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Capitolo II: La libertà del primo uomo

4. Kierkegaard e Schelling in dialogo

Nella definizione dell’essere umano come spirito scorgiamo una parziale assonanza con quanto affermato da Schelling a proposito della costituzione dell’essere umano in tutto il periodo di produzione dal 1809 al 1841-42. L’uomo viene descritto come “essere intermedio”, ontologicamente scisso al suo interno e per questo reso dinamico. Nelle Ricerche sull’essenza della libertà umana, la natura umana è descritta come una sintesi,

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come un rapporto dinamico tra «fondamento» e «intelletto», tra luce e tenebre. Come per Kierkegaard tale sintesi non è posta una volta per tutte, ma può essere rivisitata da ogni singolo individuo, anche per Schelling la libertà consiste nella realizzazione di questo rapporto, nello scegliere “attivamente” quella condizione in cui l’uomo si trova già dall’inizio, già dalla creazione, quella posizione “centrale” all’interno della natura, in virtù della quale è stato concepito e creato da Dio. Anche nel successivo corso berlinese la posizione di Schelling appare sostanzialmente immutata. Sebbene la sua filosofia si sia arricchita nel corso degli anni della «teoria delle potenze», ciò che permane è l’idea di una libertà di realizzarsi come ciò che l’uomo è già, ma nel rispetto dell’ordine costituito per l’uomo da Dio.

Anche secondo Kierkegaard è la possibilità di divenire spirito, di realizzarsi nel tempo come spirito a costituire la libertà umana. In relazione ad entrambi i filosofi, quindi, piuttosto che parlare di “ontologia” sarebbe più appropriato parlare di “me-ontologia”. La μή οντολογία, infatti, pensa l’essere dal punto di vista del divenire. L’ente è, quindi, creato non già perfettamente e conchiusamente determinato, ma deve realizzarsi come tale. Questo movimento è un passaggio da qualcosa semplicemente in potenza a qualcosa di reale, di attualizzato, un passaggio da un non essere (un non-essere-ancora) all’essere, dal μή εἶναι all’εἶναι. Nonostante questa rilevante affinità, i due autori approdano a due risultati diversi: la prospettiva schellinghiana rimane pur sempre una metafisica della libertà, mentre quella kierkegaardiana può essere definita una fenomenologia della libertà. Se è vero che per entrambi la libertà non è una facoltà e una capacità che l’uomo possiede anche prima di esercitarla, ma diviene reale, è, soltanto nel momento stesso in cui viene agita, Schelling sembra ammettere questa attualizzazione della libertà soltanto in una determinata occasione, in quella dimensione extra-temporale delle Ricerche filosofiche o in quella condizione divina edenica delle Lezioni berlinesi. L’esistenza terrena e quotidiana del singolo individuo non si

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trova a dover fare i conti con l’esigenza di un costante rinnovamento di questa scelta e di questa concretizzazione della libertà. Piuttosto, essa è tragicamente segnata dalla scelta compiuta, come una necessità che si impone all’individuo, come un fato che egli si limita ad accettare. Per Kierkegaard, invece, «avere un io, essere un io, è la più grande concessione fatta all'uomo; ma, nello stesso tempo, è l'esigenza che l'eternità pretende da lui»190, un’esigenza che deve essere soddisfatta in ogni momento della vita del singolo. La libertà, una volta realizzata, non è acquisita una volta per tutte, ma deve essere rinnovata dal singolo nella realizzazione appassionata di sé nella sua esistenza.

Come più volte sottolineato, per Kierkegaard la libertà umana consiste nel divenire se stessi, divenire “spirito”. In realtà, divenire, porre se stessi significa qualcosa in più: l’individuo non è soltanto quel tertium che, mediando, pone la sintesi, ma anche un rapporto che è posto in essere da un altro. Riprendendo la definizione iniziale della Malattia per la morte, Anti-Climacus prosegue affermando:

Un tale rapporto che si rapporta a se stesso, un io, o deve essere posto da se stesso o deve essere stato posto da un altro. Se il rapporto che si mette in rapporto con se stesso è stato posto da un altro, il rapporto è certamente il terzo, ma questo rapporto, il terzo, è poi a sua volta un rapporto che si mette in rapporto con ciò che ha posto il rapporto intero. Un tale rapporto derivato, posto, è l’io dell’uomo; un rapporto che si mette in rapporto con se stesso e, mettendosi in rapporto con se stesso, si mette in rapporto con un altro191.

