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IL SIGNIFICATO TRA SEGNO E SIMBOLO

§19 Nancy: Essere singolare plurale

V. IL SIGNIFICATO TRA SEGNO E SIMBOLO

§20. Ancora

contra

Mead. Introduzione al problema del segno

Pensare, come […] Mead, che il linguaggio sia il prodotto di una evoluzione e selezione di tipo darwiniano di segni e gesti comunicativi preesistenti significa non aver compreso la profonda e costitutiva relazione che lega segno, mondo e linguaggio. È entro la forza evocativa per molti versi misteriosa ed enigmatica della parola che anche il mondo e il segno si manifestano, divengono oggetto di visione e di considerazione269.

In queste parole del testo di Carlo Sini Dal simbolo all'uomo sta racchiuso il senso dell'attuale capitolo: non a caso dunque, né per mera ripetizione, citiamo di nuovo testualmente queste righe, con le quali già avevamo concluso il capitolo dedicato a Mead, ma proprio per sottolineare il legame diretto che mette in relazione questo capitolo con quello270: la critica che là avevamo appena abbozzato prende qui forma definitiva, anche grazie al confronto con altri autori, più o meno distanti dalla proposta teorica meadiana.

Come è successo per il capitolo precedente271, infatti, anche in questo

caso il nostro punto di partenza è la riflessione di Mead, ma ancora una volta ne dobbiamo criticare i risultati: come facemmo allora per l'incapacità del filosofo americano di (a) cogliere pienamente la questione, nella sua profondità filosofica, della circolarità linguistica (o ‘effetto retrogrado del vero’, secondo una delle ‘maschere’ più frequenti che questo problema assume) e di (b) porre la questione dell'intersoggettività in maniera abbastanza radicale, dobbiamo fare anche ora272. Con la questione del significato, come abbiamo voluto

269 C. Sini, Dal simbolo all'uomo, cit., pp. 20-21. 270 Cfr. supra, capitolo III

271 Cfr. supra, capitolo IV.

272 Non abbiamo dedicato molto spazio ad un'altra critica fondamentale a Mead: quella legata

al suo naturalismo ingenuo, alle quale avevamo comunque accennato nel capitolo espressamente dedicato a questo autore (cfr. supra, capitolo III, in part. §11) e sulla quale comunque torneremo brevemente più avanti. Si è trattato di una scelta specifica, in quanto organizzare una trattazione filosofica seria di un tema tanto vasto come quello dei rapporti tra filosofia e scienza avrebbe richiesto moltissimo spazio e energie mirate. In ogni caso, il tema di questi rapporti attraversa tutta la nostra trattazione: in ogni capitolo c'è almeno un accenno a questa problematica o un confronto con autori che portano avanti un'idea di naturalismo obiettivistico. Non si pensi che l'omissione sia risultato di superficialità: riteniamo che oggi più che mai sia continuamente necessario rimettere in discussione i rapporti tra filosofia e scienza, e che un'adeguata trattazione di questo argomento possa «Vediamo il segno scritto, perfino lo fissiamo, ma non è esso il termine della nostra intenzione, non è esso ciò a cui si è mirato. [...] Seguendo con lo sguardo le forme complicate dei segni che si susseguono o s'intessono l'un l'altro, abbiamo di mira le oggettualità significate, “viviamo” nella coscienza del significato. Questi sono rapporti fenomenologici peculiari.»

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chiamarla, si apre evidentemente davanti a noi la strada stessa che può condurci alla genesi dell'autocoscienza: per questo motivo abbiamo deciso di dedicare al tema un capitolo a parte, per quanto (vista la natura dell'impresa) si sarebbe benissimo potuto aggiungere tutto questo scritto come “g” al capitolo precedente.

La nostra (breve) critica alla concezione di Mead ci aprirà direttamente le porte (anche grazie ai confronti che faremo, su questo tema, con altri agguerriti filosofi) della nascita del linguaggio: tra le varie intuizioni geniali e corrette di Mead (ma già Wright, prima di lui – e forse, seppur oscuramente, addirittura Darwin – ci aveva messo sulla giusta via) c'è proprio la dipendenza immediata di autocoscienza e linguaggio. Risolvere (se così si può dire in ambito filosofico) il problema del segno, del simbolo, del significato, significa risolvere il problema stesso della ‘ragione umana’.

