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Capitolo II: La libertà del primo uomo

3. Kierkegaard e hildet Frihed

L’innocenza è una qualità, essa è uno stato il quale può sussistere benissimo; e perciò la fretta della logica di vederla tolta non vuol dire nulla, mentre invece nella logica stessa ci si dovrebbe spiegare un po’ di più; perché qui, anche chi ha la massima fretta, arriva sempre troppo tardi. L’innocenza non è uno stato di perfezione al quale si debba desiderare di tornare; perché appena desiderata, essa è perduta […]. L’innocenza non è neanche uno stato di imperfezione nel quale non si possa rimanere; infatti, essa basta sempre a stessa e a chi l’ha perduta, in quel modo in cui essa solitamente può essere perduta […], cioè per propria colpa, non verrà in mente certo di esaltare la sua perfezione a scapito dell’innocenza. […] L’innocenza è ignoranza. Nell’ignoranza l’uomo non è determinato come spirito, ma è determinato psichicamente nell’unione immediata colla sua naturalità. Lo spirito dell’uomo è come sognante. […] In questo stato c’è pace e quiete; ma c’è, nello stesso tempo, qualcos’altro che non è né inquietudine né lotta, perché non c’è niente contro cui lottare. Allora, che cosa è? Il nulla. Ma quale effetto ha il nulla? Esso genera l’angoscia. Questo è il profondo mistero dell’innocenza: essa nello stesso tempo è angoscia. Sognando lo spirito, proietta la sua propria realtà; ma questa realtà è il nulla, questo nulla l’innocenza lo vede continuamente fuori di sé. L’angoscia è una determinazione dello spirito sognante […]. Nella veglia la differenza tra l’io e l’altro da me è posta; nel sonno è sospesa; nel sogno è un nulla accennato. La realtà dello spirito si mostra come continuamente come una figura che tenta la sua possibilità, ma appena egli cerca di afferrarla, essa si dilegua; essa è un nulla che può soltanto angosciare165.

165 BA, 407-409.

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Queste parole di Vigilius Haufniensis espongono concisamente alcuni temi nevralgici del

Concetto dell’angoscia, che verranno approfonditi in questo paragrafo con lo scopo di

mettere in luce sia gli elementi di continuità con la concezione schellinghiana precedentemente esposta, sia l’originalità e l’irriducibilità della proposta kierkegaardiana.

Vigilius inizia a delineare la sua concezione dello stato di innocenza umano (Uskyldigheden) contrapponendola alla definizione hegeliana di innocenza come “immediatezza”. Anche in questo caso, come precedentemente evidenziato, la critica di Kierkegaard non si limita solamente agli errori, alle incongruenze teoretiche della definizione hegeliana, ma ne mette in luce soprattutto le ripercussioni etiche. Non soltanto definire l’innocenza “l’immediato” significa collocarla in un campo di indagine che non le pertiene, la logica, ma soprattutto determina una disastrosa conseguenza etica. Per Hegel, infatti, la determinazione dell’immediato è quella di essere tolto, superato, mediato. Tuttavia, come messo in luce da Kierkegaard, non soltanto ciò è erroneo dal punto di vista logico, ma ancor più dal punto di vista etico:

Dal punto di vista logico, la frase non è nemmeno corretta; infatti, l’immediato non c’è alcun bisogno di toglierlo, giacché esso non esiste mai. Il concetto dell’immediatezza appartiene alla logica, il concetto dell’innocenza, invece, all’etica; e di ogni concetto si deve parlare in quella scienza alla quale esso appartiene […]. Ora è un andare contro l’etica, il dire che l’innocenza deve essere tolta: perché, anche se essa fosse tolta al momento in cui viene pronunziato il nome, l’etica vieta di dimenticare che l’innocenza può essere negata soltanto mediante la colpa166.

Se da una parte l’innocenza non è una condizione immediata, precaria, vicaria, che deve necessariamente essere superata e inverata in uno “stato” superiore; dall’altra parte, per

166 BA, 401.

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Kierkegaard non è neppure una condizione edenica di assoluta e divina perfezione, da tutelare e, se perduta, da ripristinare. Questa valutazione kierkegaardiana è strettamente dipendente dalla condizione dello spirito nello stato di innocenza. Prima di seguire la descrizione dell’innocente spirito sognante dell’uomo data da Vigilius Haufniensis, è opportuno comprendere cosa Kierkegaard intenda per “spirito”. Sulla definizione dell’uomo come spirito e sull’identificazione della sua libertà col divenire spirito, ruota tutta la concezione kierkegaardiana di temi nevralgici come la libertà, la disperazione e l’angoscia. Nella Malattia per la morte leggiamo:

L’uomo è spirito. Ma cos’è lo spirito? Lo spirito è l’io. E l’io cos’è? È un rapporto che si rapporta a se stesso oppure è, nel rapporto, il rapportarsi che il rapporto si rapporta a se stesso; l’io non è il rapporto, ma il rapportarsi a se stesso. L’uomo è una sintesi d’infinito e di finito, di tempo e di eternità, di possibilità e necessità, insomma una sintesi. Una sintesi è un rapporto tra due principi. Visto così, l’uomo non è ancora un io. Nel rapporto tra due principi, il rapporto è il terzo e come unità negativa i due si rapportano al rapporto e nel rapporto si mettono in rapporto col rapporto; un rapporto a questo modo è, sotto la determinazione dell’anima, il rapporto fra anima e corpo. Se invece il rapporto si mette in rapporto con se stesso, allora questo rapporto è il terzo positivo, e questo è l’io167.

Unicamente definito come sintesi l’uomo, quindi, non è ancora spirito. La sintesi tra i due poli, infatti, non porta a un positivo terzo o all’ “io”, ma affinché si possa superare questa mera unità negativa occorre che il rapporto si relazioni a se stesso. Anche nel Concetto dell’angoscia Kierkegaard dedica importanti passaggi alla definizione del concetto di “spirito”, concentrandosi, differentemente da quanto fatto nella Malattia per la morte, sulla coppia antitetica tempo/eternità: «L’uomo è una sintesi di anima e corpo. Ma la sintesi non

167 SD, 1665.

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è pensabile se i due elementi non si uniscono in un terzo. Questo terzo è lo spirito. [...] L’uomo, dunque, è detto sintesi di anima e corpo; ma, nello stesso tempo, egli è sintesi di tempo e di eternità. [...] La sintesi di tempo e di eternità non è un’altra sintesi, bensì l’espressione di quella prima, secondo la quale l’uomo è una sintesi di anima e corpo, portata dallo spirito»168.

Questo terzo elemento che viene introdotto, lo spirito, non ha il ruolo hegeliano di mediazione e risoluzione della contraddizione tra i due elementi antitetici della sintesi, ma quello di sostenerli, di mantenerli in sé. Ciò risulta ancor più chiaro dalla definizione di spirito fornita non tanto nella Malattia per la morte, quanto nel Concetto dell’angoscia: «L’uomo è una sintesi di anima e corpo, costituita e portata dallo spirito [corsivo mio]»169.

Lo spirito viene definito «un rapporto che si rapporta a se stesso (Selvet er et Forhold, der forholder sig til sig selv)»170, poiché si fa tale nel momento in cui pone il rapporto. Lo spirito, quindi, è indistinguibile dalla sua stessa attività. Lo spirito è il rapporto libero alla sintesi, una sintesi sproporzionata. L’io esistente, infatti, intrattiene costitutivamente una duplice relazione all’eterno: l’eterno inteso come polo della sintesi, quindi come l’eterno immanente, l’eterno nell’uomo, sia come Eterno trascendente, come quella potenza che ha posto in essere il rapporto – identificata nella seconda parte della Malattia per la morte con Dio. Ciò illumina l’altrettanto duplice contraddizione che l’uomo si trova continuamente ad affrontare: quella di essere uno spirito infinito esistente e quella di rapportarsi nel tempo all’Eterno – ulteriormente qualificato come contraddizione nel Cristianesimo, poiché Eterno venuto all’esistenza e divenuto nel tempo. Ora, «questo essere in estrema tensione tra gli opposti non è tuttavia da concepire come un esistere in mezzo tra due forze contraddittorie, ma all’interno di una vera dialettica, perché l’uomo è ogni volta uno dei due poli solo in

168 BA, 475; 481.

169 BA, 471. 170 SD, 1665.

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quanto è anche nello stesso momento l’altro»171. Per definire la struttura ontologica

dell’uomo, quindi, non basta metterne in luce il suo essere sintesi, ma il suo esistere come fondamentale contraddizione, quella di essere uno spirito infinito esistente.