L’io, quindi, non è un rapporto autofondativo, ma derivato. La sua libertà, allora, si dispiega completamente nel momento in cui l’io, mettendosi in rapporto a se stesso, si mette in rapporto anche con la potenza che l’ha posto. Questa è proprio la definizione della fede

190 SD, 1667.

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data da Anti-Climacus: «La fede è: che l’io, essendo se stesso e volendo essere stesso si fonda trasparente in Dio»192. Attraverso e soltanto attraverso la fede, l’uomo è in grado di sapersi per quello che realmente è: «Il paganesimo diceva: conosci te stesso. Il Cristianesimo dice: no, questo non è che il preambolo. Conosci te stesso – e poi guardati nello specchio della Parola per conoscerti veramente. Non c’è alcuna vera conoscenza di se stesso, senza la conoscenza di Dio. Specchiarsi qui è stare davanti a Dio»193.

Rispetto a Schelling, Kierkegaard non focalizza la sua attenzione sulle problematiche teoretiche sollevate dall’ammissione della libertà umana in relazione all’onnipotenza divina, cioè sul secolare tema della teodicea. L’autore danese, infatti, è senza dubbio più interessato a delineare, quasi “fenomenologicamente”, le varie forme di uso e di abuso della libertà da parte del singolo individuo. Schelling, invece, concentra gran parte dei suoi sforzi filosofici nel tentativo di dare una risposta a tale problematica, una problematica che la sua stessa produzione precedente – la filosofia dell’identità, in particolare – apriva. In sintesi, come precedentemente illustrato, per Schelling Dio non predetermina la libertà dell’uomo, ma costituisce la fonte della sua autodeterminazione. Quindi l’uomo è più intimamente unito con Dio quando è libero e viceversa.

Ciò nonostante, Kierkegaard spende alcune parole a tal proposito, che, pur nella loro abissale differenza, sembrano concordare con lo Schelling delle Ricerche sull’essenza della libertà umana: la libertà umana non minaccia, non mette in crisi l’onnipotenza divina, ma anzi ne costituisce la prova. Dall’altra parte, una reale libertà è tale soltanto se pensata allo stesso tempo come completa dipendenza – dipendenza, cioè, dalla potenza creatrice. Kierkegaard annota, infatti, in un passo del suo Diario:

192 SD, 1765.

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La cosa più alta che si può fare per un essere è renderlo libero. Per poterlo fare, è necessaria precisamente l’onnipotenza. Questo sembra strano perché l’onnipotenza dovrebbe rendere dipendente. Ma se si vuol veramente concepire l’onnipotenza, si vedrà che essa comporta precisamente la determinazione di poter riprendere se stessi nella manifestazione dell’onnipotenza, in modo che appunto per questo la cosa creata possa, per via dell’onnipotenza, essere indipendente. […] Soltanto l’onnipotenza può riprendere se stessa mentre si dona, e questo rapporto costituisce appunto l’indipendenza di colui che riceve194.

