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§28. Introduzione

Eccoci arrivati al punto conclusivo del nostro cammino, punto che è al contempo anche un nuovo inizio: ciò che si tratta ora di fare, come abbiamo in vario modo anticipato nei capitoli precedenti, è di mettere a frutto tutte le indicazioni che i nostri svariati compagni di viaggio (Darwin, Wright, Mead, Wittgenstein, Heidegger, Peirce, Merleau-Ponty, Husserl, Creuzer, Sini, Derrida e altri) ci hanno consegnato, in modo da poter delineare una ‘genealogia dell'autocoscienza’ che sia filosoficamente consapevole del suo stesso domandare, e che quindi eviti di cadere negli errori che già sono stati compiuti su questa strada, sia da parte del naturalismo ingenuo (per esempio darwiniano), sia da parte dello spiritualismo, che non spiega nulla col suo presupporre l'esistenza del ‘fantasma nella macchina’, come diceva Gilbert Ryle521.

Dovremo, dunque, ritrovare quella ‘immagine ancestrale’ della coscienza di cui già abbiamo parlato, per tentare di coglierne, appunto genealogicamente, le tappe della formazione, senza affrettare i tempi (ossia, fuori di metafora, senza sperare di ritrovare l'intelligenza di Newton a un passo da quella del suo cane) e senza cascare nelle pretese impossibili dello scienziato (‘dedurre’ l'intelligenza di Newton da quella del suo cane), ma anzi comprendendo l'impossibilità costitutiva di ogni domanda relativa all'origine, impossibilità che non si configura però come misticheggiante richiamo al tacere, sulla scorta di Wittgenstein, o a un dire ciò che si vuole tanto-basta-che- sia-innocuo, sulla scorta di certi heideggerismi di maniera molto di moda; proprio al contrario, invece, noi ci dirigeremo al parlare e anzi, ancora meglio, allo scrivere, intesi come pratica etica.

Ci sentiamo rincuorati in questa ‘impossibile possibilità’ per il fatto che

521 Il riferimento è ovviamente al notissimo testo di Ryle The Concept of Mind, Hutchinson,

London 1949, trad. it. Il concetto di mente, Laterza, Roma – Bari 2007. Citiamo questo autore non a caso: pur con tutti i limiti della sua importazione teoretica (e della sua scrittura filosofica...), egli ha messo bene in evidenza la non-originarietà e la costitutiva ingenuità del fare ricorso a categorie proprie del senso comune (come ‘volontà’, ‘immaginazione’, ‘intelletto’ ecc.) in una indagine seria e accurata, filosofica o scientifica che sia, della mente umana: egli ha propriamente smascherato la superstizione del significato di quelle parole. Inoltre, si noti come curiosamente Merleau-Ponty usi termini simili quando dice che «l'animazione del corpo non […] consiste nella discesa in un automa di uno spirito venuto dal di fuori» (M. Merleau-Ponty, L'Œil et l'Esprit, Éditions Gallimard, Paris, 1964, trad. it. L'occhio e lo spirito, SE, Milano 1989, p. 20).

«L'essere del mezzo (Zeug), la cui essenza non si trova nella sua sussistenza oggettiva, ma nel suo essere a disposizione della mano, che fa sì che sia già sempre trasceso nel lavoro»: questa è la più decisiva figura dell'umano.

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quell'origine indicibile è proprio ciò che ci origina, e quindi noi con essa abbiamo già da sempre qualcosa come un collegamento (ci abbiamo già da sempre fatto i conti, potremmo dire), un ponte che se correttamente percorso (forse bisognerebbe dire, con una parola dai molteplici riflessi, abitato) può fornirci indicazioni e suggestioni preziose: in noi ne va sempre dell'origine, si potrebbe dire parafrasando Heidegger.

Siamo già da sempre costitutivamente immersi nelle nostre pratiche di vita, nei loro molteplici intrecci, e dobbiamo riuscire a non esserne agiti, ma piuttosto dobbiamo agirle noi stessi, nella consapevolezza di abitare un circolo che non è vizioso, ma – piuttosto – vitale e fondativo di qualsiasi pratica filosofica522.