Se è vero che l’uomo nasce con lo spirito, tuttavia nello stato di innocenza egli non è determinato come spirito. Con questo Kierkegaard non vuole implicitamente sostenere che prima della caduta l’uomo sia totalmente diverso da essere spirito. Egli, piuttosto, non si sa come spirito, non è spirito in modo dispiegato, ma è spirito «sognante», determinato solo «psichicamente». È, detto in altri termini, rapporto a quell’unità di finito e infinito, tempo e eternità, possibilità e necessità, non in modo assolutamente libero e cosciente, ma immediato e “naturale”. La sua vera e propria autorealizzazione avverrà nel momento in cui questo rapporto sarà non subìto immediatamente, ma scelto liberamente, nel momento in cui non sarà solo passivamente accolto, ma anche attivamente posto. Rispetto alla possibilità futura di realizzazione di sé, lo spirito è sognante: l’uomo “innocente”, infatti, “sogna”, proietta come futura la sua stessa possibilità di attualizzarsi e di divenire spirito. Poiché l’uomo non è ancora determinato come spirito, allora la sua realtà è per lui ancora un nulla che angoscia. Come riportato precedentemente, nello stato di innocenza, quindi, «c’è pace e quiete; ma c’è, nello stesso tempo, qualcos’altro che non è né inquietudine né lotta, perché non c’è niente contro cui lottare. Allora, che cosa è? Il nulla. Ma quale effetto ha il nulla? Esso genera l’angoscia. Questo è il profondo mistero dell’innocenza: essa nello stesso tempo è angoscia»172. L’angoscia è un fenomeno psicologicamente ambiguo: è una forza che affascina e allo stesso tempo respinge, è una «antipatia simpatica e una simpatia antipatica (en symphathetisk Antipathie og en antipathetisk Sympathie)»173.

171 Faber, B., La contraddizione sofferente, La teoria del tragico in Sören Kierkegaard, Il Poligrafo, Padova,

1998, p. 118.

172 BA, 407. 173 BA, 411.

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Tale nulla l’individuo, sognando, lo proietta fuori di sé come qualcosa di esterno e di altro da sé. Lo spirito, in conclusione, sognando si rapporta a se stesso, alla sua possibilità, non alla sua realtà, quindi a qualcosa che, nel momento presente, è ancora un nulla. La realtà dello spirito, quindi, viene ritratta da Kierkegaard come quella «figura che tenta la sua possibilità»174. In questa condizione di innocenza, da una parte lo spirito si rapporta a se stesso come angoscia e non può smettere di farlo, non potendosi liberare da se stesso; dall’altra parte, non può neppure afferrare se stesso, poiché, in quanto sognante, trova se stesso costantemente e unicamente fuori di sé:

Qual è, dunque, il rapporto con questa potenza ambigua, il rapporto dello spirito con se stesso e con la sua condizione? Esso si rapporta come angoscia. Liberarsi di se stesso non è possibile per lo spirito; afferrare se stesso non gli è neppure possibile finché esso trova se stesso fuori di sé; lasciarsi sprofondare nella vita vegetativa non è possibile per l’uomo, perché egli è determinato come spirito; fuggire l’angoscia non può, perché l’ama; amarla propriamente non può, perché la fugge175.

Sebbene nel sogno dell’innocenza lo spirito sia inconsapevole di sé come spirito, questa ignoranza di sé non è un’ignoranza assoluta e bestiale, ma un’ignoranza che presentisce e che genera angoscia. Come accennato nella citazione iniziale, l’oggetto dell’angoscia è il nulla176, che insieme affascina e spaventa. Poiché la possibilità si mostra come qualcosa di

174 BA, 409.

175 BA, 413.

176 In questo consiste la differenza tra paura (“Frygt”) e angoscia (“Angest”): «Poiché il concetto dell’angoscia

non si trova quasi mai trattato nella psicologia, io devo richiamare l’attenzione sul fatto ch’esso è completamente diverso da quello del timore e da simili concetti che si riferiscono a qualcosa di determinato, mentre invece l’angoscia è la realtà della libertà come possibilità per la possibilità» (BA, 409-411). La paura si riferisce sempre a qualcosa di specifico; l’angoscia, al contrario, non ha un oggetto determinato – o meglio, il suo oggetto è il niente. Su questa importante distinzione riposa anche la scelta della traduzione del termine danese Angest. Esiste una copiosa letteratura e un annoso dibattito – soprattutto in ambiente americano – sulla storia delle traduzioni scelte per questa espressione. A tale tema, ad esempio, è dedicato un capitolo del lavoro di Beabout, Freedom and its misuses: Kierkegaard on anxiety and despair. L’autore critica la scelta interpretativa di Walter Lowrie, che nel 1943 rese il danese Angest con l’inglese Dread, poiché tale termine avrebbe piuttosto la connotazione di “timore”, “paura” di qualcosa: «There are several solid reasons for