Quindi, Dio si comporta nei confronti della sua massima creatura, l’uomo, come un educatore con il fanciullo: lo abbandona a se stesso nei limiti del possibile, nei limiti concessi dal metodo educativo, e tuttavia lo fa solo apparentemente. Il pedagogo, infatti, continua a sorvegliare il discepolo senza che quest’ultimo se ne accorga. Solo apparentemente, quindi, la libertà sembra dispiegarsi come possibilità di scegliere indifferente tra due opzioni che si schiudono innanzi all’individuo: il rapportarsi alla potenza ponente, Dio, o svincolarsene. In realtà, la libertà è sempre e soltanto la scelta di se stessi, cioè di sé come spirito che deve autorealizzarsi, fondendosi a sua volta nella potenza che l’ha posto195. Paradossalmente,

quindi, «dipendere da Dio con una dipendenza completa è l’indipendenza autentica»196. Ciò

rende comprensibile non soltanto la critica kierkegaardiana al sistema del liberum arbitrium, ma anche l’inizialmente criptica asserzione secondo cui la libertà è il bene:

194 Pap. VII A 181; D, 1016.

195 «La possibilità che l’uomo ha di essere libero gli è data dalla necessità che l’io ha di scegliere ciò che gli ha

donato la possibilità di farlo, di scegliere ciò che con la sua scelta lo ponga in una condizione di indipendenza rispetto al finito» (Saraceno, La vertigine della libertà. L’angoscia in Søren Kierkegaard, cit., p. 81).

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Il bene non si lascia definire affatto. Il bene è la libertà. Soltanto per la libertà e nella libertà è la differenza tra il bene e il male, e questa differenza non è mai in abstracto, ma soltanto in concreto. […] Se si dà alla libertà un momento per scegliere tra il bene e il male, senza essere essa stessa in uno dei due opposti, la libertà, in quel momento, non è libertà, ma una riflessione senza senso197.

Il libero arbitrio non è, quindi, per Kierkegaard la vera e positiva libertà. Esso, infatti, sembrerebbe ammettere la capacità di scegliere il bene e il male, rendendo queste due alternative inessenziali. La critica kierkegaardiana alla teoria del libero arbitrio ruota dunque intorno all’indifferenza di una scelta che parte da una posizione di neutralità rispetto al bene e al male. Ritengo sia particolarmente illuminante quanto Kierkegaard annota a tal proposito nel suo Diario, ponendosi apertamente in continuità con Agostino e con chi, come lui, tra i moderni critichi l’astrattezza del libero arbitrio:

Tanto S. Agostino come molti moderni hanno mostrato che è un’illusione il concepire questo libero arbitrio in astratto (liberum arbitrium); come se un uomo in ogni momento della vita si trovasse sempre fornito di questa possibilità astratta – di modo che in fondo non si muoverebbe mai dal posto – come se la libertà non fosse nello stesso tempo uno stato storico. […] Pensate a una bilancia di precisione: quando è stata usata anche solo per 8 giorni, ha già una storia. Il proprietario è ormai al corrente di questo fatto storico, che la bilancia tende a propendere da una parte o dall’altra: una storia che continua a secondo dell’uso che se ne fa. Anche la volontà ha una storia, una storia ininterrotta, la quale può far sì che un uomo perda in ultimo perfino la facoltà di poter scegliere. Con questo però la storia non è finita. Perché, come Agostino dice giustamente, questo stato è la punizione del peccato, ed è ancora peccato198.

197 BA, 515.

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Il liberum arbitrium non è che una scelta indifferente, in abstracto, presa senza trovarsi in uno o nell’altro dei due opposti. Ma ciò è eticamente impossibile per un individuo realmente esistente. L’uomo, infatti, non nasce in un ambiente, in un contesto storico, sociale, familiare, completamente “asettico”, ma già segnato da una propria storia, da scelte compiute da altri, che se certamente non necessita l’individuo, non può non influenzarlo e inclinarlo: «La libertà ha una costituzione storica: non comincia mai soltanto da se stessa e non ricomincia mai del tutto da capo, ma si colloca in un contesto storico che influisce su di essa. L’io come essere totalmente autonomo e libero è una finzione e un’astrazione, dato che la libertà ha già sempre a che fare con delle strutture di illibertà e di peccato esistenti e insuperabili»199. Inoltre, la scelta non può essere indifferente poiché l’uomo, scegliendo la

libertà, “sceglie se stesso”: «Il contenuto della libertà è decisivo a tal punto per la libertà, che la verità della libertà di scelta è appunto di ammettere che qui non ci deve essere scelta, benché sia una scelta. Questo è essere “spirito”. […] La riflessione […] si mette a fissare la libertà di scelta invece di rammentare il principio: “non vi dev’essere scelta” – e poi scegliere»200.

