• Non ci sono risultati.

§42. La voce

756 M. Merleau-Ponty, Segni, cit., p. 65.

757 Il riferimento è a Peirce. Cfr. C. Sini, Scrivere il fenomeno, cit., p. 182. 758 M. Merleau-Ponty, La prosa del mondo, cit., p. 129.

Diego D’Angelo, La genesi dell’autocoscienza

Nóema – Numero 3, anno 2012 – Ricerche http://riviste.unimi.it/index.php/noema

197

Siamo arrivati, ora, al nodo concettuale più profondo e rappresentativo dell'intero nostro percorso: quello relativo al problema della voce umana. Lo incontrammo per la prima volta nel nostro capitolo759 dedicato alle indagini

magistrali che George Herbert Mead compie su questo particolare ‘mezzo espressivo’. Per addentrarci maggiormente al suo interno ricorreremo, oltre che ovviamente allo stesso Mead e ad altri autori, ad un intreccio tra vari testi di Sini, nei quali il nostro tema è affrontato da diversi punti di vista e con diversi ‘focus’ di approfondimento. Prima di entrare nel vivo della questione si rendono però necessarie due considerazioni, che andremo senz'altro a svolgere. Innanzitutto bisogna notare che, al contrario di quanto potrebbe emergere dalla nostra trattazione, non è che prima ci sia il gesto della mano e poi il gesto vocale, o viceversa. Dire così fondamentalmente sarebbe privo di senso. Le gestualità del corpo umano emergono in uno, col corpo vivente in azione. E nemmeno, ad essere precisi, c'è da una parte la gestualità della mano e dall'altra quella della bocca: queste sono ricostruzioni a posteriori. «Toccare, annusare, gustare, vedere udire […] sono aspetti globali di un intero non ancora distinto»760. Scrive Sini ne Il simbolo e l'uomo:

nell'esperienza concreta noi non siamo mai di fronte a uno di questi grafemi preso isolatamente dagli altri […]: mai o quasi mai noi afferiamo ma non vediamo, vediamo ma non udiamo (e dovremmo aggiungere altri grafemi in corrispondenza del gustare e dell'odorare): ciò che accade è sempre una complicazione di più gesti in una unità di risposta che è un grafema complessivo di vari grafemi. È così che via via si costituisce il corpo vivente e percipiente secondo strutture specifiche complesse761.

Noi potremmo dire che anche Condillac sapeva qualcosa del genere, quando, concludendo il Trattato delle sensazioni, diceva che la sua Statua, che acquista una dopo l'altra i vari sensi, «è certo una finzione. Ma perché una cosa simile non dovrebbe valere anche per l'uomo?»762. Anche noi, stando a

Condillac, proponiamo una lettura dei problemi che indaghiamo qui certo parziale e spesso forse inadeguata, ma che non rinuncia a una pretesa di validità profonda.

In secondo luogo, si noti che nel nostro tracciare analisi sul tema della voce siamo noi che ‘analizziamo’, ossia: è proprio quel soggetto nato dall'introiezione della voce a parlarne. Ancora, come sempre, siamo all'interno di quel nostro circolo del “dire l'origine di cui noi stessi siamo gli originati”, che ci ha accompagnato e dal quale ancora non siamo usciti (né sarebbe stato auspicabile farlo – né alcuna indagine genealogica può farlo).

Per introdurci nell'argomento della voce recuperiamo proprio le analisi autografiche di Condillac sul tema del tatto, considerandone una notazione per noi ancora inedita: un senso che si riflette in maniera peculiare, oltre al tatto, è

759 Cfr. supra, §11.

760 C. Sini, Distanza un segno, cit., p. 76. 761 C. Sini, Il simbolo e l'uomo, pp. 208-209.

Diego D’Angelo, La genesi dell’autocoscienza

Nóema – Numero 3, anno 2012 – Ricerche http://riviste.unimi.it/index.php/noema

198

l'udito. Al contrario del tatto, io non mi ‘odo udire’, come il tatto si ‘toccava toccante’: qui, evidentemente, la dinamica autografica è di tutt'altro tipo. È precisamente di questa dinamica che dobbiamo occuparci ora, la dinamica per cui la voce si riflette su chi la emette. «La voce – scrive Carlo Sini ne Gli abiti, le pratiche, i saperi – possiede una funzione oggettivante autografa del tutto peculiare»763.

Dobbiamo prima di tutto porci una questione capitale: che cosa c'è, ora? Non certo la mente umana; non certo delle emozioni da esprimere, come voleva Darwin. Noi, in questa figura dell'umano, non siamo altro che i rispecchiati dell'azione della mano: non siamo dunque altro che un corpo vivente in azione nel mondo, ossia una mano che si protende a spaccare la ‘sfera primordinale’, inaugurando il graffio e, in esso, i due poli della dinamica segnica. Siamo, cioè, in un mondo costituito da poli d'azione per una mano che si offre disponibile per tutto, e nient'altro. Tutto il resto comincia con la voce, con il grido dei ‘bestioni’, come avrebbe detto Vico764. Ma, affianco a tutto

questo che abbiamo già analizzato, c'è anche l'udito, con le sue particolari caratteristiche autografiche, e con esso si dà il gesto più importante per l'uomo: il gesto vocale.