Potremmo esplicitare il compito che ci aspetta seguendo le parole di Carmine Di Martino:

il tema della genesi costituisce una sorta di approdo destinato di una filosofia fenomenologica dell'esperienza, la quale, tuttavia, a differenza di qualsivoglia indagine empirica o scientifica, non può evitare di tematizzare il proprio ‘fare’ e di chiarire il senso della propria ricostruzione, di ciò che essa rinviene come ‘stato nascente’. In quanto include questa riflessione su se stessa, una fenomenologia della genesi si pone come una genealogia.

Nella genealogia si realizza una retrospezione che mette capo a una storia, a una ricostruzione, in cui si ha di mira l'antecedente (apertura) di quella conseguente (emergenza) che noi siamo (ad esempio, del linguaggio che parliamo)523.

Come scrivevamo, dunque, punto fondamentale di una indagine che si voglia fenomenologica e filosofica è, in contrasto con la prassi scientifica524, il

522 Stiamo ripercorrendo le conclusioni del nostro capitolo IV, b. 523 C. Di Martino, Segno, gesto, parola. Da Mead a Merleau-Ponty, cit., p. 10.

524 Come abbiamo comunque tentato di fare fino adesso, in modo esplicito o meno, il

confronto con i testi scientifici rimane costante stimolo per il nostro percorso. In questo senso, nel corso di questo capitolo ci gioveremo di un confronto(\scontro) con il testo di Michael C. Corballis Dalla mano alla bocca. Le origini del linguaggio (Cortina, Milano 2008; ed. originale From Hand to Mouth. The Origins of Language, Princeton University Press, Princeton 2002). L'autore, docente di psicologia dell'Università di Auckland, in Australia, e membro del Centro di ricerca in scienza cognitiva presso lo stesso ateneo, cerca, in un mirabile lavoro di sintesi tra neuroscienze, etologia, psicologia evoluzionistica e cognitiva, scienze del linguaggio ecc., di mostrare che le origini del linguaggio sono gestuali. Nelle parole dell'autore – che commenteremo solo dicendo che sono una perfetta sintesi dei suoi obiettivi e della sua impostazione, anche se molto ci sarebbe da contestare): «come si sono formate le relazioni tra questi suoni arbitrari che chiamiamo parole e la materia del mondo reale – un mondo reale messo a nostra disposizione largamente grazie alla vista e al tatto piuttosto che attraverso l'udito? Sembra quasi inevitabile che questa relazione abbia implicato il gesto» (Ivi, p. 60). Interessante notare, per ‘giustificare’ la scelta di questo testo come testo ‘di confronto’, sottolineando i punti di contatto tra i rispettivi percorsi, che tra i suoi ‘precedessori’ egli ritrova quei Darwin, Condillac e Wundt dei quali ci siamo già a vario titolo occupati o di cui dovremo occuparci; inoltre, tra i riferimenti primari c'è lo studio della lingua dei segni, per la quale il riferimento principale è il testo formidabile di O. Sacks, Vedere voci. Un viaggio nel mondo dei sordi, Adelphi, Milano 1990 (ed. originale Seeing Voices: a Journey into the Land of the Deaf, University of California Press, Berkeley 1989), preso in

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far questione della sua stessa pratica, ossia riconoscere che noi che poniamo la domanda sull'origine siamo il risultato di questa origine stessa. Ecco cosa dice in proposito Carlo Sini:

chi è ‘colui’ che domanda dell'origine? Lo scienziato salta tale domanda. In generale, in base ai modi della sua pratica, egli vuol sapere “come è fatto il mondo” e “come accadono le cose” (per esempio come accade l'uomo, il linguaggio, l'autocoscienza e simili)525.

È evidente che uno sguardo filosoficamente atteggiato non può accontentarsi del domandare dello scienziato. Il filosofo può e deve526 ricercare