In sintesi, quindi, Kierkegaard in vari passi critica la concezione della libertà come libero arbitrio, non tanto – come invece fa Schelling – perché un’arbitraria scelta tra due alternative equipollenti si rivelerebbe essere un atto tutt’altro che razionale, ma poiché indicherebbe un’indifferenza della libertà nella scelta. Al contrario, secondo Kierkegaard, la libertà non è mai astratta, non è mai un attore oggettivo, non coinvolto nella decisione stessa, ma è sempre segnata dalla propria “storia psicologica”, per utilizzare le parole di Heiko Schulz: «La libertà ha sempre, per così dire, una storia psicologica, che è in definitiva basata

199 Garaventa, Lezioni di filosofia - il problema della libertà in Kierkegaard, cit. 200 Pap. X2A 428; D, 2148-9.

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sull’interesse dell’individuo per se stesso e sul suo (angosciato) tentativo o di affermare e preservare o di scampare dalla propria libertà»201.

Sia per Kierkegaard sia per Schelling, la libertà è quindi un’esigenza da cui non si sfugge, è l’elemento di necessità dell’essere dell’uomo. Per questo agli occhi di Kierkegaard l’arbitraria libertà di scelta è esistenzialmente ed eticamente impossibile. L’essere umano, al contrario, è paradossalmente un ente legato alla libertà.

Date queste premesse, è possibile comprendere la distanza tra la concezione kierkegaardiana e il concetto schellinghiano di libertà. La libertà per Kierkegaard non può essere quella capacità moralmente ed esistenzialmente neutrale di scegliere indifferentemente il bene e il male. Essa, infatti, è tale quando l’uomo si realizza conformemente alla sua natura e destinazione, quando, cioè, si risolve per il bene, per l’infinito, per l’eternità, per Dio. L’individuo, infatti, in quanto rapporto che non si fonda autonomamente, ma che è posto dall’Altro, da Dio, realizza se stesso non creandosi dal nulla, ma scegliendo quello che da sempre già è. Ciò che uno sceglie è in qualche modo già posto: «Dunque, scegliere noi stessi significa divenire noi stessi nel senso di raggiungere noi stessi»202. Per questo nella Malattia per la morte lo spirito è detto anche rapporto alla sintesi

di necessità e possibilità. Qui la necessità consiste nell’imprescindibile essere che l’uomo riceve passivamente, posto da Dio, dalla potenza che ha creato e posto in essere il rapporto. Allo stesso tempo l’uomo ha la possibilità di realizzare ciò che da sempre è203. Per questo il

“divenire spirito” è un divenire del tutto particolare, non assimilabile ad altro processo e

201 Tr. it. mia. «Freedom always has, so to speak, a psychological history, which is ultimately based on a

person’s interest in himself and on his (anxious) attempt either to affirm and preserver or to flee from his own freedom» (Schulz, To Believe is to Be, Reflections on Kierkegaard's Phenomenology of (Un-) Freedom in The Sickness unto Death, cit., p. 174).

202 Trad. it. mia. «Thus, to choose ourselves means becoming ourselves in the sense of coming to ourselves»

(Grøn, A., Begrebet angst hos Søren Kierkegaard, 1994, trad. ing. di Knox, J. B. C., The Concept of Anxiety

in Søren Kierkegaard, Mercer University Press, Macon, Georgia, 2008, p. 77).

203 «L’io κατὰ δύναμιν è tanto possibile quanto necessario; è vero ch’è se stesso, ma deve pure diventare se

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sviluppo esistente: l’io «in quanto è se stesso è necessario, in quanto deve diventare se stesso è una possibilità. [...] Il posto è propriamente il movimento necessario, e diventare se stesso è propriamente un movimento sul posto»204.