Qual è allora la peculiarità che investe il senso dell'udito? Qual è la peculiarità propria di quel gesto particolare che è la voce? La mano spacca, s'era detto: spacca l'intero di partenza in due polarità. La voce invece no, la voce fa altro: la voce crea. Essa, «unica tra tutti i gesti, produce fenomeni che prima non esistevano»765, pro-duce766 i fenomeni. Anche Heidegger annetteva una

funzione del genere alla parola poetica: nelle parole di Gadamer, si può dire infatti che «l'essenza dell'arte non è costituita dalla trasformazione del preformato, né dalla rappresentazione dell'ente preesistente, ma dal progetto grazie al quale qualcosa di nuovo emerge come vero»767. Il parallelismo non è

casuale, perché per l'Heidegger de L'origine dell'opera d'arte768 è proprio il lavoro artistico ad aprire la verità (noi diremmo: l'evento del significato) – una certa lettura delle pagine conclusive di Hegel e della figura dell'artigiano nella Fenomenologia dello spirito potrebbe andare di pari passo, ma non abbiamo qui il tempo di soffermarci769.

Comunque, cerchiamo di capire bene cosa significa questo essere-in- audito della voce770: essa infatti spacca tanto quanto il gesto, solo che in un

modo peculiare, poiché essa spacca il silenzio, introducendo nel mondo non

763 C. Sini, Gli abiti, le pratiche, i saperi, cit., p. 27.

764 «Da siffatti primi uomini, stupidi, insensati ed orribili bestioni, tutti i filosofi e filologi

dovevan incominciar a ragionare la sapienza degli antichi gentili». G. Vico, Princìpi di scienza nuova, a cura di F. Nicolini, Riccardo Ricciardi Editore, Milano – Napoli 1953, ora Mondadori, Milano 1992, p. 144 (§374).

765 C. Sini, Gli abiti, le pratiche, i saperi, p. 27. 766 Cfr. C. Sini, Il simbolo e l'uomo, cit., p. 214.

767 H.-G. Gadamer, Heideggers Wege. Studien zum Spätwerk, trad. it a cura di R. Cristin, I sentieri di

Heidegger, Marietti, Genova 1987, p. 96.

768 M. Heidegger, Der Ursprung des Kunstwerkes, in Holzwege, Klostermann, Frankfurt a. M. 1950,

trad. it. L'origine dell'opera d'arte, in Holzwege. Sentieri nella selva, Bompiani, Milano 2002.

769 Qualcosa di più preciso verrà comunque detto in proposito infra, §48. 770 Rinviamo per ulteriori considerazioni al nostro capitolo III.

Diego D’Angelo, La genesi dell’autocoscienza

Nóema – Numero 3, anno 2012 – Ricerche http://riviste.unimi.it/index.php/noema

199

una distanza, non un graffio, ma un fenomeno letteralmente originario e profondamente umano:

la voce non ‘incontra’ il mondo. Il tatto, la vista lo incontrano, cioè lo ‘scoprono’ e così lo delimitano e lo segnano a partire da sé. Non nel senso che il mondo sia già lì e il tatto vi urti contro, ma nel senso di quella esplosione e scissione complementare che prima si è descritta. La voce però non fa nulla del genere. Essa piuttosto fa accadere fenomeni in ogni senso ‘inauditi’. Cioè produce ex nihilo fenomeni che ‘non ci sono’ nel mondo del tatto e della vista. Il mondo è silenzio e la voce è l'irrompere di un gesto che ‘rompe’ il silenzio. Ne deriva che la distanza scandita dalla voce non è scandita rispetto a un ‘altro’ come mondo, ma (come vedremo) rispetto a un altro come altra voce771.

Lo vedremo anche noi. Per ora si noti che «è per questa sua peculiarità che il gesto vocale può definirsi l'essenziale testimonianza autofonica della propria sussistenza nel mondo»772, scrive ancora Sini in un testo diverso da quello appena citato. Essa si iscrive là dove prima non c'era nulla, portando il mio corpo (che, come certo si ricorderà, «è là dove c'è qualcosa da fare»773)

nella sconfinata apertura del mondo. Condillac certo apprezzerebbe le nostre analisi, o meglio ne apprezzerebbe la dinamica (poiché lui, della voce, non aveva colto alcunché): potremmo infatti dire che la voce esce da me (sono io che la emetto) e poi mi ritorna indietro (io mi ascolto parlare): in questo la sua ‘circolarità autografica’ è tanto potente (almeno) quanto quella del tatto.

Vi è un provenire della voce per il quale sorge l'emittente stesso. L'emittente è un effetto del rimbalzo e non la causa del medesimo […]. L'emittente si trova rispecchiato nella voce, cioè si avverte e si sa nella voce che esplode. Emittente inconsapevole rispecchiato nella voce che si dà774.

