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Filosofia della Rivelazione: la libertà «condizionata» del primo uomo

Capitolo II: La libertà del primo uomo

2. Filosofia della Rivelazione: la libertà «condizionata» del primo uomo

Nelle Ricerche filosofiche, quindi, la libertà è definita come facoltà del bene e del male. Seppur la libertà non sia una facoltà sussistente anche indipendentemente dal suo concreto attuarsi, ma il suo essere coincida con il suo essere agita, tuttavia tale concretizzazione risulta

147 Trad. it. mia. «Nature, or being, is already from the beginning filled with a divine yearning to become what

is given in potentiality – nature (or being) has the existential task of becoming itself: “the yearning the eternal One feels to give birth to God”. Every entity in nature has in itself a divine will to know of itself and to become itself – that is, to freely become what is primordially give as potentiality» (Larsen, Schelling and Kierkegaard

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indipendente dal suo contenuto. Non avrebbe altrimenti senso parlare di una facoltà sia di determinarsi al bene che al male. In entrambi i casi, però, nel momento stesso in cui questo atto di libertà prende corpo e si attualizza, esso si cristallizza nella forma e nel valore di una necessità in relazione alla vita terrena ed empirica del singolo. Al contrario, in Filosofia della

Rivelazione, la libertà umana viene fatta consistere nel mantenimento di una condizione di

centralità tra le determinazioni immanenti di Dio, in cui l’uomo era stato creato. Schelling, quindi, qui sembra approdare ad un risultato diverso. In questa nuova prospettiva, il primo atto dell’uomo si rivela tragicamente peccaminoso. La prima azione umana è una caduta, un drammatico scacco.

Prima di addentrarsi nell’elaborazione teorica berlinese della libertà dell’Urmensch occorre gettar luce – seppur sommariamente – sull’elemento di novità di questo corso: la teoria delle potenze. In realtà questa teoria inizia a delinearsi già dal periodo delle Lezioni di

Stoccarda, in cui il fondamento originario, l’Ur-Wesen, inizialmente pensato come

indifferenza e indistinzione, è descritto nel suo processo di interiore auto-dialettizzazione nelle proprie determinazioni. Ora, questo processo di Dio, questo uscire fuori dalla propria involuzione per infrangere l’assoluta identità della sua essenza, non è un movimento necessario, ma il frutto della libera scelta di Dio stesso. Possiamo quindi affermare che a Berlino tale teoria assume la sua forma più compiuta e sistematica. Tuttavia, non può essere questo il momento e il luogo adatto per presentare nel dettaglio lo sviluppo concettuale elaborato da Schelling per arrivare a definire i tre principi, le tre immanenti determinazioni dell’Uno. Rimando, quindi, all’esauriente e, allo stesso tempo, concisa presentazione di Adriano Bausola, sia nell’Introduzione al corso berlinese da lui stesso curato e tradotto, sia nella sua opera Metafisica e rivelazione nella filosofia positiva di Schelling. Limitatamente all’interesse di questo lavoro, cercherò di toccare solamente i punti chiave ed esaustivi dell’argomentazione schellinghiana.

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La filosofia negativa con il solo ausilio della ragione giunge unicamente al risultato di riconoscere come suo oggetto l’infinita potenza di essere. Tale potenza d’essere è ciò che incondizionatamente può passare a potentia ad actum, ma che, una volta passata nell’essere, attualizzatesi, non è in grado di tornare indietro, di ripristinare la sua condizione iniziale di potenzialità. Essa, infatti, non potrebbe costituire da sola ciò che precede l’essere, la libertà originaria, in quanto trapassa nell’essere senza libertà, ciecamente. Tuttavia, la pura potenza d’essere può venir trattenuta al di qua di questo naturale attuarsi, di questo trapassare nell’essere, dal puramente essente che essa stessa è. La potenza di essere, infatti, proprio perché tale, ha la possibilità di realizzarsi o meno come tale: «Ciò che sarà è la potenza di essere, e anche non lo è. Lo è, cioè, se la potenza di essere non si muove, non si eleva all’essere; ma esso anche non lo è, cioè non è in modo tale da non poter essere anche l’opposto»148. In ciò consiste la sua natura “ancipite”.