L'obiezione fondamentale sulla quale si tratta di insistere questa volta è proprio la concezione meadiana di quello che egli chiama “simbolo significativo”. Scrive Mead in Mente, Sé e società:

il significato è lo sviluppo di qualcosa che sussiste oggettivamente come relazione fra certe fasi dell'atto sociale; non si tratta di un'aggiunta psichica a quell'atto e neppure di un' ‘idea’ nel senso tradizionale del termine [...]. Il significato viene definito in termini di risposta [...]. I significati sono nella natura, mentre i simboli sono eredità dell'uomo [...]. Non è necessario fare ricorso agli stati psichici in quanto la natura del significato risulta implicita nella struttura dell'atto sociale e nelle relazioni tra le sue tre componenti individuali fondamentali, cioè la relazione triadica di un gesto di un individuo, la risposta a quel gesto da parte di un secondo individuo e il completamento dell'atto sociale particolare iniziato dal gesto del primo organismo273.

Come dovrebbe essere ormai evidente a questo punto del nostro cammino, questa concezione del significato è del tutto insufficiente, e quindi la stessa definizione di simbolo significativo, che a questa si riallaccia direttamente, risulta inevitabilmente inficiata da una eccessiva ingenuità realistica. Mead spesso si affida a «un concetto di “natura” di stampo naturalistico non adeguatamente fondato»274. Non c'è alcuna natura, infatti, al

di fuori della relazione simbolica, così come non c'è uomo prima del simbolo: in queste posizioni, Mead dimostra di appellarsi ancora a idee pre-filosofiche. Si tratta di capire che non c'è il simbolo da una parte e la realtà dall'altra: se si sostiene che il simbolo sia una creazione, una «fantasia – come la chiama Sini – dell'immaginario psichico dell'uomo, di fronte al quale starebbe il mondo oggettivo delle cose»275, allora non si è capito, come scrivevamo all'inizio, praticamente nulla della complessità della relazione simbolica. Quello che si tratta invece di afferrare è esattamente l'opposto di ciò che sostiene Mead nelle

giovare tanto all'una quanto all'altra parte.

273 G. H. Mead, Mente, Sé e società, cit., pp. 98-103. 274 C. Di Martino, Segno, gesto, parola, cit., p. 177. 275 C. Sini, Il simbolo e l'uomo, cit., pp. 29-30.

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righe che abbiamo appena citato: il nocciolo della questione è che «la natura parla all'uomo tramite segni»276: una espressione complessa, che si tratterà

appunto di comprendere nella sua profondità al di là del suo essere una ‘frase a effetto’. Stessa sorte sarà destinata alla ben nota espressione, per la quale è evidente il riferimento ad Heidegger, «l'uomo dimora nel linguaggio», che faremo nostra soprattutto nel capitolo successivo.

Tornando a Mead, possiamo leggere in una nota al capitolo significativamente intitolato “La mente e il simbolo” che

i simboli rappresentano i significati di quelle cose od oggetti che sono dotati di significato; essi costituiscono porzioni determinate d'esperienza che indicano o rappresentano altre porzioni di esperienza non direttamente presenti nel momento o nella situazione in cui ciascuno di essi è in tal modo presente (o viene sperimentato immediatamente)277.

Ciò di cui Mead va in cerca, nella sua genealogia dell'autocoscienza, è il simbolo significativo così come noi lo concepiamo comunemente oggi: un'esistenza esterna che è immediatamente presente ma che non deve essere presa in sé stessa, secondo la definizione che dà di “simbolo” Hegel nella sua Estetica, definizione che abbiamo già avuto modo di citare proprio nel nostro capitolo dedicato a Mead278. Il fatto è che qui, ancora una volta, si assume il

punto di arrivo per proiettarlo indebitamente all'indietro279: in questo caso il

linguaggio comunicativo, il simbolo significativo, vengono assunti come realtà in sé, e ne viene ricercata la genesi immediata280, anziché scrutare nel passato