una consapevolezza che faccia questione dello stesso sguardo interrogante. In particolare, si tratta di capire a fondo la radicalità del ‘pensiero delle pratiche’ come lo chiama Carlo Sini: parlare dell'origine in tutte le sue molteplici figure (appunto, il linguaggio, l'autocoscienza, il significato...) mette in mostra l'aporia in cui si trova ogni domandare genealogico, e in particolare qualsiasi impostazione diretta e ingenua del problema. Chiedersi dell'origine dell'autocoscienza come fa Darwin, infatti, significa pensare che sia possibile recuperare il senso (il significato) di eventi che hanno essi stessi dato origine al significato: ma questi eventi di senso sono presi in intrecci di pratiche nei quali non esisteva alcun ‘oggetto’ che si potesse chiamare “significato” (perché è proprio nel suo evento che esso emerge), intrecci ormai inevitabilmente trascorsi. La scienza si configura (nel senso proprio di configura se stessa) come una super-pratica onnipresente: è chiaro che possiamo parlare del big-bang nei termini in cui lo fa l'astronomia contemporanea solo a patto di fingere che una navicella in grado di fare viaggi temporali e contenente scienziati del XXI secolo si apposti da qualche parte (non si sa bene dove, visto che l'intero universo sarebbe nato proprio dall'esplosione), e dà lì, oggettivamente (per noi oggi), registri gli eventi527. Bisogna invece comprendere che ogni pratica di vita, ogni

intreccio di pratiche, ridefinisce a suo modo la soglia dell'evento e lo stacco del suo stesso operare. Non vi è un big-bang là dove non ci sono astronomi per vederlo, così come, secondo l'esempio già diverse volte richiamato di Merleau-

considerazione anche da Sini in Distanza un segno. Semiotica e filosofia (Cuem, Milano 2006), che, come vedremo, ci accompagnerà in molti punti. Il testo di Corballis, ad ogni modo, è ricco di informazioni interessanti e intuizioni più o meno felici. Numerosissimi sarebbero naturalmente i punti in cui si potrebbe sottolineare la nostra vicinanza alle conclusioni di Corballis, e altrettanti quelli in cui si potrebbe segnalare la nostra discrepanza: per i nostri scopi (che non sono certo quelli di una disamina, o di una critica globale, del testo) ci limiteremo a segnalare i passi particolarmente interessanti ai fini del nostro percorso.

525 C. Sini, L'origine del significato. Filosofia e etologia, Cuem, Milano 1999, p. 66.

526 Ricordiamoci questo fatto fondamentale: non è che lo scienziato sia un fannullone, e quindi

non abbia voglia di mettersi a pensare alla circolarità della sua pratica. Tutt'altro: egli non può porre questo problema, perché tutta l'efficacia della scienza deriva dall'aver messo in parentesi questi problemi filosofici.

527 Proprio questa è, del resto, la posizione di Corballis, esposta con una ingenuità disarmante:

«tutto indica che i primi Homo sapiens vissuti circa 170mila anni fa erano essenzialmente moderni dal punto di vista morfologico e, presumibilmente, già capaci di capire la fisica delle particelle o i drammi di Shakespeare se solo avessero avuto la possibilità di farne esperienza» (M. C. Corballis, Dalla mano alla bocca, cit., pp. 181-182).

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Ponty (ma anche di Mead, che come abbiamo visto sottoscriverebbe appieno): non c'è cibo là dove non c'è un animale che lo mangi.

Ma cosa può allora fare il filosofo? Come si può parlare dell'origine dell'uomo senza indebitamente presupporre un mondo di ‘significati in sé’ ossia senza cadere nella superstizione del significato? Vediamo ancora Carlo Sini, in un'altra parte del testo già citato:

va da sé che […] il ‘lavoro genealogico’ è a sua volta un modo per ridisegnare l'origine, attraverso un percorso che […] mostrerebbe la permanente impermanenza insita nel nostro modo di praticare ciò che chiamiamo linguaggio.

La genealogia del linguaggio avrebbe cioè lo scopo di mostrare per questa via, per questo ‘calvario’, come si creano le condizioni e le componenti ‘corporee’ per lo stacco del significato linguistico così come ora lo intendiamo.528

Ora lo sappiamo, anche alla luce di alcune considerazioni che avevamo svolto, in via preliminare, nell'introduzione al capitolo precedente529: non

bisogna cercare l' ‘origine’ in situazioni o stati di cose che precederebbero il significato stesso (stati di cose insignificanti ci possono essere solo per differenza da ciò che significa, da ciò di cui importa)530: se ci volgiamo

all'indietro con lo sguardo newtoniano-darwiniano (oggi forse si dovrebbe dire “einsteiniano”) cerchiamo la materia inerte da cui avrebbe origine (per caso) la mente umana, ma se ci volgiamo indietro con sguardo genealogico non possiamo vedere altro che segni e significati, ossia i risultati di una interpretazione, ossia ancora i risultati di quell'origine di cui noi stessi siamo gli effetti.

