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Duplice significato di «rivelazione in Schelling»

Capitolo IV: Il richiamo della libertà dall’abisso della caduta

1. Duplice significato di «rivelazione in Schelling»

Attraverso una manipolazione teorica, potremmo sentirci autorizzati a leggere nell’esperimento ideale di Climacus nelle Briciole di Filosofia un possibile riferimento e una presa di distanza dalla posizione schellinghiana delle Lezioni sulla Filosofia della Rivelazione. Prima di addentrarsi nelle difficoltà di un confronto teorico tra i due autori, mi vorrei soffermare sulla possibile duplice accezione di “Offenbarung” in Schelling. Sia nello scritto sulla libertà del 1809 che nel corso berlinese, è presente l’idea di una Rivelazione di Dio a se stesso: si tratta della convinzione dell’esistenza di un divenire divino affinché Dio stesso sia consapevole di sé come Dio e della propria libertà. Come più approfonditamente esposto nei capitoli precedenti, affinché Dio possa essere pensato come vita e personalità, si

367 Kierkegaard, S., Kjerlighedens Gjerninger. Nogle christelige Overveielser i Talers Form (1847), tr. it. di

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deve dare un processo di acquisizione di consapevolezza di ciò che Egli in nuce già dall’eternità è. Così inteso, il processo rivelativo di Dio, che raggiunge il suo acme e il suo fine nell’uomo, è necessario. Su questo tema ruotano, in particolare, le Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana. Qui, nel tentativo di fornire una nuova interpretazione e una rifondazione del concetto di libertà umana, Schelling si imbatte nel problema del male e nel connesso tema della teodicea, di come e perché un Dio sommamente buono e onnipotente possa permettere l’esistenza del male. La possibilità del male è imprescindibilmente connessa al divenire divino:

Il volere dell’amore e il volere del fondamento sono due voleri distinti, ognuno dei quali sta a sé: ma il volere dell’amore non può contrastare il volere del fondamento, né sopprimerlo, perché altrimenti dovrebbe contrastare se stesso. Giacché il fondamento deve agire, perché l’amore possa essere, e deve agire indipendentemente da esso, affinché esso esista realmente. [...] Poiché Dio sentì il volere del fondamento come il volere di giungere alla propria rivelazione, e secondo la sua previsione riconobbe che doveva esserci un fondamento indipendente per la sua esistenza (come spirito), egli lasciò che il fondamento agisse nella sua indipendenza, o, per dire altrimenti, egli stesso si mosse soltanto secondo la sua natura, e non secondo il suo cuore o secondo l’amore368.

Questo divenire di Dio è scandito dall’opposizione tra i due principi antitetici, a lui immanenti, il principio del fondamento e il principio dell’amore, e dal graduale asservimento del volere del primo a quello del secondo. Si tratta, quindi, di un processo necessario: «Dio si deve necessariamente rivelare»369. Ciò sui cui qui Schelling si sta soffermando è dunque

368 Schelling, Die Philosophischen Untersuchungen über das Wesen der menschlichen Freiheit, cit., p. 107;

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il rapporto di Dio alla sua stessa rivelazione:

Dio finora è stato considerato come un essere che rivela se stesso. Ma come si comporta verso questa rivelazione come essere morale? È essa un’azione che segue con necessità cieca e inconscia, o è un atto libero e cosciente? E se è libera e cosciente, come si comporta Dio verso il male, la cui possibilità e realtà dipende dalla sua rivelazione?370

Il fatto che Dio sia considerato personalità e spirito ci porta a escludere che si tratti di una mera necessità logica o meccanica, in virtù della quale tutto, privo di coscienza, deriverebbe. Allo stesso modo deve essere rigettata anche l’idea di una qualche libera deliberazione di Dio con se stesso. La necessità di cui, quindi, l’autore parla è una «necessità morale», cioè una necessità in vista del bene e dell’amore:

Non appena si determina più strettamente il concetto di una necessità morale, è innegabile la proposizione: che dalla natura divina tutto segue con assoluta necessità, e ciò che non è reale deve anche essere moralmente impossibile. [...] Ma se Dio è essenzialmente amore e bene, allora anche quello che in lui è moralmente necessario ne segue con una necessità veramente metafisica371.

Per “rivelazione” Schelling, però, intende anche la Rivelazione concessa da Dio stesso all’uomo, un uomo caduto per propria colpa, un uomo alienato dal suo stato di originaria perfezione e innocenza. Al contrario della rivelazione nella sua prima accezione, Dio ora sceglie di rivelarsi all’uomo liberamente e per amore di esso. Si apre così la lunga digressione sul processo della Mitologia, sull’evento dell’Incarnazione e sul loro mutuo rapporto, che

370 Op. cit., p. 121.

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anima la parte “speciale” del corso berlinese. Non solo l’Incarnazione, ma anche il mantenimento della coscienza umana dopo la caduta, è il più grande, incomparabile e “miracoloso” atto di amore e di libertà di Dio. Affinché sia possibile una riconciliazione con il precedente e originario stato dell’umanità, occorre, infatti, che la coscienza non sia andata completamente distrutta con e dalla caduta. Tuttavia, la sua sopravvivenza altro non è che una libera “concessione” da parte di Dio:

Ma perché la potenza mediatrice permane nella coscienza, perché irresistibile la coscienza umana non si distrugge, dopo che la potenza a essa nemica si sia nuovamente legata? [...] Non esiste nessuna necessità che la coscienza umana si mantenga nel suo scomporsi, che non si distrugga. Questo può essere solo l’opera di una libera volontà372.