È opportuno insistere su questo punto: non si tratta di due principi diversi, sussistenti autonomamente, ma della stessa ragione, che ora si dà come infinita potenza di conoscere, come soggetto, ora come infinita potenza di essere, come oggetto: «La potenza d’essere è contrastata nel suo tendere infinito all’essere della sua stessa oggettività che da quella tensione è stata generata». Tale puramente essente è l’essente infinito, non limitato da alcun potere, trapassato nell’essere prima di ogni pensiero, in modo immemorabile (in ted. “unvordenklicher Weise in das Seyn übergehen”). Ciò che secondo la sua prima determinazione è la potenza d’essere, in una seconda determinazione è il puramente essente. Essi non sono essenti ciascuno per sé, ma solo determinazioni dell’Uno sovrareale, di un’unica e medesima realtà. Il fine non può trovarsi in una di queste due determinazioni, ma in un Terzo, l’essente in virtù di se stesso, il quale presuppone la potenza e l’essente, ma è libero da entrambi. In questo modo tale Terzo supera l’unilateralità delle due determinazioni:

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«Esso è liberato dall’unilateralità in quanto potenza di essere per il fatto di essere il puramente essente, e dalla sua unilateralità in quanto puramente essente per il fatto di essere anche la potenza di essere»149.

Tale Terzo è quindi ciò che, se essente, non cessa di essere fonte dell’essere: la potenza di essere come tale. Esso è allo stesso tempo un’ulteriore determinazione di quello stesso Uno. Non abbiamo a che fare, quindi, con tre enti diversi, l’uno fuori dell’altro, con tre essenze, ma con un’unica essenza triplice. Se il Terzo, la potenza di essere come tale, è ciò che deve-essere; la potenza di essere immediata è, al contrario, ciò che non-deve-essere, pena la sua negazione come potenza. Ciò, tuttavia – come evidenziato dallo stesso Schelling – «non deve affatto autorizzare a pensare il non-dovente-essere come principio del male. Infatti, finché rimane in statu potentiae, esso è, come si è detto, nello stesso modo che il dovente essere […]. Ora, solo il non-dovente-essere esplicato in quanto tale, elevato una seconda volta ex statu potentiae, solo questo deve chiamarsi male – e già soltanto da ciò risulta chiaro che il male come tale è possibile solo nella creatura»150. Come precisato da Schelling, è necessario tener presente la distinzione tra ciò quod non debet esse e ciò quod debet non esse, tra ciò cui non spetta di essere e ciò cui spetta di non essere. Solo quest’ultimo deve essere considerato principio del male, il quale diviene tale soltanto quando una qualche forza, diversa da Dio, risollevi il non dovente-essere di nuovo a essente, contro la volontà di Dio.

Ancora una volta, come nelle Ricerche, Schelling è in grado di non scivolare in una posizione manichea: poiché non può né deve esistere niente prima e al di fuori di Dio, egli introduce la possibilità del male in Dio stesso e, allo stesso tempo, riesce a preservare e tutelare la libertà umana, facendo dipendere unicamente dall’uomo la realtà del male. Come

149 Op. cit., p. 391.

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nelle Ricerche, la possibilità del male è ricondotta a quel “fondamento” o “natura” in Dio, qui denominato “cieca potenza d’essere”. Al contrario, la realtà del male è fatta ricadere sull’uomo, sulla sua libera azione di risollevare il non-dovente essere dallo stato di inattualità in cui Dio l’aveva confinato.

Un’ulteriore ripresa e sviluppo delle Ricerche concerne la convinzione dell’inesistenza di un principio autonomo, autosussistente e sostanziale del male. Il male, invece, risulterebbe da una sovversione dell’ordine ed equilibrio di forze in gioco di per sé non malvagie. Nel corso berlinese Schelling fonda questa convinzione sulla sua concezione di Spirito. Poiché lo Spirito è «unità spirituale e vivente» di quelle tre determinazioni (momenti attuali in relazione a se stesso e «possibilità», «principi dell’essere»151 futuro), allora sarà presente