276 Ivi, p. 102

277 G. H. Mead, Mente, Sé e società, p. 140. 278 Cfr. supra, capitolo III, §11.

279 Ecco ancora una volta il nostro effetto retroattivo del vero.

280 Esattamente questo è quello che fa gran parte della scienza moderna. Facciamo riferimento

qui a un recente testo di Enrico Bellone, Molte nature. Saggio naturalistico sulla conoscenza, (Cortina, Milano 2008), e in particolare al capitolo intitolato “I segni”. È senz'altro vero che, come scrive lo stesso Bellone, «probabilmente non sapremo mai com'era il linguaggio parlato con cui nostri antenati, 20.000 o 50.000 anni fa, si scambiavano informazioni», poiché «i suoni e le stringhe di suoni non lasciano fossili»; ed altrettanto vero è che abbiamo alcuni resti di produzioni artistiche risalenti a simili periodi della storia umana, resti costituiti da pitture e sculture che «possiamo davvero accettare [...] siano una forma grezza di scrittura» (E. Bellone, op. cit., p. 53). Tutto vero, certo (tanto che ci torneremo nel prossimo capitolo); chi potrebbe dubitare dei risultati di scienze come l'antropologia e l'archeologia? Eppure, in una certa misura, sebbene non criticando la verità del ‘dato’, ci sia concesso di esprimere qualche perplessità sulla correttezza ‘teoretica’ di queste asserzioni, perplessità che si basano sulle stesse obiezioni che abbiamo mosso alla concezione meadiana del simbolo significativo. È infatti evidente che posizioni di questo tipo assumono indebitamente che, tanto per cominciare, il linguaggio umano dell'alto paleolitico (il primo periodo di cui ci rimangono testimonianze ‘scritte’) servisse davvero a comunicare qualcosa: «di un fatto, però siamo abbastanza sicuri: l'arte preistorica è una forma archetipa di comunicazione che trasmette dati per mezzo di segni depositati su supporti materiali durevoli, e, quindi, è una forma linguistica che si differenzia nettamente da quella che trasmette dati per mezzo di stringhe di suoni» (p. 54). Quello di cui si sta parlando qui è, naturalmente, la nascita della scrittura, quella scrittura costituita da varie manifestazioni ‘artistiche’ (ci si passi il termine, certamente non idoneo) che, dicevamo prima, «possiamo

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alla ricerca di quell' ‘immagine ancestrale’ che non somiglia per nulla al punto di arrivo, alla quale già ci siamo appellati. Il simbolo (le origini del quale noi dovremo cercare di comprendere per comprendere la genesi dell'autocoscienza), così come oggi lo intendiamo, va ridefinito, stando alla larga da definizioni affette dalla ‘superstizione del significato’.

In realtà il percorso sul significato sarà tutt'altro che semplice, anche perché come scrive Carlo Sini nella terza delle sue Figure dell'Enciclopedia Filosofica, intitolata L'Origine del significato. Filosofia e Etologia: «siamo completamente sprovvisti di una comprensione filosofica del significato e del suo problema, che peraltro nella filosofia nasce e da essa deriva»281. Infatti

tradizionalmente pensiamo che solo le azioni dei ‘viventi’ abbiano significato (confortiamoci però: lo pensava anche Husserl, come vedremo), e che invece gli eventi ‘naturali’ siano privi di senso: Creuzer ci aiuterà a cambiare idea. Potremmo allora rivolgerci alla semiotica, o alla linguistica, per farci spiegare qualcosa: ma «tutte le analisi e le teorie scientifiche della relazione tra segno e significato non pongono il problema dell' ‘interpretante’»282. Infatti significante e significato, presi in sé (come vorrebbe la linguistica) non esistono: è sempre l'interpretante a porre la relazione, ed è dalla relazione che essi nascono283.

All'interno di questo triangolo, tutti e tre i poli compaiono «in quanto danno segni di sé»284, ovvero in quanto attivano abiti di risposta. Quello che la tradizione filosofica chiama “soggetto” non è altro che l'insieme degli abiti di risposta che siamo disposti a mettere in pratica, e abbiamo già detto qualcosa sul significato. Il passo successivo coinvolge quello che Sini chiama “pensiero delle pratiche”: resta da comprendere in fatti che è sempre «all'interno di una pratica definita che l'oggetto dà segno di sé»285. In questo discorso si presenta

l'ultima e più decisiva figura della retroflessione del vero: la superstizione del significato, alla quale già abbiamo poco fa e in un paragrafo del capitolo