Se ad essere libera è la concessione della sopravvivenza della coscienza, rendendo così possibile una prima conciliazione immanente, all’interno della coscienza stessa, ancor più lo è l’Incarnazione e la morte di Cristo, quell’evento storico, oggettivamente accaduto, che per la sua eccezionalità è in grado di dar luogo a una riconciliazione reale. Se, quindi, sia nelle Ricerche filosofiche che nella Filosofia della Rivelazione, è presente l’idea di una necessità della Rivelazione in vista di una più compiuta esplicitazione della vita divina, invece, soprattutto nelle lezioni berlinesi, l’Incarnazione e la morte di Cristo sono presentate come un atto d’amore del Figlio verso l’umanità, come quell’unico ed eccezionale sacrificio che avrebbe potuto liberare l’uomo dal principio non-divino di cui era prigioniero:

Egli non si è dato da solo l’essere extra-divino in cui si trova dal momento della caduta, egli non ha sostanzializzato se stesso contro il Padre: questo essere gli è dato, indipendentemente da

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Dio, attraverso l’uomo. Ma che egli persistesse e continuasse in questo essere, sebbene non per impadronirsene per se stesso: questo era la sua libera volontà. Egli, entrando in questo rapporto con l’essere estraniatosi da Dio, si poneva liberamente uguale a esso; in quanto egli ci ha rappresentato di fronte a Dio e si è messo al nostro posto, egli ha preso su di sé la nostra colpa. [...] Egli, che non era responsabile di alcuna colpa, si è fatto colpevole per amore. [...] Per se stesso egli non aveva alcuna necessità di morire. In verità, attraverso quel principio del divino non-volere, anch’egli era escluso da Dio, ma appunto con ciò egli aveva un essere autonomo rispetto a Dio, e poteva stare su un piede di uguaglianza con Dio, se lo avesse voluto373.

L’Incarnazione e il sacrificio di Cristo in vista della remissione del peccato dell’uomo e, di conseguenza, della sua reintegrazione allo stato di originaria “fusionalità” con Dio, è un «miracolo dell’amore», assolutamente incomprensibile e inafferrabile con i soli mezzi umani:

Un tale miracolo dell’amore – un amore che è assai più grande di quello che ha spinto il creatore a creare, e un miracolo di cui possiamo dire soltanto: “è così”. Ma questo atto noi non avremmo potuto aspettarcelo o precederlo con nessun concetto umano, anzi, non avremmo osato credervi se non fosse realmente accaduto374.

Sebbene, quindi, Dio abbia liberamente e volontariamente scelto di incarnarsi e lo abbia fatto solo per amore dell’uomo, la modalità della remissione del peccato umano non poteva che essere quella dell’Incarnazione e morte di Cristo. Da questo punto di vista, quindi, possiamo parlare di necessità del suo sacrificio. Essa è strettamente legata all’esistenza del principio non-divino che si oppone alla riconciliazione. Se tale principio non esistesse,

373 Op. cit., p. 1207.

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infatti, Dio avrebbe potuto perdonare immediatamente e solo in virtù della sua benevolenza la debole creatura: «C’era bisogno di un principio relativamente indipendente da Dio – di un principio nel quale egli stesso non poteva nulla assolutamente –, per spiegare perché la pace non potesse venire immediatamente, senza precedente riconciliazione»375. Il principio non-divino, la cui natura è quella di opporsi alla riconciliazione dell’uomo, esiste come tale e si pone come tale solo in contrasto con un principio opposto, un principio, cioè, che aspira alla mediazione. Proprio per questo è necessario che il principio mediatore si sottometta completamente affinché non sussista niente a cui il principio non-divino possa contrapporsi e per mezzo di cui, negativamente, affermarsi. La maggior sottomissione altro non è che la morte. Riprendendo alcune parole paoline, potremmo concludere quindi che «Cristo è divenuto partecipe della carne e del sangue umano, affinché egli attraverso la morte strappasse la forza a colui che aveva il potere della morte» (Eb, 2. 14).