nella sua interezza in ciascuna parte di quella totalità che esso stesso è. Ciò gli permette di rimanere intatto, indistruttibile anche qualora le parti si separassero. Questa constatazione è fondamentale affinché si possa parlare di una possibilità di un essere futuro e diverso da Dio, senza che questo comprometta l’immutabilità di Dio stesso. La possibilità di un altro essere, non eterno per sua natura, consiste nel possibile sollevamento dell’essere sul quale riposa l’intera unità, fino a quel momento rimasto in uno stato di quiete, ma che può essere anche innalzato a principio motore del tutto. Se questo accadesse, proprio perché lo Spirito è totalità vivente e spirituale, l’unità non andrebbe distrutta, non si assisterebbe a una disgregazione delle forme dell’Uno, ma si determinerebbe una tensione passante attraverso

151 «Il più vicino all’essere può essere soltanto l’immediata potenza di essere, ciò che per essere non ha bisogno

che di volere, ciò che quindi è già determinato [...] come volontà ancora inerte. Accanto a esso può essere pensato solo quella potenza di essere [...] soltanto mediata, della quale si può facilmente dimostrare che, per sua natura, può essere unicamente quel puro essente che può diventare un ente reale e passare a potentia ad actum solo in quanto viene posto in potentiam, che dunque presuppone qualcosa che lo ponga in potentiam, che lo neghi come puro essere. Oltre a questi due c’è un terzo principio che può essere mediato soltanto da quei due [...] e può venir pensato solamente come ciò che in quanto pura potenza di essere [...] giunge all’essere» (op. cit., p. 413). Tuttavia, prima di essere considerati come potenze dell’essere futuro, questi principi sono da determinarsi come articolazioni immanenti, come momenti dello Spirito perfetto: lo Spirito essente in sé, lo Spirito essente per sé e lo Spirito essente presso sé, come soggetto-oggetto, che può essere fuori di sé senza cessare di essere in sé.

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il tutto e propagantesi a tutte le forme. Ecco, allora, che quelle che erano mere determinazioni interne dello Spirito perfetto, si fanno potenze di un essere diverso, che ha da venire152.

La possibilità di un essere diverso da quello che immediatamente è viene salutata dallo Spirito perfetto come “benvenuta”, poiché gli rivela di essere quello che in realtà già è, ma in modo inconsapevole: un’unità vivente, sovramateriale, spirituale, indifferente allo stato di armonia o tensione delle potenze che lo animano come totalità dinamica. Solo nella libertà di accettare un essere diverso dal suo essere eterno, lo Spirito perfetto si conosce e si fa conoscere come Dio. «Dio non è Dio senza il mondo»153, poiché la Divinità consiste proprio nella sua infinita e qualitativamente unica libertà di porre o non porre un mondo al di fuori di sé. Una volta uscito dal suo in sé l’essere essenziale, le tre determinazioni si fanno ora potenze mediatrici dell’essere divino che va riportato al suo stato anteriore, cioè potenze dell’essere extra-divino. Poiché questo processo è finalizzato a trasformare l’essere divino non autoposto in autoposto, a ripristinare l’originario essere divino, ma arricchito ora di autoconsapevolezza, può essere definito “teogonico”. In questa tensione Dio è diverso in ciascuna delle tre forme ora autoescludentesi, ma non è un altro Dio: «Egli è quindi Molti, ma non molti dei, bensì soltanto un Dio»154.

152 L’essere essenziale si configura come immediata potenza di essere. Allo stesso tempo, però, anche il

puramente essente si potenzializza, riceve una potenza in sé. Una volta posto in statum potentiae, il puramente essente non è più libero di agire o non agire, ma deve agire. Questa azione è finalizzata a vincere l’in sé, l’essere essenziale, uscito fuori da sé. Come potenze di un futuro essere, diverso da Dio, invece, questi principi divengono potenze “creatrici”, “cosmogoniche”, autrici di un processo graduale, che trova fine e realizzazione in quella creatura – l’uomo – in cui l’essente fuori di sé viene ricondotto in sé e in cui si ha una coscienza “perfetta”, per così dire “divina”, in cui tutti i momenti di questo divenire sono presenti e percepiti singolarmente. In relazione al processo creativo, la prima potenza si comporta come la causa occasionante o

materialis, la causa ex qua; la seconda come causa formalis o come causa per quam e la terza potenza come causa formalis. Come cause cosmiche, esse sono anche relativamente extra-divine.

