunità e

l'essere-insieme dell'uomo come un dato di fatto che non richiede ulteriori analisi. Come vedremo, è questo un punto particolarmente scottante, che ritorna in tutta la produzione filosofica successiva, e in particolar modo in quella “corrente post-fenomenologica’ che ha conosciuto le Meditazioni Cartesiane di Husserl135, testo esplicitamente dedicato a questa problematica. Considereremo dunque l'impostazione husserliana, la quale, pur essendo

problema: cfr. Scritti scelti, cit., p. 352], esso evidentemente non saprebbe vedere se stesso e non lo si può osservare [...]. Non rimane che ‘pensarlo di sbieco’, ‘mimare’, o ‘manifestare’ il suo mistero [...]. Poiché ciò di cui parleremo non è colui che ne parla, ciò che diremo non ne darà una definizione sufficiente. Nel momento in cui crediamo di afferrare il mondo come se fosse senza di noi, non afferriamo più il mondo perché siamo nel mondo per afferrarlo. Nello stesso modo rimarrà sempre, dietro i nostri propositi sul linguaggio, più linguaggio vivente di quanto i nostri propositi riusciranno a inchiodarne sotto il nostro sguardo. Tuttavia la situazione sarebbe senza via d'uscita, questo movimento di regressione sarebbe vano, e con lui la filosofia, solo se si trattasse di spiegare il linguaggio, di decomporlo, di dedurlo, di fondarlo o di compiere qualsiasi operazione che ne derivi la trasparenza da una fonte esterna. In questo caso si avrebbe sempre una riflessione che in quanto tale, dunque parola, dunque ciò che pretende di avere per oggetto, sarebbe di principio incapace di ottenere ciò che cerca» (pp. 124-125). Ma del resto, come vedremo immediatamente, non è questo ciò che si tratta di fare.

128 Ivi, p. 112.

129 Ricordiamoci dell'ultima proposizione, la 7, del Tractatus di Wittgenstein: «su ciò, di cui non

si può parlare, si deve tacere». Cfr. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Toutledge and Kegan Paul, London 1961, trad. it. Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 1964, ora 1998, p. 109. Considereremo questo nel §13.

130 M. Merlau-Ponty, La prosa del mondo, cit., p. 125. 131 Cfr. infra, §14.

132 Cfr. infra, §13. 133 Cfr. infra, §15. 134 Cfr. infra, §16. 135 Cfr. infra, §17.

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filosoficamente più “avvertita’ di quella di Mead (che non ha conosciuto a fondo i grandi sistemi dell'idealismo tedesco) comunque non riesce a risolvere soddisfacentemente il problema del solipsismo. In una situazione simile si trova Heidegger, che nuovamente ci sarà d'aiuto e di inspirazione136: sia detto per inciso, proprio da questa questione sono partite certe interpretazioni che hanno creduto (forse a ragione, non è questo il problema che abbiamo davanti ora) di ritrovare nel suo stesso pensiero le ragioni della sua adesione al nazionalsocialismo. In conclusione, considereremo una delle posizioni più radicali della contemporaneità per quanto riguarda questa tematica, quella di Jean-Luc Nancy, alla quale accenneremo brevemente137, ma che, come

vedremo, non sarà esente da una critica di indebita presupposizione, al pari delle altre. Per risolvere i nostri problemi, non ci rimarrà poi che attendere il capitolo VI, dove si tratterà di trovare una risposta alla questione dell'intersoggettività (che sarà vista sorgere, com'è ormai facile aspettarsi, dalla gestualità) e si imparerà a “dimorare nel linguaggio’, ben consci dei suoi limiti e delle sue illusioni prospettiche.