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indeterminato, come un nulla prima della sua attualizzazione, proprio per questo il puro potere della libertà genera angoscia nell’uomo: «Solo un essere “destinato” alla libertà può provare angoscia»177. Tale nulla è quindi l’infinitezza e l’indeterminatezza del potere della libertà, prima di ogni scelta e di ogni concretizzazione; è l’impossibilità per la libertà, appena destatasi ma non ancora realizzatesi, di conoscere ciò che effettivamente può: «L’angoscia ha quindi la sua genesi nel nulla dello spirito, nella sua apertura e indeterminatezza, nel fatto che l’individuo si fa con le sue scelte e le sue decisioni e quindi, prima della scelta, non è ancora ciò che sarà, è ancora “nulla”»178.

Per Kierkegaard, quindi, nello stato di innocenza, prima che la colpa prorompi nel salto qualitativo, è assente la conoscenza della differenza tra il bene e il male. Ciò ci rende ancor più chiaro perché Kierkegaard rigetti l’idea che sia stato il divieto divino a svegliare la concupiscenza di Adamo e così ad inclinarlo al peccato. Se il divieto, infatti, avesse destato il desiderio, allora dovremmo supporre una qualche conoscenza nello stato di innocenza: la conoscenza della libertà. La libertà dovrebbe essere saputa se si sentisse il desiderio di farne uso. Per il nostro autore, invece, lo stato di innocenza è caratterizzato da questa ignoranza, non ignoranza assoluta, ma un sapere che ha come oggetto il niente, un sapere che significa ignoranza: «Ora l’innocenza è giunta al suo vertice. Essa è ignoranza, ma non una brutalità animalesca; è anzi un’ignoranza determinata dallo spirito e proprio per questo è angoscia, perché la sua ignoranza dello spirito ha per oggetto il nulla. Qui non è nessuna conoscenza del bene e del male o qualcosa come il nulla immenso dell’ignoranza»179. Al massimo, è

corretto dire che il divieto angoscia Adamo poiché sveglia in lui la possibilità della libertà,

preferring the term “anxiety” to “dread”. “Anxiety” is etymologically closer to the Danish than is “dread”. In English, “dread” generally has the connotation of fear of something; it would be odd for an English speaker to express dread of “nothing” whereas it is not so odd to be anxious about nothing» (Beabout, G. R., Freedom

and its misuses: Kierkegaard on anxiety and despair, Marquette University Press, Milwaukee, 1996, p. 17). 177 Saraceno, La vertigine della libertà. L’angoscia in Søren Kierkegaard, cit., p. 47.

178 Garaventa, Lezioni di filosofia - il problema della libertà in Kierkegaard, conferenza tenuta il 23 Aprile

2015 a Brescia, organizzata dalla Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.

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una possibilità come infinito e indifferenziato potere, di cui ancora egli non sa nulla. Allo stesso modo, la condanna divina che segue al divieto, «allora tu dovrai certamente morire» (Gen., 3, 18), non aggiunge niente all’ignoranza adamitica, ma intensifica l’angoscia iniziale, aggiungendo all’infinita possibilità di potere una conseguenza altrettanto possibile, non saputa, indefinita e quindi altrettanto angosciante. La psicologia, l’indagine appropriata al fenomeno dell’angoscia, quindi, è in grado al più di approssimarsi alla condizione di intensificazione massima dell’angoscia nella stato di innocenza, ma non può mai afferrare quel “surplus” qualitativo che spiega il passaggio dall’innocenza al peccato.

Alla luce di tutte queste considerazioni sulle caratteristiche dello stato di innocenza, si comprende ancor meglio quanto accennato precedentemente: per Kierkegaard la condizione edenica non è uno stato di perfezione, precedente la caduta, non è uno status integritatis da dover ripristinare e da agognare con nostalgia. In esso, infatti, l’uomo manca di una dispiegata libertà, di una reale conoscenza e, soprattutto, in esso l’uomo non è simile a Dio. La libertà, quindi, non è qualcosa di originariamente posseduto, andato perso con la caduta e ripristinabile unicamente per mezzo dell’intervento divino (così come lo era per Schelling), ma è qualcosa che ha da venire, che deve essere realizzato, è quell’obiettivo, quel compito che ogni singolo individuo è chiamato a realizzare nella sua personale esistenza.