153 Op. cit., p. 487.

154 Su questa constatazione riposa la personale interpretazione schellinghiana del monoteismo e, di

conseguenza, del politeismo: «Il fondamento del monoteismo nel concetto sta in ultima analisi nel fatto che Dio non è (come nel puro e semplice teismo) il semplicemente unico, ma l’unico come Dio, ossia nel fatto che l’affermazione dell’unicità di Dio non può essere puramente negativa, ma soltanto positiva, cioè affermativa. [...] Questa pluralità però compare come tale soltanto nella separazione delle potenze, cioè nel processo; e nel

processo appare anche l’unità come tale, perché Dio è il Dio essente nelle potenze, l’operante e agente in esse,

e come tale Egli non è Molti, ma Uno» (op. cit., p. 471). Il politeismo, quindi, si avrà quando le potenze vengono considerate non nel loro rapporto a Dio, ma nella loro reciproca esclusione. Sebbene esterne a Dio, la loro divinità non è tolta, ma è sospesa.

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Dio concepisce per la prima volta il disegno di un essere diverso dal suo, della Creazione, quando davanti a lui “appare”, “si mostra” quella possibilità che Egli scorge nell’essente in sé della sua essenza e che costituisce il primo oggetto della conoscenza divina. In questa prima potenza Dio vede ogni possibile disposizione reciproca delle potenze, l’intera successione delle forme un giorno possibili, la prefigurazione di un mondo futuro155. Anche qui possiamo scorgere un’affinità e una ripresa di quanto precedentemente sostenuto nelle

Ricerche. La creazione di un essere fuori di Dio è ricondotta all’esistenza del fondamento o

di questa “prima potenza”. Per questo Schelling non parla mai di una creatio ex nihilo, ma di una creatio a partire da un non essere solo relativo, da un μή ὄν. La possibilità della

creazione, quindi, era già presente in Dio, o meglio nella sua “natura”, nel suo fondamento.

Questa prima potenza, quindi, era necessaria affinché Dio vedesse ciò che poteva esistere nel futuro, se Egli lo avesse voluto. È nel fondamento, infatti, che Dio contempla se stesso, si specchia e si riconosce come colui che sta guardando: «Nella contro-immagine del fondamento, egli vede la sua “immagine”, ma nascosta nel fondamento non ancora dispiegato»156. Il processo autorivelativo di Dio si fa allo stesso tempo processo creativo. In ogni creatura, infatti, assistiamo a un graduale superamento dell’iniziale principio ad opera delle due precedenti forze.

155 Questa idea era già presente nelle Ricerche: «Corrispondente al desiderio, che, come fondamento ancora

oscuro, è il primo moto dell’esistenza divina, si produce in Dio stesso una interna rappresentazione riflessa, per la quale, non potendo essa avere nessun altro oggetto all’infuori di Dio, Dio si contempla in immagine[…]. Infatti, poiché questo essere (la natura originaria) non è altro che l’eterno fondamento dell’esistenza di Dio, esso deve contenere in sé, per quanto nascosta, l’essenza di Dio, come una scintilla di vita che brilla nel profondo buio. […] Nell’intelletto divino stesso, come nella saggezza originaria, nella quale Dio si realizza idealmente o figurativamente, come vi è un solo Dio, così vi è anche un solo mondo possibile». (Idem,

Philosophische Untersuchungen über das Wesen der menschlichen Freiheit, cit., pp. 98; 124). In Filosofia della Rivelazione, la rappresentazione in Dio del primo essere possibile a Lui esterno «si chiama Fortuna primigenia in quanto è la prima accidentalità, il primo puramente possibile, non necessario, non appartenente

all´essere divino e tuttavia inseparabile da lui, che si presenta a Dio non appena Egli É, e che anche in seguito, quando Dio la chiama in azione, conserva sempre la natura di qualcosa che è soltanto accettato, e resta un

adsciti quid. [...] Essa è la Maja indiana che stende davanti al creatore le reti dell’apparenza, [...] per avvincere

in qualche modo il creatore e indurlo all´effettiva creazione» (Idem, Philosophie der Offenbarung, cit., p. 493).