Bisogna invece metter a fuoco che l'evento dell'origine del significato (che è, ormai lo si è ben capito, il punto nodale della genetica dell'autocoscienza) è costitutivamente differente dal significato dell'evento531

(dell'origine del significato), ma noi possiamo sempre e solo stare in questo; ma questo, a sua volta, sottostà agli intrecci di pratiche che di volta in volta rendono possibile il significato. Come si vede, ciò che qui si dice è un circolo complesso, e lo scienziato certo non può farsene carico, a meno di mandare a monte i suoi efficacissimi risultati. Ma il filosofo può e deve fare proprio questo: ed è ciò che cercheremo di fare da qui alle prossime cento pagine circa. Cerchiamo, ora e in via preliminare, di capire il costitutivo essere-in- errore di qualsiasi pratica, situazione (forse spiacevole) cui la natura stessa del significato porta inevitabilmente: il significato infatti non può fare altro che

528 Ivi, p. 53. 529 Cfr. supra, §20.

530 Su questo cfr. anche la nostra critica a Creuzer alla fine del §22.

531 Si noti che quanto stiamo dicendo ha certo degli intrecci con la nozione di differánce

teorizzata da Derrida, ma le due cose non sono sovrapponibili. Su questa nozione in Derrida cfr. il già citato La voce e il fenomeno, introduzione al problema del segno nella fenomenologia di Husserl, ma anche più direttamente il saggio Differánce, in Id, Margini della filosofia, Einaudi, Torino 1996.

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trascolorare in nuovi sensi o contesti di senso, e così facendo mostrare il carattere metaforico delle verità; qui, per quanto forse scontato, il riferimento obbligatorio è allo straordinario (seppure non tra i più noti) scritto di Nietzsche Su verità e menzogna in senso extramorale, dove si legge:

che cos'è dunque la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria […], sono monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete532.

Con riguardo particolare all'origine, lo ‘scivolare’ proprio del significato comporta «l'inarrestabile trasferimento di senso della verità nei suoi significati»533 e «l'originarsi sempre nuovo dell'origine»534, ossia il metter-si in figura dell'umano. È nell'infinità delle sue figure che il significato dell'uomo transita incessantemente: ogni tentativo di fermarlo (di scriverlo, di de-scriverlo) è già un nuovo transito avvenuto. Anche le figure dell'umano che cerchiamo nel nostro percorso535, forse si potrebbe dire le sue prime figure, non sono altro che ‘artefatti narrativi’536.

Notiamo anche che solo all'interno di questa stessa origine, e cioè nello ‘staglio’ del significato, anche lo stesso supporto dello staglio emerge nella sua insignificanza di mero supporto: in altre parole, è per differenza dal significato che nasce l'insignificante, o, come è già stato detto più volte, è per differenza dallo spirito che nasce la materia. Concludiamo questo paragrafo introduttivo con un importante passo di Sini, che in qualche misura riassume le ‘cautele’ di cui dobbiamo farci carico nel nostro percorso:

[…] non ha senso cercare l' ‘origine’ in situazioni o stati di cose che precederebbero il significato (il mondo animale, la chimica organica, la chimica inorganica, il DNA e simili). Sebbene, bisogna aggiungere, si sia sempre di nuovo presi da questo abbaglio, motivato dal fatto per cui noi sappiamo che qualcosa che ora c'è non c'era prima e che ciò che c'è deriva sempre da qualcos'altro […]. Pensare l'origine del significato a partire dall'insignificante (far derivare lo spirito dalla materia, la mente dal cervello e simili) è un

532 F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, in Id., La filosofia nell'epoca tragica dei greci e

scritti 1870-1873, Vol. III, tomo II delle Opere di Friedrich Nietzsche, ed. it. di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1973, ora 1991, p. 233.

533 C. Sini, Figure dell'enciclopedia filosofica “Transito Verità”. Vol. 3: L'origine del significato. Filosofia ed

etologia, cit., p. 71.

534 Ibidem.

535 Notiamo, a scopo chiarificatorio, che le figure dell'umano non coincidono, come si

potrebbe pensare, coi nostri paragrafi: una suddivisione di questi tipo non avrebbe senso, poiché avrebbe presupposto il poter ‘congelare’ una figura. In realtà le figure sfumano sempre l'una nell'altra, perché ciascuna sfuma nell'infinità di pratiche in continuo mutamento su cui si fonda.