Schelling passa poi ad indagare il rapporto tra la Rivelazione e lo stato precedente su cui la Rivelazione si impone e si fa riconoscere come tale. Infatti, affinché si possa realmente parlare di “rivelazione” occorre un precedente stato di oscuramento da dissipare e contro cui risaltare: «Già il concetto di rivelazione di un rivelantesi presuppone un oscuramento originario. Si può rivelare solo ciò che prima è stato nascosto»376. In Filosofia della Rivelazione, infatti, il rapporto tra la Rivelazione e la precedente coscienza mitologica viene interpretato non come un rapporto tra religione e non-religione, assoluta assenza di religione, ma tra vera e falsa religione, verità ed errore:

L’errore non sta in una totale mancanza di verità; qualcosa che mancasse totalmente di ogni verità non meriterebbe neppure il nome di errore. L’errore è soltanto la verità stessa rovesciata e deformata, e quindi la falsa religione è soltanto quella vera rovesciata e

375 Op. cit., p. 1213. 376 Op. cit., p. 311.

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deformata, e, dunque, per esempio il Paganesimo non è un’assoluta opposizione al Cristianesimo, ma soltanto il Cristianesimo rovesciato e deformato. […] Il Cristianesimo, infatti, è nel mondo prima di Cristo, anzi, esso è tanto antico quanto il mondo. […] Non è ora difficile riconoscere come in un certo senso il falso possa essere il presupposto del vero. […] Tutti i momenti del movimento, che precedono il raggiungimento di questa meta, si comportano dunque come semplici mezzi per il fine […]. In un tale movimento, dunque, possiamo dire, ciò che non è vero è ciò che precede, e dunque che è presupposto dal vero. […] La verità che l’umanità deve alla Rivelazione […] è una verità arricchita, che ha vinto un errore, ed è, in quanto tale, insieme più determinata e distinta […]. Ora, in quanto la conoscenza che è il risultato della Rivelazione è una tale conoscenza arricchita o mediata, essa ha realmente come suo presupposto l’errore – e in verità, non l’errore dell’individuo, ma quello grande del genere umano –: il Paganesimo. Non è perciò assolutamente nulla di scandaloso, se si sostiene che una filosofia della Mitologia è il vero fondamento di una filosofia della Rivelazione. […] Il Cristianesimo stesso presenta il Paganesimo come il suo presupposto377.

Come precedentemente mostrato, già i Misteri erano un’esperienza di una forma di conciliazione. La loro limitatezza consisteva, però, nel fatto che tale conciliazione avveniva soltanto all’interno della coscienza, senza accompagnarsi a una restaurazione esterna, oggettiva, storica, reale. Secondo Schelling, quindi, esiste una certa continuità tra la Rivelazione, la verità data all’uomo da Cristo attraverso la sua Incarnazione, e lo stato precedente dell’umanità:

Il contenuto della Rivelazione è anzitutto un contenuto storico, però non comunemente o temporalmente storico: esso è un contenuto che si manifesta in un tempo determinato, che cioè si inserisce in ciò che si manifesta nel mondo, ma che per quanto

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riguarda la sua sostanza era presente e preparato, sebbene non manifesto e nascosto. [...] Ogni rivelazione è un atto, e un atto esplicito in cui ha appunto luogo un passaggio, e perciò presuppone una situazione precedente. Si domanda che cosa si debba assumere in questa situazione precedente, e di conseguenza come presupposto della Rivelazione. Forse un non-sapere totale, una coscienza in cui non è assolutamente nulla di Dio? Impossibile. Noi infatti abbiamo visto che la coscienza umana è quella che pone naturalmente Dio378.

Per Schelling, quindi, la Rivelazione non è completamente trascendente la coscienza umana, ma implica un particolare rapporto di essa con Dio, un rapporto né necessario o permanente, non uno stato in cui l’uomo si trovi per natura, ma una condizione provvisoria, che presuppone la Mitologia. Si tratta di «una condizione fattuale, empirica, e perciò anche soltanto circoscritta della coscienza»379.

La Rivelazione è, quindi, qualcosa di sovra-naturale, non perché, assolutamente paradossale, trascende e respinge gli sforzi di comprensione dell’intelletto, ma poiché si impone su un presupposto, su uno stato precedente considerato “naturale”. Per “naturale” qui Schelling non intende qualcosa che appartiene essenzialmente alla natura della coscienza umana: anche questo stato coscienziale naturale, quello mitologico, rimane comunque uno stato temporaneo ed eccezionale. La coscienza mitologica, pagana è già una coscienza alienata, estraniata poiché ha perso l’originario rapporto di “fusionalità” con Dio, nel quale e per il quale l’uomo era stato creato. La naturalità riguarda, quindi, il processo di rigenerazione della coscienza:

La coscienza è posta nel sorgere della Mitologia assolutamente al di fuori del suo rapporto originario con Dio; appunto con ciò essa – attraverso questa stessa estasi – è tuttavia sottoposta a un processo

378 Op. cit., pp. 235; 1081. 379 Op. cit., p. 305.

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attraverso il quale deve venire riportata a questo rapporto originario, così come un organo del corpo umano, che si è sottratto al suo vero rapporto, viene subito sottoposto a un processo che è chiamato malattia, la cui unica tendenza, però, è quella di riaddurre l’organo staccato. La malattia nel suo principio non è nulla di naturale, ma il processo di rigenerazione è naturale380.

In conclusione potremmo dire, quindi, che secondo Schelling l’imprescindibile e rivoluzionario ruolo della Rivelazione riguarda, quindi, il modo di questa conciliazione, non il suo contenuto.