156 Heidegger, Schellings Abhandlung Über das Wesen der menschlichen Freiheit (1809). Sommersemester 1936, cit., p. 214.

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Sulla base di questo rapporto tra le tre determinazioni dello Spirito perfetto è interpretato anche il dogma cristiano della Trinità157. Se durante tutto il processo creativo si può parlare unicamente di cause, nell’uomo, invece, acme e fine della creazione, esse si rivelano anche come personalità divine, come i tre volti dell’unica divinità:

Il Padre è colui che ha il potere dell’essere e dunque colui che pone la potenza dell’essere perché questa venga superata per mezzo del Figlio, colui che media il potere della potenza d’essere, affinché si possa giungere al giusto equilibrio dei principi e unità delle persone nello Spirito158.

Poiché l’obiettivo di questo processo di tensione delle potenze è il ristabilimento dell’originaria armonia, dell’iniziale condizione divina, il ruolo centrale è giocato dalla seconda personalità, il Figlio, la cui azione – rispondente alla volontà del Padre e non ad una propria – consiste nel riportare in sé la potenza uscita fuori di sé. Per questo nella Scrittura leggiamo che «in lui tutto è stato creato», ἐν αὐτῷ ἐκτίσθη τὰ πάντα, in lui, cioè in

considerazione di lui, tutto è stato creato (Col. 1, 16).

Il fine di questo processo teogonico e allo stesso tempo creativo è, come anticipato, una creatura in cui sia superata la tensione delle potenze, le quali solo adesso possono dispiegarsi

157 Nell’apparizione di questa possibilità, lo Spirito si percepisce già come Signore del futuro essere. Dunque

il concetto di Dio trapassa immediatamente in quello di Padre. Il Figlio, invece, è già da sempre nascosto in Dio, è il suo in-sé, che Egli ama proprio come Figlio futuro. Dio, infatti, pone, “genera” il Figlio proprio perché attraverso esso si sa libero, libero di porre un essere fuori di sé. Fino a questo momento il Figlio è tale solo per il Padre, in quanto non uscito ancora fuori da lui. Il generato, per essere tale, deve essere fuori dal generante. Fedele alla Scrittura e seguendo la medesima distinzione evidenziata da Agostino, il Figlio anche nell’interpretazione di Schelling è «generato, non creato». La generazione, infatti, sarebbe quell’atto attraverso cui il generante pone un altro, a sé omogeneo, ma con lo scopo, con la necessità di realizzare se stesso. Possiamo parlare poi di una terza personalità, nel momento in cui la terza potenza viene posta nuovamente nell’essere attraverso il superamento dell’essente fuori di sé. Anche la terza potenza ottiene così la stessa qualità di signora dell’essere, come quella del Padre e del Figlio. Tale terza potenza è lo Spirito. Poiché non poteva immediatamente re-instaurarsi nell’essere, ma aveva bisogno della mediazione da parte del Figlio, essa svolge la funzione di causa finale, di spinta di tutto l’intero movimento. Non agisce, quindi, immediatamente, ma opera nel processo penetrandovi mediatamente.

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anche come personalità divine. Ciò costituisce l’unicità e la libertà dell’uomo rispetto a tutte le altre creature: «A proposito di tutte le altre creature è detto: “Dio disse, la terra produca”, cioè il processo esterno della pura tensione delle potenze cosmiche produca. Quando invece si giunge alla creazione dell’uomo, le potenze non appaiono più come tali, ma anche realmente come personalità divine»159. Proprio perché creato non dalle mere potenze cosmogoniche, ma dalle personalità divine, l’uomo è sollevato a un immediato rapporto con il Creatore e quindi alla libertà.

Siamo così arrivati al punto che più interessa questa ricerca. Dopo questa lunga e cavillosa introduzione, Schelling può delineare la sua personale visione dell’uomo originario, dell’ipotetico progenitore adamitico e, attraverso essa, esporre la sua dottrina del peccato originale. Contrariamente a quanto più volte ribadito da Kierkegaard nel Concetto

dell’angoscia, secondo Schelling il primo uomo è assolutamente diverso da tutti i successori,