Scrivevamo nel §34 che lo ‘stimolo’ costituito dalla spaccatura distanziante è diretto a una risposta che è un grafema, proprio come la mano che assimila a sé il mondo e insieme lo pone a distanza, costituendosi come mano. La dinamica con-costitutiva l'abbiamo anche (sempre sulla scorta di Sini) chiamata ‘rimbalzo’: il rimbalzo del grafema corporeo ha funzione oggettivante (costituisce il mondo) e soggettivante (costituisce, grazie al movimento autografico, il soggetto come quel soggetto che compie il gesto). La voce, gesto tra i gesti e grafema tra i grafemi, mette in opera la medesima dinamica, ma con un differenza fondamentale: nel grido si sente sé gridare. Vediamo Sini:

il gesto vocale, dice Mead e ripete Derrida ne La voce e il fenomeno, ha, a differenza di qualsiasi altro, la capacità di rendere affetto me stesso così come io rendo affetto l'altro. Io cioè mi sento parlare proprio così come l'altro mi

771 C. Sini, Scrivere il fenomeno. Fenomenologia e pratica del sapere, cit., p. 198. 772 C. Sini, Gli abiti, le pratiche, i saperi, cit., p. 27.

773 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 334. 774 C. Sini, Scrivere il fenomeno, cit., p. 199.

Diego D’Angelo, La genesi dell’autocoscienza

Nóema – Numero 3, anno 2012 – Ricerche http://riviste.unimi.it/index.php/noema

200

sente; se gli rivolgo una preghiera o impartisco un ordine mi sento pregare e ordinare, con un raddoppiamento che non accade in nessun altro gesto775.

Di Mead abbiamo già detto a sufficienza; per Derrida (giusto al fine di comprendere meglio i ‘paletti’ entro i quali si muove il nostro discorso e quello siniano) sia sufficiente la seguente citazione, per comprendere il focus del suo discorso e per tentare di entrare meglio nella tematica:

l'operazione del ‘sentirsi-parlare’ è un'autoaffezione di tipo assolutamente unico. Essa opera nel medium dell'universalità [...e] il soggetto può sentirsi o parlarsi, lasciarsi investire dal significante che egli produce senza alcuna deviazione attraverso l'istanza dell'esteriorità, del mondo, del non- proprio in generale […]. La voce, non esigendo l'intervento di alcuna superficie determinata nel mondo, producendosi nel mondo come auto-affezione pura, è una sostanza significante assolutamente disponibile […] Questa auto-affezione è forse la possibilità di ciò che si chiama la soggettività o il per-sé776.

Il punto non è semplice da cogliere: ricordiamoci quanto dicevamo a proposito del fatto che la voce è propriamente un fenomeno in-audito. Se questo è chiaro, allora diviene chiaro che nella spaccatura operata dalla voce non c'è solo il mio corpo (come produttore della voce), il mondo (come ‘stringa di suoni’, potremmo dire con la linguistica contemporanea), io come soggetto rimbalzato (autografato, potremmo dire), ma ci sono anche io come ‘oggetto’ della voce stessa: io mi sento parlare, si diceva, mentre non mi vedo vedere, per esempio. «Quel sé che è risultato e origine è, al tempo stesso, oggetto della voce: la voce mira a me, intende me»777: essa esplode là fuori per

tutti778, e tra quei tutti naturalmente ci sono anch'io. Ma non solo: «il primo

effetto di quella prassi che è il gesto vocale è l'autonominazione implicita». Infatti si potrebbe chiedere: «a chi è destinata originariamente la voce del bambino se non al bambino, cioè alle sue orecchie?»779. Anche Heidegger aveva

colto molti aspetti della relazione esistente tra emissione della voce e ascoltare, in alcune brillanti espressioni di In cammino verso il linguaggio (si tenga presente che Heidegger usa l'espressione “parlare”, ma propriamente a questo punto, per noi, c'è solo un emetter-la-voce, se non addirittura solo un grido molto poco ‘linguistico’):

775 C. Sini, Il simbolo e l'uomo, cit., p. 214. 776 J. Derrida, La voce e il fenomeno, cit., p. 71. 777 C: Sini, Gli abiti, le pratiche, i saperi, cit., p. 28.

778 Corballis, nel testo che abbiamo preso – come si ricorderà – a titolo di ‘confronto

scientifico’, si avvede della caratteristica universalità della voce solo superficialmente: egli sostiene che la voce, da questo punto di vista, unisce caratteristiche favorevoli alla conservazione dell'individuo e altre sfavorevoli. Tra quelle favorevoli nomina la capacità di attirare l'attenzione degli altri; tra quelle sfavorevoli, il fatto che tra questi altri potrebbero esserci dei predatori. Ciò a cui lui assolutamente non pensa è l'intreccio tra universalità della voce e socialità umana, elemento che costituisce un limite fondamentale della sua teoria, particolarmente debole, a nostro avviso, proprio nell'interpretazione ingenua e superficiale che viene offerta del gesto vocale. Cfr. M. C. Corballis, Dalla mano alla bocca, cit., pp. 260 ss.