L’uomo nello stato di innocenza non è fattualmente libero. In esso l’uomo ha solo un sentore, un presentimento della libertà, la quale si erge di fronte a lui come un infinito e indeterminato potere, come la «possibilità della possibilità». L’uomo nasce con la possibilità della libertà e quindi non realmente libero. Come affermato da Kierkegaard e ribadito da un autore come Pareyson, la libertà non è mai possibile, ma non appena è, è reale180. Questo stato di non completo dispiegamento della libertà si evince anche dall’incapacità di Adamo

180 Cfr. anche Schulz, H., To Believe is to Be, Reflections on Kierkegaard's Phenomenology of (Un-) Freedom in The Sickness unto Death, in Kierkegaard Studies Yearbook, De Gruyter, 1996, Copenhagen, p. 167:

«Freedom is not identical with the possibility, but with the facticity of possibility (viz. the facticity of being capable)».

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di comprendere il significato del divieto divino di non mangiare dall’albero della conoscenza. Egli non può afferrare la differenza tra bene e male poiché essa si dà solo nella libertà. L’uomo, solo se fattualmente libero, può compiere il bene e conoscere realmente la differenza tra bene e male. Infatti, come messo in luce da Vigilius, il contenuto della libertà è la verità: «Il contenuto della libertà, dal punto di vista intellettuale, è la verità; e la verità rende libero l’uomo»181.

Nel momento in cui l’individuo pecca, quindi, non è realmente libero e tuttavia questo atto gli è imputato come se lo fosse. In ciò consiste l’assoluta paradossalità del peccato umano, ciò che lo rende inafferrabile concettualmente, senza la previa illuminazione della Rivelazione. Vigilius Haufniensis, quindi, è assolutamente distante e contrario alla concezione schellinghiana della libertà come autodeterminazione e come proprietà permanente, essenziale dell’essere umano: «Come il peccato non è da sempre ma sorge nella vita dell’individuo, così pure la libertà nasce: liberi non si è da sempre, ma si diventa liberi [corsivo mio]»182.

Più precisamente, nella situazione di innocenza la libertà è definita da Vigilius Haufniensis «hildet Frihed» (tr. it. “libertà impastoiata”, tr. eng. “entangled freedom”). Si tratta di una libertà incatenata, legata non per colpa della sola caduta di Adamo, né per un qualche intervento esterno necessitante, ma in se stessa e da se stessa. Questa espressione di difficile decifrazione ritrae l’ambiguità e la paradossalità del venire all’esistenza del primo peccato. A peccare è, dunque, una libertà non libera183. L’uomo pecca per la prima volta in

181 BA, 555.

182 Rocca, E., Kierkegaard, Carocci, Roma, 2013, p. 139.

183 La dimensione di paradossale auto-incatenamento della libertà, che rende altrettanto incomprensibili e

ambigui il venire all’esistenza del peccato e la condizione dell’individuo nel momento in cui si accinge a peccare, è invece ridimensionata da chi – come Vanessa Rumble – concepisce la libertà dell’uomo nello stato di innocenza come assoluta e dispiegata. Per questo l’ambiguità che anima il Concetto dell’angoscia è appiattita a una mera opposizione tra un’assoluta libertà e la “natura”, l’elemento necessitante del singolo: «Haufniensis oscillates between (1) claiming an absolute freedom which we assume in the “qualitative leap” and (2) attribuiting the individual’s “fall” to an anxiety magnified to unbereable proportions» (Rumble, V., The

Ambiguity of the oracle and consciousness of freedom, in Eadem, The oracle’s ambiguity: Freedom and Original Sin in Kierkegaard’s The Concept of Anxiety, cit., p. 619).

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un modo che ci rimane inesplicabile e che quindi può essere solo creduto grazie alla Rivelazione di cosa sia lo stesso peccato – come più volte ribadito da Anti-Climacus nella Malattia per la morte. Come il peccato, anche la libertà non viene ad essere grazie all’attività mediatrice di uno stato o di un fenomeno precedente, ma irrompe con un salto qualitativo, con una trascendenza tale da far inorridire e retrocedere il pensiero: «La libertà non è preceduta che dalla libertà stessa. La libertà è senza preavviso. [...] La libertà è postulata dalla libertà stessa: è un atto di libertà quello che afferma la libertà. [...] Non c´è dimostrazione o deduzione della libertà: appunto perciò tanto meno c’è una definizione»184.

La libertà non solo non è seguita che da se stessa – come Vigilius afferma, infatti, anche il