davvero accettare come una forma grezza di scrittura». Se prendiamo come dato di fatto incontestabile che fin da subito questa ‘scrittura archetipica’ serva a ‘veicolare un messaggio” (per usare proprio l'espressione con cui la linguistica oggi descrive le funzioni del linguaggio), prodotto da una mente che non si sa bene dove stia e diretto a una mente altrettanto misteriosamente comparsa sulla Terra (questo, per esempio, è un errore che Mead, ben più filosoficamente consapevole di Bellone e, in generale, della scienza moderna, non commette, come già abbiamo avuto modo di evidenziare), allora evidentemente non solo la stessa capacità del segno di ‘veicolare un messaggio’, ma anche la capacità umana di emettere e produrre (o di-segnare, come diremmo noi) simboli significativi, ossia in definitiva la ‘mente’, rimangono sostanzialmente assunti come dati e non spiegati nella loro genesi. Parlare nei termini della nostra cultura scientifica attuale della nascita del segno è esattamente un caso di quella ‘azione retrograda del vero’ di cui parlavamo prima: usiamo categorie e ragionamenti logici, per spiegare la genesi del segno, le quali però sono rese possibili dal segno stesso.

281 C. Sini, Figure dell'enciclopedia filosofica “Transito Verità”. Vol. 3: L'origine del significato. Filosofia ed

etologia, Jaca Book, Milano 2004, p. 22.

282 Ivi, p. 25. Naturalmente questa posizione è debitrice al triangolo semiotico di Peirce. 283 Non è possibile dilungarci qui, ma bisogna ricordare che anche l'interpretante non è altro

che un segno col suo proprio significato: l'uomo, un segno.

284 Ivi, p. 29. 285 Ivi, p. 36.

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precedente286. Vediamo di capire bene di cosa si tratta:

è un abbaglio pensare che da una parte stiano tutti i possibili significati della parola “mare” e dall'altra quell'oggetto ‘reale’ che sarebbe il mare in sé. Questo abbaglio ci deriva dall'ingenua retroflessione dei significati linguistici su supposti oggetti esistenti come tali fuori dal linguaggio; ma ora va aggiunto che questo abbaglio non è affatto un semplice ‘errore’. Nella sua retroflessione il linguaggio, infatti, fa ciò che deve fare e che solo esso sa fare: mettere in atto una «pratica oggettivante in generale»287.

Naturalmente, dagli effetti della pratica linguistica non si può uscire, come già dicevamo, dato il fatto che noi stessi qui non stiamo facendo altro che usare il linguaggio. L'unica possibilità è una migliore comprensione: allora bisogna comprendere che l'evento del significato, o meglio l'evento dell'origine del significato, è o costitutivamente duplice, o costitutivamente indicibile, che dir si voglia. Infatti la differenza fondamentale che va considerata è quella tra l'origine del significato in quanto eventualità e il «modo del suo definirsi e tradursi ‘in verità’»288: anche Husserl aveva capito qualcosa di simile quando

scriveva che «dobbiamo distinguere lo stato di cose affermato dal modo corrispondente nel quale esso giunge ad affermazione»289, anche se certo il concetto di “evento” e quello di Sachverhalt non sono minimamente sovrapponibili. Ma Husserl aveva capito anche un'altra cosa: che è sempre «nel pensiero stesso e solo nel pensiero che può essere compiuta a priori la separazione tra lo stesso oggetto e il pensiero dell'oggetto»290, e quindi anche quella, potremmo dire noi, tra evento del significato e sua trascrizione: siamo sempre già nella trascrizione. Noi ovviamente non possiamo che frequentare questa, visto che l'evento è già da sempre irrimediabilmente passato: una volta accaduto, infatti, l'evento del significato muta invariabilmente (e irrecuperabilmente) lo sfondo su cui si è stagliato, che viene necessariamente ri- definito in base alla nuova figura. Infatti «il significato non lo si può arrestare. Lo si può solo trasferire (meta-pherein)»291 – noi potremmo forse dire: simbolizzare.

Torniamo a dire: la nostra pratica è costitutivamente ‘afflitta’ dalla superstizione del significato. E abbiamo anche detto: non si sfugge alla sua presa. Bisogna ora «ammettere con radicale franchezza che la verità ‘interna’ della descrizione filosofica che pratichiamo è anche, nello stesso tempo e nello stesso senso, non vera»292. Si badi alla sfumatura di questa frase: la descrizione filosofica è stata certo ‘praticata’, come si dice, da quel Carlo Sini che nel 2004

286 Cfr. supra, §15.

287 C. Sini, Figure dell'enciclopedia filosofica “Transito Verità”. Vol. 3: L'origine del significato. Filosofia ed

etologia, cit., pp. 39-40.