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atteggiamento che non si avvede che l' ‘insignificante’, la ‘qualità materiale del segno’, sono percepiti come tali solo a partire dalla figura dello STACCO (cioè dalla figura di un significato)537.

Per rianimare la dinamica dell' ‘origine’ (della cosiddetta origine del linguaggio – ora sappiamo cosa pensare di ogni problema impostato in questo modo diretto e ingenuo e perciò irresolubile), dovremmo recuperare il senso di quegli eventi, presi in contesti intrecciati di pratiche entro le quali non esisteva alcun ‘oggetto’ che potesse identificarsi con ciò che oggi chiamiamo “linguaggio”538.

§29. In principio è l'azione

Constatate queste difficoltà non eliminabili sul nostro percorso, non ci rimane che cercare un inizio, un “piccolo inizio”, si potrebbe dire con riferimento al grande Husserl. E in effetti proprio in quelle conferenze delle quali il filosofo tedesco parlava in questi termini anche noi forse possiamo trovare il nostro ‘piccolo inizio’, laddove egli scrive che «in principio è l'azione»539, riprendendo,

com'è noto e non a caso, le identiche parole che Goethe mette in bocca a Faust nell'interpretare l'incipit del Vangelo di Giovanni: «in principio era il Verbo» (in principium erat Verbum). Può essere interessante per i nostri scopi, e non mero vezzo erudito, riportare il brano goethiano: ne interpreteremo giustamente il senso se ci focalizzeremo sul particolare procedere che esso mette in mostra e per il riferimento al trascendente, a cui va dato nuovo ‘peso’. A parlare è dunque proprio Faust:

[…] Impariamo a dar peso al trascendente, che mai come nel Nuovo Testamento rifulge di bellezza e dignità.

Sento l'impulso ad aprire il testo antico, e finalmente con cuore sincero

a tradurre il sacro originale nel mio amato tedesco.

Apre un volume e si mette all'opera Sta scritto: “In principio era la parola!”

Qui già m'impunto. Chi mi aiuta a proseguire? No, porre così in alto la parola540

non posso. Devo tradurre in altro modo, se mi darà lo spirito la giusta ispirazione. Sta scritto: In principio era il pensiero. Medita bene la prima riga,

la tua penna non abbia troppa fretta! È il pensiero che foggia e crea ogni cosa?

537 C. Sini, L'origine del significato, cit., p. 51. 538 Ivi, p. 53.

539 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, cit., p. 183. 540 Noi potremmo dire: “no, porre così presto la parola non posso”.

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Dovrebbe essere: In principio era la forza! Eppure mentre sto scrivendo questo,

già qualcosa mi avverte che non me ne accontento. Lo spirito mi aiuta! Di colpo vedo chiaro

e scrivo con fiducia: In principio era l'atto! [Im Anfang war die Tät]541

Che senso ha il riferimento di Husserl (il senso che ha l'espressione in Goethe lo lasciamo agli esperti di letteratura tedesca)? Ma soprattutto, che senso può avere ora, per noi, prendere come principio l'azione?

Per Husserl, com'è noto, il riferimento consente l'aprirsi del campo teoretico d'indagine sul mondo-della-vita: come a dire che l'azione ci consente, per così dire, di indagare quel campo di esperienza che esiste prima di qualsiasi arrivo alla coscienza e al linguaggio, il campo dell'esperienza ‘pura’. Nel nostro caso (noi non possiamo certo dire così, essendo il nostro un problema genealogico e non genetico), più coerentemente coi problemi che ci poniamo, l'azione può essere interpretata come quella soglia comune all'uomo all'animale da cui è possibile partire per comprendere lo stagliarsi della loro differenza. In altre parole: caratteristico tanto dell'uomo quanto dell'animale è il poter agire sul mondo, col mondo e nel mondo: vedremo tornare più avanti questa frase542.

Si faccia attenzione: in ciò che stiamo descrivendo, nella «sfera primordinale»543 (rubiamo questo termine a Husserl, che la usava però in

tutt'altro modo), non c'è affatto di qua un mondo e di là l'animale o l'uomo che agisce; quello che c'è è il mondo della vita, appunto, il ‘tutto indistinto’ cui ci si