Poiché l’io kierkegaardiano è un rapporto che nel momento in cui si mette in rapporto con se stesso, si scopre in relazione con la potenza che lo ha posto in essere, la sua autorealizzazione, perciò, non può prescindere dal confronto con un criterio esterno ed eteronomo che ne costituisce la “misura” (Maalestok) – per utilizzare le parole di Anti- Climacus nella Malattia per la morte205. Per Kierkegaard, quindi, la soggettività umana è posta in una relazione interessata, impellente e imprescindibile a qualcosa di diverso da sé. Si tratta di una concezione dell’io umano radicalmente diversa da quella cartesiana e kantiana, secondo cui invece l’io è concepito come razionalità autolegislativa, la quale agisce in accordo a leggi innate e autoposte e in relazione a cui la libertà non può che essere pensata come autonomia. Come relazione a qualcosa di esterno e diverso da sé, invece, l’uomo trova in esso il criterio della sua realizzazione – potremmo dire “ontologica” e insieme “etica”. La libertà umana allora non si configura come l’indeterminata e arbitraria facoltà di scegliere tra un orizzonte di indifferenti e infinite possibilità, ma nella realizzazione di sé come spirito, cioè come un io “posto”. Per la libertà, quindi, non vi è che una sola possibilità, non vi è che una sola scelta, una scelta infinita da compiere infinitamente. Al contrario, la concezione kantiana agli occhi di Kierkegaard priverebbe la scelta della libertà di questa assolutezza e urgenza:

204 Ibidem.

205 «Nella parte precedente è stata continuamente dimostrata una gradazione nella coscienza del proprio io; il

primo grado era l’ignoranza di avere un io eterno […], il secondo, la consapevolezza di avere un io in cui c’è qualcosa di eterno […]. A tutta questa considerazione si deve dare ora, dialetticamente, una nuova piega. Il problema è questo: la gradazione nella coscienza del proprio io […] si svolge entro la determinazione dell’io umano, o dell’io la cui misura è l’uomo. Ma una nuova qualità e qualificazione acquista quest’io per il fatto ch’esso è un io di fronte a Dio. Quest’io non è più l’io meramente umano, ma è ciò che […] vorrei chiamare l’io teologico. È l’io di fronte a Dio. E che realtà infinita non acquista l’io acquistando coscienza di esistere davanti a Dio, diventando un io umano, la cui misura è Dio!» (SD, 1761).

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Kant pensa che l’uomo sia a se stesso la sua legge (autonomia), cioè, che si leghi alla legge ch’egli stesso si è data. […] Questa diventerà una cosa così poco seria, come i colpi che Sancio Panza si dà sulla schiena. È impossibile che in A io possa essere effettivamente più severo di quel ch’io sono in B o che possa desiderare a me stesso di esserlo. Se si deve fare sul serio, ci deve essere costrizione. Se ciò che lega, non è qualcosa di più alto dell’Io stesso e tocca a me legare me stesso, dove allora come A (colui che lega) dovrei prendere la severità che non ho come B (colui che dev’essere legato), una volta che A e B sono il medesimo Io?206

Se, da una parte sia Kierkegaard sia Schelling sono concordi sulla critica alla riduzione della libertà a liberum arbitrium, dall’altra, invece, Kierkegaard si distanzia dal «concetto reale e vivente di libertà» schellinghiano – libertà come facoltà del bene e del male – poiché «parlare del bene e del male come se fossero l’oggetto della libertà vuol dire rendere finiti tanto la libertà quanto i concetti di bene e di male»207. Mentre per Schelling il male può essere una modalità di realizzazione, di esplicazione dell’essere-libero dell’uomo, per Kierkegaard, invece, la libertà è tale solo escludendo la possibilità del male: «il bene è la libertà»208. La scelta, allora, di svincolarsi, di rifiutare Dio, la potenza che ci ha posti, aspirando ad un’auto-posizione, non è una possibile realizzazione della libertà, ma è peccato.

206 Pap. X2 A 396; D, 2131.

207 BA, 517. 208 BA, 515.

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