288 Ivi, p. 55.

289 E. Husserl, Vorlesungen über Bedeutungslehre. Sommersemester 1908, Martinus Nijhoff Publishers,

Dordrecht – Boston – Lancaster 1987, trad. it. La Teoria del significato, Bompiani, Milano 2008, p. 217.

290 Ivi, p. 253.

291 C. Sini, Figure dell'enciclopedia filosofica “Transito Verità”. Vol. 3: L'origine del significato. Filosofia ed

etologia, cit., p. 63.

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scriveva il terzo volume della sua Enciclopedia; ma è la descrizione filosofica che mettiamo in opera anche noi, qui, ora, nel frequentare le sue pagine. Anche noi allora ci aggiriamo nel costitutivo essere-in-errore della nostra pratica (che è quello di ogni pratica): non è certo approntando un indice, una bibliografia e delle note molto precise e ‘scientifiche’ che usciremo dal nostro errore, perché non v'è da uscirne.

Torniamo però al nostro problema, quello del significato: «la sua natura è di trascolorare e transitare verso sempre nuovi sensi o contenuti di senso. Questo trascolorare transitante mostra appunto la non-verità coessenziale del significato»293. Era necessario mettere qui in evidenza le caratteristiche del dire

che stiamo frequentando, e di che cosa propriamente dobbiamo intendere per “significato”, ma le pagine di questo testo siniano potranno dispiegare tutta la loro utilità solo nel prossimo capitolo.

Per ora, non ci resta che tornare, sempre più avvertiti del senso di ciò che facciamo, verso i nostri autori. Ricordiamoci di Wittgenstein: alla fine del Tractatus, se lo si è davvero capito, bisognerà buttare via il Tractatus stesso con le sue proposizioni messe lì come pioli, come fosse una scala che abbia ormai svolto la sua funzione. Così dovremo fare noi coi nostri autori (con tutto che considerare Husserl una scala potrebbe apparire poco rispettoso): li useremo per comprendere e per salire più in alto, ma poi li abbandoneremo, anche se naturalmente sappiamo che qualcosa di loro ci poteremo dietro fino alla fine, e oltre. Ma di ciò, più avanti. Ora volgiamoci direttamente a Husserl, sperando che non si sia eccessivamente offeso per le nostre espressioni di critica.

In questo percorso ci sarà inestimabile maestro, infatti, proprio il padre della fenomenologia, che già ci è stato affianco nelle considerazioni sull'intersoggettività: in questo caso prenderemo il suo insegnamento per così dire ‘filtrato’ attraverso gli occhi di Derrida, che ci consentiranno di aprire nuove prospettive sui nostri discorsi futuri, pur senza abbandonare il filone centrale della nostra ricerca, che concerne, come detto, i rapporti tra il significato, il simbolo e il segno. Nel testo del paragrafo in questione294 non

faremo riferimento se non tangenzialmente alle lezioni del semestre invernale del 1908, che abbiamo già avuto modo di citare per un confronto poco fa. Il tema che affrontano in effetti è strettamente inerente al nostro: si leggano le parole di Husserl all'inizio del testo per farsene un'idea:

ora, che cos'è questa oggettività che si chiama significato? Come si costituisce? Lo fa negli atti che conferiscono il senso o sul fondamento degli stessi? È una unità identica analoga all'unità dell'espressione, ovvero questa parola “significato” nell'usuale modo di discorrere ha, a seconda dei diversi contesti, molteplici significati, i quali, essendo riferiti tutti al rappresentare e al pensare verbale, devono essere, da parte nostra, distinti ed esaminati secondo le loro fonti fenomenologiche? Così è, in effetti295.

293 Ivi, p. 69.

294 Cfr. infra, §21.

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Malgrado le evidenti affinità di contenuto, però, l'indiscutibile difficoltà del testo e il suo intreccio strettissimo con la totalità delle Ricerche logiche rende impossibile una discussione dettagliata – che pure sarebbe senz'altro feconda – di queste lezioni senza prima aver bene analizzato le Ricerche Logiche stesse per intero, obiettivo che non possiamo certo proporci in queste pagine, dove tentiamo solo un'incursione nella tematica del significato presso alcuni autori le cui considerazioni ci saranno utili nel capitolo successivo.

Proprio per volgerci allora, seguendo il titolo che abbiamo dato al nostro capitolo, dal segno (e, come vedremo, dall'indice) al simbolo ci farà da guida Georg Friedrich Creuzer296, filologo romantico che, come scrive Carlo

Sini nella prefazione al volume che contiene la traduzione italiana del testo di